16 agosto 2024 – Notiziario Africa

Scritto da in data Agosto 16, 2024

  • Sudan: a Ginevra negoziati per un cessate il fuoco
  • Niger: continuano gli attacchi terroristici
  • Uganda: una sentenza storica per crimini contro l’umanità
  • Africa: aggiornamenti sull’epidemia di Mpox

Questo è il notiziario Africa a cura di Elena Pasquini per Radio Bullets

“Il mondo non si cura del Sudan perché crede che questa sia una guerra civile; è stata presentata come una guerra tra due generali. Ma non è vero, questa guerra ha attori internazionali che inviano armi e denaro”.

Abdelaziz Baraka Sakin è uno scrittore sudanese tradotto in molte lingue, costretto all’esilio nel 2011 dopo che i suoi libri sono stati banditi.

Abbiamo scelto le parole, in una sua recente intervista all’antropologa Anna Simone Reumert sullo statunitense Public Seminar, per portarvi in Svizzera, dove in questi giorni si tenta di negoziare il cessate il fuoco in una guerra che ha fatto decine di migliaia di morti, più di 10 milioni di sfollati, e dove a giocare una macabra partita non sono solo le Forze armate sudanesi e il gruppo paramilitare Rapid Support Forces.

In Svizzera l’accordo si tenta, però, davanti a sedie vuote.

Dal Sudan, oggi, 16 agosto, 2024, andremo poi in Niger dove continuano gli attacchi terroristici, in Uganda per una sentenza storica e vi daremo nuovi aggiornamenti sull’epidemia di Mpox.

Ma ora, andiamo a Ginevra.

Sudan

I delegati delle Rapid Support Forces sono arrivati in Svizzera, questa è l’unica cosa certa. Eppure non sembra che qualcuno di quegli uomini si sia seduto al tavolo dei negoziati, da quando si sono aperti mercoledì.

A Ginevra, invece, il generale Abdel Fattah al Burhan, che guida l’esercito sudanese, si è rifiutato di mandare i suoi.

Le sedie che dovrebbero essere occupate da chi combatte da sedici mesi sono ancora vuote, e sembrano destinate a restarci a lungo.

A mediare con chi non c’è, ci sono gli Stati Uniti, che questi colloqui li hanno voluti. Al loro fianco l’Arabia Saudita. Osservatori: i rappresentanti delle Nazioni Unite, dell’Unione Africana, dell’Egitto e degli Emirati Arabi Uniti.

L’obiettivo è arrivare ad un cessate il fuoco, dare alla guerra una tregua per consentire l’ingresso degli aiuti umanitari, e attuare un precedente accordo, raggiunto a Gedda, la città saudita dall’altra parte del Mar Rosso, nel maggio del 2023, poco tempo dopo l’inizio della guerra.

Un accordo, quello di allora, che ciascuna delle due parti accusa l’altra di aver violato.

“Speriamo che il presidente al Burhan voglia inviare una delegazione di alto livello per ampliare gli sforzi negoziali”, ha affermato Tom Perriello, l’inviato speciale degli Stati Uniti per il Sudan, alla fine del secondo giorno.

Il diplomatico americano in un post su X aveva dichiarato che “incontri mirati in piccoli gruppi con esperti tecnici, hanno già prodotto idee concrete per il rispetto e l’attuazione dell’impegno delle parti nella Dichiarazione di Jeddah”.

Difficile capirne l’efficacia e la portata, senza che siano coinvolte le parti in causa.

Al Burhan era stato chiaro: non ci sarebbe stato dialogo fino a quando non fossero cessati gli attacchi delle RSF e fino a che l’ultima milizia non si sarebbe ritirata dalle città occupate.

“Non ci sarà alcune pace fino a che la milizia ribelle occuperà le nostre case, le città e i villaggi e li assedierà”, aveva detto.

Nessuna delegazione a Ginevra: non ci stanno, i militari, ad essere messi sullo stesso piano di quelli che loro chiamano “ribelli” e perché ci sono, invece, gli Emirati Arabi – come i sauditi vicini agli USA – accusati di armare le RSF, i miliziani guidati dal generale nemico, Mohamed Hamdan Dagalo, noto come Hemedti.

Solo pochi giorni prima, racconta Radio France International, al Burhan, è volato in Uganda e poi in Angola per cercare sostegno alle sue posizioni in Africa.

“Vuole così contrastare, anche simbolicamente, l’iniziativa americana. Nei prossimi giorni e settimane la diplomazia intende lavorare verso i paesi africani per difendere la posizione dell’esercito”, scrive RFI.

Il generale Yasser Atta, numero due delle Forze armate, riporta ancora la testata francese, ha parlato di “guerra diplomatica” contro il Sudan: a Ginevra, l’esercito teme di essere “intrappolato diplomaticamente”. Sarebbero Emirati ed Arabia Saudita a tentare di imporre la loro agenda.

“L’arrivo della nostra delegazione è una potente testimonianza della nostra risolutezza e determinazione nell’alleviare le sofferenze del popolo sudanese … Esortiamo fortemente la delegazione della [Forze armate sudanesi] ad adottare una posizione indipendente nel rispondere a questo invito, libera da qualsiasi influenza esterna”, recitava, invece, il comunicato stampa delle RSF.

Eppure non c’è nessuno di loro nelle foto che raccontano la prima giornata di negoziati.

“Un portavoce delle RSF ha deciso di non rilasciare commenti sui colloquio o sulla presenza della delegazione nella sessione di mercoledì”, riporta Africa News. Silenzio, ancora.

È questo che va in scena in Svizzera mentre in Sudan “la situazione sul campo è molto peggiore e più complessa di quanto suggerirebbe la retorica che circonda i colloqui odierni gestiti dagli Stati Uniti a Ginevra”, scrive Leila Molana, corrispondente dello show Newshour della PBS, appena tornata da due settimane trascorse in Sudan.

Un accesso rarissimo, un reportage in uno dei posti al mondo dove è più difficile arrivare, quello di Molana, che intervistata dalla BBC afferma: “Questi colloqui erano un azzardo anche prima che le due parti principali del conflitto si rifiutassero di presentarsi”.

Ci sono stati altri accordi, come quello di Jedda, ricorda, per garantire accesso umanitario – lo stesso tema all’ordine del giorno a Ginevra – “ma non è stato implementato nulla”.

Colloqui, spiega ancora Molana, che ponendo sullo stesso piano RSF ed esercito, avrebbero dato, agli occhi dei militari, legittimità a quelli che loro considerano ribelli.

“Cosa vogliono ottenere gli Stati Uniti non è chiaro”, dice ancora. Stati Uniti accusati dall’esercito di aver organizzato i negoziati senza aver mai messo piede in Sudan o fatto visita alle Forze armate.

Mentre in Europa si combatte con le parole, nel Paese africano, invece, si continua a morire. Violenza, fame e malattie.

Ma come è nata questa guerra, chi la combatte e perché all’inizio di questo podcast abbiamo usato le parole di Abdelaziz Baraka Sakin che afferma che questa non è una guerra civile?

Bisogna fare un salto indietro, al 2019, e forse ancora più indietro. In quell’anno i sudanesi sono insorti contro Omar al Bashir, il dittatore che teneva in mano il Paese dal 1989, e che oggi non si sa dove si trovi, in fuga dalla giustizia internazionale, accusato di genocidio.

RSF e Forze Armate si sono alleate in un colpo di stato per destituire Bashir. Poi, non è seguito alcun governo civile, il potere l’hanno condiviso i militari e le RSF – il gruppo paramilitare composto in prevalenza da miliziani janjaweed, i “demoni a cavallo”, accusati, anche loro, di aver commesso a fianco del governo i peggiori crimini nella guerra del Darfur scoppiata vent’anni fa.

Potere condiviso fino all’aprile del 2023, quando i dissidi tra i due generali sono sfociati non in una guerra civile, ma in una guerra “contro la gente” e in una guerra che per capirla bisogna allargare lo sguardo.

La partita che si gioca a Ginevra è infatti globale.

La responsabilità materiale è Forze armate sudanesi e delle RSF, ma c’è la comunità internazionale.

“Se fermassimo la guerra ora con un accordo, questo non significherebbe la pace”. Ha detto Atta, , come riporta il Wall Street Journal.

“Significherebbe solo posporla di uno, due o tre anni”.  Gli Emirati negano, ma Atta sostiene che i negoziati sarebbero possibili solo quando il Paese della penisola arabica smettesse di sostenere RSF.

Sarebbe documentato, come riporta la BBC, l’impiego di droni provenienti dagli Emirati da parte delle RSF, ma anche droni iraniani da parte dell’esercito. Esercito, che avrebbe chiuso un accordo con la Russia, che ha sempre puntato, sin dai tempi di Bashir, ad avere un’influenza forte in Sudan.

Vuole una base navale sul Mar Rosso e l’oro di cui è ricco il Paese, in particolare la zona del Jemel Amira, in Darfur, e che è stato, come racconta la rivista Nigrizia, “la fonte di ricchezza e di influenza politica nel paese, del comandante, e padrone, delle RSF”.

Scrive ancora Bruna Sironi per Nigrizia: “L’Africa è diventata uno dei teatri dello scontro tra la Russia e l’Occidente. Forse il maggiore”.

E il Sudan è un Paese cruciale, “ponte tra Africa e Medio Oriente”.  Un gioco di alleanze che nei decenni si rimodulano e che vede oggi la Russia vicina al governo di al-Burhan, che guida quello che resta del Paese sotto il suo controllo dalla citta di Port Sudan.

“La base navale militare sarebbe stata concordata in cambio della fornitura di armamenti, necessari nella guerra in corso”, si legge ancora su Nigrizia.

Colloqui che dunque non servono a niente? Non è d’accordo il britannico The Guardian. “I negoziati posso, quantomeno, offrire agli USA e ad altri un’opportunità per fare pressione sulle RSF per placare la loro brutalità e proteggere i civili” – si legge – come si erano impegnati a fare a Gedda.

Un’opportunità, anche, per i “poteri esterni” di fare passo indietro. Perché è la competizione tra potenze in Sudan “ad alimentare il conflitto”, perché ci siamo tutti, a giocare questa macabra partita.

Sudan: perché militari e paramilitari si scontrano

Il Consiglio sovrano guidato da Abdel Fattah al Burhan ha deciso di riaprire il passaggio di Adre, alla frontiera con il Chad, per tre mesi per consentire alle agenzie umanitarie di portare aiuta nella regione del Darfur dove oltre sei milioni di persone sono a rischio fame.

Una regione, quella del Darfur, in larga parte controllata dalle Rapid Support Forces. La distribuzione degli aiuti, ricorda l’agenzia Reuters, era stata bloccata a febbraio con l’accusa di essere utilizzata per fare entrare armi nel Paese.

“Esperti delle Nazioni Unite hanno scoperto all’inizio di quest’anno che le accuse che RSF abbia ricevuto armi dagli Emirati Arabi Uniti attraverso il Chad erano credibili”, scrive Reuters. Una mossa dei militari che sembra voler anticipare le richieste che arriveranno dai negoziati in corso in Svizzera.

Niger

Si nascondono nella regione di Tillabéri, nel sud-est del Niger, gli islamisti affiliati allo stato islamico e ad Al-Qaeda, e all’inizio della settimana avrebbero ucciso altre quindici persone, secondo quando riporta l’esercito nigerino.

La regione è quelle dei “tre confini”, tra Niger, Mali e Burkina Faso, una regione agricola ma con risorse minerarie da sfruttare. Potrebbe essere una meta turistica, con il suo parco naturale e il fiume, è invece, terra di scontri sempre più frequenti, terra di morte.

“Nella zona di Méhana, elementi terroristici hanno perpetrato numerosi atroci atti di violenza contro popolazioni civili indifese, il bilancio è pesante e tragico: 14 persone hanno perso la vita e diverse persone sono rimaste ferite”, si legge nel comunicato dei militari come riporta l’agenzia AP.

In questa zona, che vive di agricoltura, i gruppi armati impediscono ai contadini di coltivare la terra. Molti, però, continuano, rischiando la vita.

“Prima dell’inizio della stagione delle piogge – che dura da giugno a settembre – l’esercito ha creato unità speciali per proteggere gli agricoltori dai jihadisti”, scrive France 24, che cita i dati dell’organizzazione Acled: dopo il colpo di stato che ha portato al potere un regime militare nel luglio del 2023, circa 1.500 civili e soldati sono morti in attacchi jihadisti, rispetto ai 650 dal luglio 2022 fino al golpe.

Qui, operavano militari francesi e americani per contrastare i gruppi islamisti fino a quando il governo di Abdourhamane Tiani ha chiesto loro di lasciare il Paese.

Mpox

Il primo caso di MpoX fuori dall’Africa in Europa è stato individuato ieri in Svezia. Una notizia che arriva il giorno dopo che l’Organizzazione mondiale della Sanità ha dichiarato l’allerta sanitaria internazionale.

Si tratto di un sottotipo, considerato tra i più letali, di quello che era un tempo chiamato “vaiolo delle scimmie”. L’agenzia svedese per la sanità pubblica ha specificato che il portatore sarebbe stato infettato durante un soggiorno in Africa.

Si tratta della variante identificata nella Repubblica democratica del Congo che sta vivendo una drammatica recrudescenza della malattia e dove dall’inizio dell’anno sono morte 548 persone, con oltre 15 mila casi.

Uganda

Thomas Kwoyelo è stato condannato per crimini contro l’umanità: 44 capi d’imputazione per l’ex comandante del LRA, la Lord’s resistance Army, l’Esercito di resistenza del Signore, commessi in vent’anni di guerra sanguinosa. A giudicarlo colpevole l’alta corte della città di Gulu, nel Nord del Paese.

Accusato di aver ucciso, rapito, stuprato, torturato, saccheggiato e distrutto persino i campi dove hanno cercato rifugio gli sfollati di questa guerra che ha fatto oltre 100 mila morti, era stato arrestato nella Repubblica democratica del Congo nel 2009.

Il suo avvocato, Caleb Alaka aveva detto all’Agence France Press in maggio che Kwoyelo “era stato sempre coerente nel ritenersi innocente”.

Una storia, quella di Kwoyelo, iniziata come quella di molti altri: era un ragazzino di 12 anni quando è stato rapito dalla milizia fondata alla fine degli anni Ottanta da Joseph Kony, con l’obiettivo di creare uno stato teocratico basato sui Dieci comandamenti.

Uno dei 60 mila bambini rapiti in questo regno del terrore che dall’Uganda ha raggiunto la Repubblica democratica del Congo, il Sudan, il Sud Sudan e la Repubblica centrafricana.

Perché è sui bambini che si è in particolare accanita la ferocia di questo gruppo guidato da un fanatico, sanguinario, che diceva di opporsi al governo di Yoweri Museveni, in realtà macellando la sua stessa gente.

Una guerra conclusa solo nel 2006 con l’avvio di un processo di pace. Nel 2021, un altro bambino soldato, divenuto un comandate di primo piano del gruppo armato, Dominic Ongwen, era stato condannato a 25 anni di prigione per crimini di guerra e crimini contro l’umanità.

 Joseph Kony, invece, è ancora ricercato.

Foto di copertina: Foto di Jonny Clow su Unsplash

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