28 novembre 2025 – Notiziario Africa
Scritto da Elena Pasquini in data Novembre 28, 2025
- Africa: Cop30, il prezzo dell’emergenza climatica.
- Mozambico: la fame di gas mette in pericolo uomini e ambiente.
- Repubblica Democratica del Congo: l’attivista delle mangrovie.
- Marocco: oasi in pericolo
Questo e molto altro nel notiziario Africa a cura di Elena L. Pasquini
“Coloro che non hanno avuto alcun ruolo nel creare il problema sono i più colpiti, mentre coloro che hanno la capacità di fermare la discesa esitano. Gli africani, che emettono molto meno carbonio rispetto alle persone di qualsiasi altro continente, pagheranno il prezzo più alto. È una profonda ingiustizia”. Scriveva così Desmond Tutu nel 2014.
È dal prezzo che paga l’Africa per l’emergenza climatica che inizieremo oggi, in una edizione, dedicata alle sfide ambientali di un continente fragile e prezioso. Faremo il punto sulle promesse del Summit sul clima che si è chiuso in Brasile la scorsa settimana.
Andremo poi in Mozambico, dove è la fame di gas a mettere in pericolo uomini e ambiente. Quindi nella Repubblica democratica del Congo, per raccontarvi la storia di un attivista che cerca di difendere le mangrovie. Poi andremo alle falde del Kilimangiaro e nelle oasi del Marocco, ecosistemi e ambienti che l’uomo sta mettendo in pericolo.
Africa e COP30, il summit sul clima
Azioni e risorse, non promesse. È ciò che l’Africa si aspetta dagli accordi raggiunti in Brasile, alla COP30, il cummit sul clima che si è concluso la scorsa settimana. “La COP30 ha prodotto progressi, ma non giustizia”, ha detto Mithika Mwenda, direttrice esecutiva della Pan-African Climate Justice Alliance, come riporta Africa Eco News.
Per le organizzazioni della società civile africane, uno dei maggiori risultati è stata la decisione di mobilizzare 1,3 trilioni di dollari all’anno per il clima e triplicare le risorse per l’adattamento climatico entro il 2035.
“La vera prova del nove sarà l’attuazione … L’Africa non può permettersi altre promesse vuote”, ha aggiunto Mwenda. Perché, al momento, non ci sono certezze sulla reale possibilità di attuazione di tutti gli impegni che i Paesi riuniti in Brasile si sono assunti.
Impegni vaghi, per la riduzione dei combustibili fossili, la causa principale del riscaldamento globale, e “ancora una volta le promesse di finanziamenti per il clima per il Sud del mondo che non sono accompagnate da un piano concreto per la loro attuazione”, scrive Ben Payton su African Business.
Se stata accolta con favore la creazione Tropical Forests Forever Facility, che dovrebbe contribuire ad arginare i processi di deforestazione, il suo finanziamento è ancora ben al di sotto di quanto necessario: 25 miliardi di dollari.
E se è un passo positivo aver raggiunto il consenso sulla triplicazione dei finanziamenti per l’adattamento al cambiamento climatico, ovvero quei finanziamenti destinati ad aiutare “i paesi a diventare più resilienti agli impatti del cambiamento climatico”, scrive Payton, “c’è anche una certa ambiguità su cosa esattamente verrà triplicato, poiché nel testo non è stata inclusa alcuna cifra specifica”, aggiunge. “L’adattamento non è carità; è un’ancora di salvezza”, ha affermato Mwenda.
Le ONG africane chiedono inoltre maggiore impegno per la protezione degli ambientalisti e degli attivisti che lavorano per la giustizia climatica, in tempi di minacce sempre crescenti.
Mozambico
Nel Nord del Mozambico, a Cabo Delgado, nonostante il conflitto armato ancora in corso e una gravissima crisi umanitaria, TotalEnergies, il colosso francese dell’energia, ha annunciato in ottobre che riprenderà a sfruttare il giacimento di gas, interrotto nel 2021 ‘per cause di forza maggiore’, quando gli insorti, gruppi armati di matrice islamista, hanno attaccato l’impianto.
La ripresa del progetto preoccupa la società civile, anche per il suo impatto su un ambiente fragilissimo, quello della barriera corallina.
È di questi giorni, del 17 novembre, la denuncia penale presentata in Francia dal Centro europeo per i diritti costituzionali e umani (ECCHR) contro TotalEnergies* per complicità in crimini di guerra, tortura e sparizione forzata.
“Il colosso petrolifero e del gas è accusato di aver finanziato direttamente e materialmente sostenuto la Joint Task Force, composta da forze armate mozambicane, che tra luglio e settembre 2021 avrebbe detenuto, torturato e ucciso decine di civili presso il sito di estrazione del gas di TotalEnergies”, scrive l’organizzazione per i diritti umani.
Dopo l’attacco dei gruppi islamisti, la Task Force avrebbe intercettato i civili che fuggivano dai loro villaggi. Documenti interni di TotalEnergies, scrive il Centro europeo per i diritti costituzionali e umani, rivelano che l’azienda era a conoscenza delle violazioni dei diritti umani. Documenti ottenuti con richieste di accesso ai finanziatori del progetto, tra cui l’italiana Cassa Depositi e Prestiti.
Preoccupa la presenza di TotalEnergies anche gli ambientalisti perché l’oleodotto che dovrebbe trasportare il gas attraverserà un’aree di barriera corallina molto vulnerabile. “Analizzando le immagini satellitari e i dati delle navi, i data scientist hanno scoperto che un’enorme porzione di corallo è stata dragata dalla barriera corallina, ecologicamente sensibile”.
Responsabile sarebbe un battello draga della società olandese Van Oord, scrive Vittoria Schneider su Mongaby. In quell’area, che dalla foce del fiume Rovuma, al confine tra Mozambico e Tanzania, fino alla baia di Pemba, di fronte all’arcipelago delle Quirimbas ci sono quattro progetti di gas di ENI, Exxon e TotalEnergies.
“Total ed ExxonMobil realizzeranno oleodotti che collegheranno i punti di estrazione fino all’impianto di lavorazione di Afungi, e tali oleodotti attraverseranno un ecosistema molto sensibile”, ha affermato su Mongaby Daniel Ribeiro dell’organizzazione per la giustizia ambientale Justiça Ambiental (JA!).
“Nell’analisi di impatto ambientale, TotalEnergies ha riconosciuto che la costruzione dell’oleodotto richiederebbe l’attraversamento di barriere coralline e habitat. Anche se le misure di mitigazione proposte dall’azienda venissero adottate, le barriere coralline danneggiate o distrutte richiederebbero decenni per essere recuperate”, scrive Schenider.
Secondo un rapporto di JA!, le valutazioni di impatto ambientale non avrebbero considerato le conseguenze sull’ambiente marino.
Repubblica democratica del Congo
Kim Rebholz, nel 2022, è stato assunto dal governo della Repubblica democratica del Congo per proteggere le mangrovie in una riserva naturale sul piccolo tratto di costa che si affaccia sull’Oceano Atlantico.
Ha lottato per proteggere il Mangrove Marine Park, difenderlo dal contrabbando di legname, dalla violenza delle compagnie petrolifere, dall’agricoltura illegale. Una lotta pagata carissima, culminata con un’irruzione in casa sua e il ripetuto stupro di sua moglie. La sua storia la raccontano Josephine Moulds e Sonia Rolley su The Bureau of Investigative Journalism
Rebholz, cittadino franco-svizzero, aveva l’ambizione di estendere il progetto di conservazione all’intera regione. In quell’ecosistema fragile e prezioso, perché le mangrovie hanno la capacità di intrappolare l’anidride carbonica, pochissime attività sono consentite. Ma è lì che Rebholz scopre una piantagione di palma da olio, che sembrerebbe fare capo all’ex presidente Joseph Kabila; un porto illegale per il legname proveniente da tutto il Congo; una base per il contrabbando di petrolio.
“Rebholz ne aveva viste abbastanza. Elencando i vari modi in cui il suo parco veniva saccheggiato e distrutto, scrisse ai suoi superiori chiedendo che venisse istituita una commissione d’inchiesta. Fu il momento in cui tutto cambiò.”Nel giro di un mese e mezzo”, racconta, “le rappresaglie si sono susseguite fitte e rapide”.
Il 2 febbraio 2023, sette uomini incappucciati armati di machete e pistole fecero irruzione in casa sua nel cuore della notte. Gli puntarono la pistola alla testa e inscenarono la sua esecuzione.
“Tutto questo accadde davanti al nostro bambino”, racconta. Poi due degli uomini portarono sua moglie in camera da letto e la minacciarono di morte se avesse opposto resistenza.
Ripensandoci, Rebholz racconta: “Non sapevo che fosse stata violentata finché non se ne sono andati, perché era sicura che se avesse urlato e pianto, mi sarei arrabbiato e sarei stato colpito e fatto a pezzi”, scrivono Moulds e Rolley. La denuncia di Rebholz sembra essere sparita nel nulla.
“Prima che alle mangrovie fosse concesso lo status di riserva protetta, grandi interessi industriali avevano già lasciato il segno in quest’area”, spiega il servizio pubblicato da TBIJ.
I diritti di trivellazione oggi sono in mano a Perenco, una compagnai franco-britannica. “Rebholz afferma … che i pozzi petroliferi hanno reso la costa della RDC simile a “un groviera”.
Nella RDC è illegale bruciare sistematicamente il metano in eccesso rilasciato durante l’estrazione del petrolio, ma Perenco ha installato torce a terra vicino alle case e alle colture che sembrano fare proprio questo. Si possono vedere fiamme libere che bruciano direttamente dal terreno e ci sono chiare prove di fuoriuscite di petrolio sul terreno”, si legge ancora.
Ora, il parco deve affrontare ancora una minaccia, la costruzione di un porto da parte di una società degli Emirati Arabi, che dovrebbe essere finanziata anche dal Regno Unito.
Tanzania
Non è il cambiamento climatico la minaccia più grande del Kilimangiaro, ma è l’uso del suolo che l’uomo ne fa. Il 75% delle piante non esiste più, una perdita di biodiversità che non si arresta.
Per capire perché bisogna andare ai suoi piedi, come ha fatto Andrea Hemp, un ricercatore dell’Università di Bayreuth., che da trentasei anni studia l’Africa orientale e la vegetazione del Kilimangiaro.
Hemp ha studiato quasi cinquant’anni di immagini satellitari, dati di censimenti dall’inizio del Novecento, tremila specie vegetali. “Volevamo scoprire se la biodiversità del Kilimangiaro fosse cambiata e perché.
Abbiamo scoperto che, nelle aree popolate al di sotto del parco nazionale, il 75% delle piante autoctone del Kilimangiaro è stato spazzato via nell’ultimo secolo. Le cause principali: l’uso intensivo del suolo da parte di agricoltori e costruttori; la perdita degli habitat naturali delle piante; e il crescente numero di piante non autoctone, in parte invasive”, scrive Hemp su The Conversation.
Nonostante il clima stia cambiando, e i ghiacci del Kilimagiaro si stiano ritirando, i ricercatori ritengono che non sia questo il fattore determinate per la perdita di biodiversità.
Nel 1911, scrive Hemp, foreste e savana ricoprivano ancora i pendii più bassi del monte. Ora, buona parte di quell’area è stata edificata o usata per l’agricoltura, resta solo il 9 %. Una delle ragioni del fenomeno, è la crescita della popolazione.
“Poiché la biodiversità è la base dei servizi ecosistemici, la distruzione degli habitat naturali del Kilimangiaro non colpisce solo le piante e gli animali che vivono in habitat naturali, ma anche gli esseri umani, il cui benessere dipende da ciò”, spiega Hemp, che racconta come questo non sia un caso isolato.
“È la regola. In tutta l’ Africa tropicale , e sempre più in Asia e in alcune parti dell’America Latina , la perdita di biodiversità si sta verificando a causa dell’uso intensivo del territorio”, spiega. Esistono però delle soluzioni.
Un esempio_ gli orti domestici della popolazione indigena Chagga del Kilimangiaro sui pendii meridionali e orientali, che combinano alberi da frutto e colture, piante autoctone che “attraggono la fauna selvatica. Le persone coltivano un mix di prodotti alimentari e colture commerciali che possono essere vendute …. Non siamo condannati a scegliere tra sviluppo e natura. La montagna ha già prove concrete di modelli che proteggono entrambi”, dice Hemp.
Marocco
I cammelli muoiono di fame e di sete, mentre a causa del cambiamento climatico si spegne l’economia delle oasi. In Marocco, allevare gli animali che sono parte integrante di un’antica cultura, è sempre più costoso.
Negli ultimi dieci anni le ripetute siccità hanno avuto un impatto devastante sull’allevamento degli animali e sull’intera economia di ambienti fragili come le oasi, basati sull’equilibrio tra presenza di acqua, suoli unici e palme da dattero.
“È preoccupante. I costi sono esplosi a causa della siccità”, ha raccontato a Radio France International un allevatore di cammelli, nella comunità di Guelmin, la “porta del deserto”. Poco lontano si tiene il più importante mercato di cammelli del Marocco, quello di Amhayrich
Gli allevatori devono compare il foraggio, i prezzi gli animali sono cresciuti, non si trovano i pastori.
“L’allevamento di cammelli in Marocco è principalmente finalizzato alla produzione di carne. Nel 2023, la produzione media era di quattromila tonnellate, mentre nel 2022 la produzione di carne bovina è stata di 257mila tonnellate”, scrive RFI.
L’acqua, sempre più scarsa è contesta tra allevamento e agricoltura, i vasti pascoli aperti si stanno riducendo. Un’emergenza che è stata raccontata per iimmagini dal fotografo, M’hammed Kilito, in una serie dedicata alla crisi climatica marocchina per The Guardian e i cui scatti cono in anche in mostra a Londra fino al 1 febbraio, in Thirst: In Search of Freshwater” alla Wellcome Collection , esposzione che esplora il legame vitale dell’umanità con l’acqua dolce.
“Nel 2019, Greenpeace ha lanciato l’allarme sulla minaccia di estinzione delle oasi a causa del notevole impatto delle alte temperature sulle loro risorse idriche, con conseguente diminuzione delle attività agricole e zootecniche e lo sfollamento delle popolazioni. L’organizzazione afferma che la frequenza delle siccità in Marocco è aumentata negli ultimi 20-40 anni, passando da una volta ogni cinque anni a una volta ogni due anni”, scrive The Guardian.
Foto di copertina: Foto di E. Diop su Unsplash
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