1 novembre 2024 – Notiziario Africa
Scritto da Elena Pasquini in data Novembre 1, 2024
“I campioni non nascono in palestra, sono fatti di qualcosa che viene dal loro profondo: un desiderio, un sogno, una visione”, disse cinquant’anni fa Muhammad Ali. A Kinshasa era “Rumble in the jungle”, il match contro George Foreman, il combattimento che ha fatto la storia della boxe ma anche quella della lotta per i diritti, contro il razzismo e il colonialismo.
È ricordando quella giornata celebrata mercoledì che chiuderemo oggi il nostro notiziario, perché è con i desideri, i sogni e le visioni che l’Africa continua a lottare nonostante le crisi che l’attraversano.
Ed è da qui, però, che iniziamo, dal Sudan in guerra, dal Ciad e dal Mali afflitti dalla violenza del terrorismo, dalla tensione tra Somalia ed Etiopia. Poi, racconteremo di chi in Africa vuole tornare.
Questo è il notiziario Africa a cura di Elena L. Pasquini
Sudan
Al-Sareeha è un villaggio a sud di Khartoum, la capitale del Sudan, nella regione di Al-Jazirah.
Venerdì scorso è stato attaccato dai paramilitari delle Rapid Support Forces e, per un giorno soltanto, i media del mondo hanno posato lo sguardo su questo pezzo di Africa. Sono morte almeno 124 persone, altre 200 sarebbero state ferite e 150 arrestate, secondo i medici e gli attivisti sentiti dalla CNN.
Numeri che potrebbero essere molto più alti, in un massacro che ha avuto come obiettivo, ancora una volta, i civili.
“Secondo quanto riferito, i combattenti di RSF hanno sparato contro i civili indiscriminatamente, hanno perpetrato atti di violenza sessuale contro donne e ragazze, hanno commesso saccheggi diffusi di mercati e case e hanno bruciato fattorie.
I residenti di diversi villaggi, tra cui Safita Ghanoubab, AlHilaliya e Al-Aziba, sarebbero stati sottoposti ad aggressioni fisiche, umiliazioni e minacce che hanno portato decine di civili a fuggire dalle loro case per mettersi in salvo”, scrive l’Ufficio per gli affari umanitari delle Nazioni Unite.
Secondo gli attivisti sarebbero almeno trenta i villaggi che in questa regione sono stati abbandonati per il timore degli abitanti delle rappresaglie delle RSF. L’Organizzazione internazionale per le migrazioni stima che siano 46.700 le persone che dal 20 le 27 ottobre sono dovute scappare dalla città di Tamboul e dai villaggi vicini in cerca di protezione, di cui 39.600 sono arrivate a Gedaref e a Kassala.
Il numero degli sfollati interni in questa regione, resta, però, sconosciuto.
Numeri impossibili da verificare, quelli di chi perde la vita e di chi fugge in questa guerra che sta conoscendo una violenta escalation e che si combatte dall’aprile dello scorso anno.
Sarebbero oltre 11 milioni le persone che avrebbero abbandonato le loro case e oltre 24 mila i morti, ma secondo fonti mediche, come riporta l’ABC, l’Australian Broadcasting Corporation, potrebbero raggiungere il numero di 150 mila. Vite che non si contano e che non hanno un nome in una guerra dove a pagare un prezzo altissimo sono le donne.
“Sono stati segnalati anche casi di donne che si sono tolte la vita per sfuggire alla violenza sessuale. Uno di questi resoconti diffuso sui social media sabato afferma che più di 130 donne sono state spinte al suicidio di massa per evitare di essere violentate dalle milizie RSF”, scrive Heloise Vyas, ancora su ABC.
Un nuovo rapporto dell’Independent Fact-Finding Mission per il Sudan del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, pubblicato martedì scorso, fornisce nuovi dettagli sull’uso sistematico dello stupro da parte delle RSF, “responsabili di aver commesso violenze sessuali su larga scala nelle aree sotto il loro controllo, compresi stupri di gruppo e rapimenti e detenzioni di vittime in condizioni equivalenti alla schiavitù sessuale”.
Ottanta pagine in cui ai paramilitari sono attribuiti la maggior parte di quegli atti che si potrebbero configurare come crimini di guerra e crimini contro l’umanità, sebbene vi siano evidenze che anche le Forze armate sudanesi se ne siano macchiate.
Si tratta di un metodo “volto a terrorizzare e punire i civili per i supposti legami con gli oppositori e a reprimere qualsiasi contrasto alla loro avanzata”, scrive ancora l’ONU, e che avviene nella maggior dei casi “nel contesto di invasioni di città e paesi, attacchi a campi profughi o a civili in fuga da aree colpite dal conflitto e durante l’occupazione prolungata di aree urbane”.
In Darfur, le vittime sono prese di mira non solo per il loro genere, ma anche per l’etnia, “reale o percepita”, in questa regione dove gli “atti di violenza sessuale sono stati commessi con particolare crudeltà, con armi da fuoco, coltelli e fruste per intimidire o costringere le vittime utilizzando insulti dispregiativi, razzisti o sessisti e minacce di morte …
Questi atti di violenza hanno spesso avuto luogo davanti ai familiari, anch’essi minacciati”. Una violenza che colpisce però anche gli uomini detenuti dalle RSF.
“L’impatto di questi crimini è stato aggravato anche dal fatto che le vittime di stupro e di altre forme di violenza sessuale hanno pochissimi posti a cui rivolgersi per cure mediche, medicine e supporto psico-sociale poiché molte strutture sono state distrutte, saccheggiate o occupate dalle parti in guerra … ”, scrive ancora l’Onu.
Una violenza “sconcertante”, come ha affermato Mohamed Chande Othman, presidente della missione che ha realizzato il rapporto.
La chiamano “guerra dimenticata” quella che è deflagrata tra l’esercito sudanese e le RSF, un tempo alleati durante la stagione delle proteste che hanno condotto alla caduta di Omar al-Bashir alla guida del Sudan da tre decenni, e poi protagonisti, insieme, del colpo di stato che nel 2021 ha messo fine al governo che avrebbe dovuto condurre il Sudan alla transizione civile.
Gli attacchi di questi giorni sarebbero stati una vendetta per la resa all’esercito di Abuagla Keikal, ufficiale delle RSF, secondo quanto riporta sempre ABC.
Ciad
Sono morte almeno quaranta persone, domenica scorsa, nell’attacco di Boko Haram ad una base militare in Ciad che ospita oltre duecento soldati.
Siamo nella zona del bacino dell’omonimo lago, una terra fragilissima, dove si incontrano e si perdono i labili confini tra Nigeria, Ciad, Camerun e Niger.
“I membri di Boko Haram hanno preso il controllo della guarnigione, hanno sequestrato le armi, hanno bruciato veicoli dotati di armi pesanti e se ne sono andati”, ha detto una fonte locale, che ha chiesto di restare anonima, all’AFP.
Le organizzazioni delle società civile dei quattro Paesi dopo l’attacco hanno deciso di reagire e si sono incontrate per discutere della sicurezza della regione, come riporta la francese Radio France Internationale.
“La società civile non è un braccio armato e tanto meno una forza di sicurezza. Ma tutto ciò che possiamo fare è collaborare maggiormente con le forze di difesa per scambiare più informazioni, ma anche partecipare agli sforzi per la sicurezza”, afferma Mara Mamadou, rappresentante delle organizzazioni della società civile del Niger, si legge su RFI.
Le organizzazioni hanno presentato un piano d’azione che chiede e prevede di coinvolgere di più le comunità locali, le prime vittime della violenza.
Tre giorni di lutto nazionale, mentre prosegue la rappresaglia dell’esercito per rintracciare gli aggressori “fino alle loro ultime trincee”, come ha avvertito il presidente Mahamat Idriss Déby.
Il più grande lago endoreico – ovvero senza emissari – dell’Africa ed uno dei più vasti del mondo, ha un bacino idrografico di 2,381 milioni di km2 abitato da circa 40 milioni di persone.
L’acqua consumata per i bisogni idrici, la siccità e gli attacchi di Boko Haram, ma anche altri gruppi come lo Stato Islamico in Africa occidentale, hanno costretto milioni di persone a lasciare questa terra o a viverci in condizioni durissime.
La violenza jihadista è ormai una trgica abitudine, da quindici anni, da quando nel 2009, in Nigeria è nato il movimento che ha causato 40 mila morti e due milioni di sfollati. Secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, solo in Ciad, nella zona del Lago, circa 220mila persone hanno dovuto abbandonare le loro case.
Il Ciad resta ancora uno degli alleati di Francia e Stati Uniti nella lotta al terrorismo di matrice islamista nel Sahel, mentre Mali, Niger e Burkina Faso hanno fatto uscire dai loro Paesi gli eserciti occidentali avvicinandosi alla Russia.
Mali
“Questa violenza contro i civili e gli operatori umanitari è inaccettabile. Medici senza frontiere ribadisce che tutte le parti in conflitto devono rispettare i civili, il personale umanitario, le strutture sanitarie e i pazienti”.
È con queste parole che l’organizzazione umanitaria ha annunciato, mercoledì, la temporanea sospensione delle attività nella città di Nampala, in Mali.
È lì che il 14 ottobre scorso il team di MSF e gli operatori sanitari di comunità sono stati aggrediti e derubati da uomini armati – ma anche civili – che stavano conducendo operazioni militari nella zona.
“Il nostro team stava prestando assistenza alla comunità quando si è verificato l’incidente”, aggiunge la nota diffusa dalla ONG. Una decisione difficile, aggiungono, che priva le comunità delle cure essenziali.
“Sono in corso discussioni con tutte le parti interessate a livello locale, regionale e nazionale per garantire che tale violenza non si ripeta. Ciò ci consentirebbe di riprendere a fornire cure essenziali alle persone il prima possibile, in completa sicurezza per le nostre équipe”, proseguono.
MSF è l’unica ONG internazionale a Nampala, e fornisce assistenza medica gratuita non solo a chi abita nella periferia della città, ma anche a tanti sfollati interni.
“Anni di conflitto hanno portato a elevati bisogni sanitari in questa regione, e ora è in aumento il numero di casi di malaria, che può essere fatale per i bambini sotto i cinque anni e le donne incinte”, spiega MSF.
Nampala è una città strategica vicino al confine con la Mauritania, a circa 400 chilometri a Nord est della capitale Bamako, importante proprio nelle dinamiche di movimento dei gruppi armati della zona.
Il Mali, dove nel 2020 è salita al potere con un colpo di stato la giunta militare guidata da Assimi Goïta – che ha chiesto i militari francesi di lasciare il Paese – è diventato un epicentro della violenza islamista.
A Bamako, la capitale, il 17 settembre di quest’anno in un attacco condotto da militanti islamisti di Jama’a Nusrat ul-Islam wa al-Muslimin, gruppo affiliato ad Al-Qaeda, hanno perso la vita quasi ottanta persone, la maggior parte giovani reclute.
Un’analisi del Washington Post, firmata da Rachel Chason, che dirige l’ufficio di corrispondenza in Africa occidentale del quotidiano statunitense, e pubblicata questa settimana, spiega perché quell’attacco è un cambio di strategia: “Il messaggio del gruppo era chiaro: il suo obiettivo era la giunta governativa del Mali – e i mercenari russi che avrebbero dovuto proteggerla”, scrive Chason.
Dopo l’attacco, i miliziani hanno dichiarato che si è trattato di “una punizione per i massacri commessi da questa cricca al potere e dai suoi alleati russi contro il nostro popolo musulmano”.
Secondo quanto scrive il Washington Post, gli analisti sostengono che questo attacco indichi non solo “l’inefficacia di Wagner nel contrastare la violenza islamista” ma anche “un cambiamento strategico”.
JNIM utilizzerebbe “gli abusi di Wagner per ottenere sostegno e aumentare i suoi attacchi nel sud del Mali, minacciando potenzialmente le nazioni costiere dell’Africa occidentale a lungo considerate stabili”, dove nell’ultimo anno di sono verificate decine di attacchi a “circa 30 miglia dai confini del Mali con Costa d’Avorio, Guinea, Senegal e Mauritania”, si legge.
“Wagner ha commesso così tante atrocità contro i civili che il JNIM si sta concentrando su di loro nel tentativo di conquistare i cuori e le menti”, ha affermato Wassim Nasr, specialista del Sahel e ricercatore presso il Centro Soufan, al Post.
“E perché non dovrebbero? È facile. Li aiuterà a reclutare e li sta già aiutando a reclutare”, aggiunge. Nel 2015, l’attacco all’hotel Raddisson Blu nella capitale, aveva portato alla morte di oltre 170 persone, per lo più civili.
La scelta degli obiettivi militari da parte del JNIM durante l’attacco del mese scorso “è stata specifica, ha detto Nasr, chiarendo che il gruppo aveva scelto di concentrare gli attacchi nelle aree urbane contro il governo del Mali e le forze straniere, non contro i civili”, prosegue.
Somalia ed Etiopia
Ali Mohamed Adan è un consigliere all’ambasciata etiope di Mogadiscio. Il governo somalo gli ha dato 72 ore per lasciare il Paese. È “persona non grata”, espulso per “attività incompatibili con il suo ruolo diplomatico”, come recita una nota del Ministero degli esteri somalo.
L’accusa sarebbe quella di aver violato la Convenzione di Vienna sulle Relazioni diplomatiche, riporta Voice of America. Nessuna replica alla testata statunitense da parte etiope.
Un gesto che fa salire ancor più la tensione tra i due Paesi del Corno d’Africa impegnati in un braccio di ferro diplomatico dopo la firma di un protocollo d’intesta tra Addis Abeba e il Somaliland, autoproclamato stato indipendente che non ha ricevuto il riconoscimento della comunità internazionale.
Si tratta delle province settentrionali che fino al 1960 erano parte dell’impero britannico che si sono poi unite ai territori sotto amministrazione fiduciaria italiana per formare la Repubblica Somala, separandosene nel 1991 alla caduta del regime di Siad Barre.
L’accordo prevede che l’Etiopia ottenga in affitto 20 chilometri di costa per quel tanto agognato accesso al mare dove costruire un porto commerciale ed una base navale. In cambio il Paese guidato da Abiy Ahmed potrebbe riconoscere l’indipendenza del Somaliland. Un accordo che deve però ancora essere implementato.
Ad aprile era già stato espulso l’ambasciatore etiope Muktar Mohamed Ware con l’accusa di interferenza interna. E a luglio, la Turchia aveva condotto due round di negoziati per tentare una conciliazione senza però ottenere alcun risultato, al punto che una terza sessione prevista per settembre è stata cancellata.
Tensioni che si inseriscono in quadro regionale estremamente volatile, con la Somalia sempre sotto la minaccia del terrorismo di matrice islamista e che ospita migliaia di soldati etiopi – che ora potrebbero essere espulsi – parte di una missione di peacekeeping per contrastare al Shabaab. Poi, la guerra in Sudan, l’instabilità in Sud Sudan e nella stessa Etiopia.
Volatile, e strategica, di fronte a quel golfo di Aden lungo le acque più trafficate del mondo.
L’Egitto ha aperta con l’Etiopia la controversia sulla diga della rinascita sul Nilo e sostiene militarmente Mogadiscio a cui già in agosto ha consegnato una prima fornitura di armamenti. Egitto e Somalia, hanno poi stretto con l’Eritrea, un patto di cooperazione in materia di sicurezza in un momento in cui sembrano farsi più difficili le relazioni tra Addis Abeba e Asmara.
“L’intricata situazione include questioni relative ai diritti idrici, conflitti storici e lotte di potere regionali”, scrivono Martin Plaut e Atul Signh su The Fair Observer.
“Al centro del conflitto c’è la Grande Diga, un progetto idroelettrico sul Nilo Azzurro. La costruzione della diga in Etiopia ha fatto infuriare l’Egitto, che la vede come una minaccia per il suo approvvigionamento idrico…”, scrivono.
Una regione la cui storia, spiegano, è segnata da conflitti e alleanze mutevoli. Oggi “gli Emirati Arabi Uniti svolgono un ruolo importante nel sostegno finanziario nella regione, anche se la loro esatta strategia rimane poco chiara.
Anche altre potenze esterne, come Turchia, India, Cina e Stati Uniti, hanno interessi nell’area, complicando ulteriormente il panorama geopolitico”, si legge ancora. “Nonostante abbiano una significativa presenza militare a Gibuti, gli Stati Uniti sono attualmente occupati da altre questioni globali.
Questo relativo disimpegno dalle tensioni nel Corno d’Africa potrebbe consentire ad altri attori di colmare il vuoto di potere… La natura interconnessa dei conflitti, il coinvolgimento di molteplici potenze regionali e globali e il potenziale di una rapida escalation sono preoccupanti”, aggiungo Plaut e Signh, sottolineando la necessità di una solida forza di mediazione per evitare che la regione s’infiammi ulteriormente.
Tornare in Africa
C’è un “esodo silenzioso” di cui non si hanno numeri che dalla Francia percorre a ritroso la via che ha condotto tanti in Europa. Lo racconta un’inchiesta di BBC Africa Eye e inizia con la storia di un uomo, Menka Gomis, nato in Francia, che ha deciso di lasciare la sua famiglia e i suoi amici per il Paese dei suoi genitori, il Senegal.
“Il trentanovenne è parte di un numero crescente di francesi di origine africana che stanno abbandonando la Francia a causa della crescita di razzismo, discriminazione e nazionalismo”, si legge.
C’è anche una piccola agenzia di viaggio che aiuta chi vuole tornare alle origini, e ora ha un ufficio proprio in Senegal, il Paese da cui invece molti fuggono percorrendo una rotta mortale, quella che dalla costa atlantica punta alle isole Canarie. Un numero record di persone ha chiesto l’asilo in Francia lo scorso anno: 142.500, riporta la BBC.
“Sono nato in Francia. Sono cresciuto in Francia e conosciamo certe realtà. C’è stato molto razzismo. Avevo sei anni e a scuola mi chiamavano con la parola N. Tutti i giorni”, racconta Gomis alla BBC.
“L’Africa è come le Americhe al tempo della… corsa all’oro. Penso che sia il continente del futuro. È dove c’è ancora tutto da costruire, tutto da sviluppare”, aggiunge.
Secondo l’indagine, a tornare in Africa sarebbero francesi altamente qualificati, di seconda generazione e origine mussulmana. Le ragioni profonde risiederebbero, appunto, nel razzismo in aumento: “Secondo un sondaggio, il 91% delle persone intervistate sarebbero state vittime di discriminazione”, prosegue la BBC.
Un ulteriore studio tra oltre mille mussulmani che hanno lasciato la Francia indicherebbe che questo esodo è un trend in aumento.
Rumble in the Jungle
Era il 30 ottobre del 1974, cinquant’anni fa, allo stadio Tata Raphaël di Kinshasa, allora Zaire, oggi Repubblica democratica del Congo. “Rumble in the jungle”, l’incontro di boxe tra Muhammad Ali e George Foreman ha fatto la storia non solo dello sport ma anche dell’Africa, e del mondo contemporaneo.
Ali, che aveva cambiato il suo nome: “Cassius Clay è un nome da schiavo. Io non l’ho scelto e non lo voglio. Io sono Muhammad Ali, un nome libero. Vuol dire amato da Dio”.
Ali, che aveva perso il titolo per essersi rifiutato di andare in Vietnam.
Ali contro Foreman, il campione del mondo dei pesi massimi, il favorito, ancora imbattuto. Foreman, cresciuto in un quartiere povero di Huston, salvato da un programma del governo degli Stati Uniti e che si dichiarava “orgoglioso di essere americano”.
Sono gli anni in cui l’Africa è in fermento, dove si combatte il razzismo, si discutono nuovi modelli di società, e ci si vuole scrollare di dosso il colonialismo. L’Africa dove Ali viaggia, “assorbendo idee anticoloniali e panafricane”, come scrive Livia Gershon su Daily Jstor.
“Ali Bomayé” gridano. “Ali, mandalo al tappeto, uccidilo”. Ali aveva conquistato i cuori, ma questo era il combattimento tra due “campioni neri, in una nazione nera, organizzata da neri”, come ricorda Radio France Internationale, che ha realizzato per questo anniversario, una lunga inchiesta raccogliendo le testimonianze di chi era allora intorno a quel ring.
“Come spiega lo storico Lewis A. Erenberg, il Rumble in the Jungle è stato forse il combattimento a premi politicamente più carico di sempre”, si legge ancora su Jstor.
Erano gi anni della guerra fredda, dell’Unione sovietica che si faceva baluardo della lotta anticoloniale e degli Stati Uniti che rispondevano promuovendo “gli artisti e gli atleti neri americani come simboli delle opportunità di grandezza a disposizione di tutti”, prosegue Livia Gershon, ricordando quanto fosse significato la città dell’incontro: “Lo Zaire era stato il luogo di alcune delle pratiche coloniali più orribili durante il suo periodo come colonia conosciuta come Congo Belga. ….
Il suo governo postcoloniale ha cercato di presentarla come una nazione moderna. Per i discendenti degli africani ridotti in schiavitù negli Stati Uniti e altrove, compreso Ali, era anche importante mostrare al mondo che i loro antenati provenivano da una società civilizzata con una ricca cultura piuttosto che dalla “giungla selvaggia” immaginata dalla mitologia della supremazia bianca”, aggiunge.
Oggi serve ricordare quella notte che è stata la notte dell’orgoglio di un continente: “Quella notte, lo slancio verso Mohamed Ali è stato davvero panafricano.
Basta entrare oggi in una fumosa brasserie di Casablanca, in Marocco, per rendersene conto. Abdellatif aveva 16 anni al momento dello scontro, che vide in televisione a casa: “Era in bianco e nero.
Vengo da una famiglia modesta. Avere la televisione, per noi, era un lusso. E guardare Mohamed Ali è stato un evento (ride)! Per noi è stato un modello di successo sociale. Ha condotto ancora molti combattimenti oltre la boxe.
Era nel movimento per i diritti civili. Ha anche sostenuto Martin Luther King. È ancora un esempio. Perché Mohamed Ali era un uomo universale …”, si legge in queste splendide pagine di memoria pubblicate da RFI.
Un uomo universale che continua ad ispirare.
Ti potrebbe interessare anche:
E se credi in un giornalismo indipendente, serio e che racconta il mondo recandosi sul posto, puoi darci una mano cliccando su sostienici