23 maggio 2025 – Notiziario Africa

Scritto da in data Maggio 23, 2025

  • Etiopia sull’orlo della crisi politica: voci silenziate, pace in bilico
  • Uccisioni, stupri, fame, blackout: l’Etiopia sotto processo.
  • Usa e Sudafrica: l’agguato di Trump a Ramaphosa
  • LAfrica che resiste, crea, sogna: da Cannes a Napoli

Questo e molto altro nel notiziario Africa di Radio Bullets a cura di Elena L. Pasquini

“Volevo che il mondo sapesse che il mio paese, l’Etiopia, ha sempre vinto con determinazione ed eroismo”. Abebe Bikila è il campione che corre scalzo e vince la maratona alle Olimpiadi di Roma del 1960.

Rappresenta, quel giorno, il suo Paese e un intero continente che tenta di affrancarsi dal colonialismo. Vince, al buio, a piedi nudi. “Con determinazione ed eroismo” deve provare a vincere l’Etiopia di oggi, vincere la battaglia che conta davvero, quella della pace.

Perché il Paese di Abebe Bikila è sempre in bilico, sull’orlo del baratro, e ha bisogno di quello stesso coraggio e di quella stessa tenacia. È da qui che partiamo, dall’Etiopia, dalle tensioni che la stanno lacerando, dalle vittime delle sue guerre e dalle sue voci costrette al silenzio.

Poi, andremo negli Sati Uniti, a Cannes ed infine a Napoli, per una giornata, quella di domenica, che è un invito e che vuole raccontare un’Africa coraggiosa e determinata, come Abebe. L’Africa del futuro che si costruisce anche qui. Oggi, 23 maggio 2025.

Etiopia, crisi politica

Una corda di violino tanto tesa che basta un leggero giro alla chiave per farla saltare, un arco pronto a scoccare, un campo di stoppie che attende una piccola scintilla per prender fuoco.

È così che da lontano, sembra l’Etiopia, e il suo martoriato nord, il Tigray, dove non si può più entrare. Per raggiungerlo, agli stranieri, adesso, serve un permesso speciale, che equivale a un “divieto”.

Un segno, ancora, del deterioramento nelle relazioni tra il Governo federale e la regione che il feudo del TPLF, il Tigray People’s Liberation Front, che è stata teatro di un conflitto armato costato la vita ad un numero imprecisato di persone, almeno 600 mila.

“Posso confermare che agli stranieri è ora vietato recarsi nel Tigray, anche se non siamo stati informati ufficialmente sulle motivazioni alla base di questa decisione”, ha affermato un consigliere di Debretsion Gebremichael, il leader del TPLF parlando con il corrispondente dell’Ethiopian Tribune a Mekelle, la capitale del Tigray.

“Rapporti provenienti dall’aeroporto internazionale di Bole indicano che i passeggeri stranieri che tentavano di imbarcarsi su voli per il Tigray o la vicina regione di Afar sono stati sistematicamente respinti da lunedì.

Fonti a conoscenza della situazione, che hanno richiesto l’anonimato data la delicatezza della questione, suggeriscono che la direttiva provenga dal Servizio Nazionale di Intelligence e Sicurezza (NISS) dell’Etiopia”, riporta ancora il Tribune.

“Tali restrizioni indicano in genere una crescente sfiducia tra le autorità federali e regionali. Ciò potrebbe rappresentare una battuta d’arresto significativa per gli sforzi di riconciliazione”, ha dichiarato sempre al Tribune, Mesfin Araya, analista di conflitti presso l’Università di Addis Abeba.

Una decisione che arriva in un momento particolarmente critico, con lo spettro di un possibile nuovo confitto armato con l’Eritrea, gli scontri che continuano al confine con la regione Ahamara, il TPLF diviso, e infine rimosso ufficialmente dalla lista dei partiti politici dell’Etiopia.

Una crisi politica che potrebbe mettere a rischio la pace che si è iniziata a costruire dopo la firma a Pretoria, nel 2022, dell’accordo che ha fatto tacere le armi.

Il TPLF, che non è più un partito per non aver indetto la sua assemblea come prevede la legge elettorale, sostiene che la firma degli accordi “gli concede di fatto la registrazione come partito politico.

Rifiutare il nostro riconoscimento legale significa minare le fondamenta stesse dell’accordo di pace “, sostiene il partito, come riporta RFI, Radio France Internationale.

Il 15 maggio, il TPLF ha inviato una lettera al Presidente della Commissione dell’Unione Africana, chiedendo all’organizzazione di fare pressione sul governo etiope affinché sospenda questa decisione.

Secondo Mehdi Labzaé, ricercatore del Centro nazione di ricerca scientifica di Francia sentito dalla redazione Africa di RFI, esiste effettivamente una minaccia al processo di pace.

“Il TPLF è firmatario dell’Accordo di Pretoria, che è un accordo di cessazione delle ostilità e non un accordo di pace in sé. Quindi è stato il TPLF, in quanto parte, a firmare l’accordo.

Oggi, ciò che stiamo vedendo è che uno dei firmatari dell’accordo sta revocando il riconoscimento dell’altro firmatario”.

 Secondo Labzaé, il presidente Abiy Ahmed starebbe utilizzando l’accordo di pace per dividere il TPLF, con una strategia che alterna cooptazione e repressione.

“Si cerca di smantellare l’opposizione proponendo la cooptazione a una parte, che è esattamente ciò che è successo al TPLF. E poi reprimendo l’altra parte. Ora ciò che temiamo è la forma che assumerà la repressione.

E si può solo sperare che questa non sia un’altra guerra contro il popolo del Tigray. Ma abbiamo motivi per preoccuparcene”, aggiunge Labzaé.

Una guerra che avrebbe conseguenze devastanti per il Tigray ancora fragilissimo e non completamente pacificato, e per l’intera regione del Corno d’Africa.

Etiopia, voce alle vittime

Le voci delle vittime della guerra del Tigray sono state ascoltate in un’udienza pubblica, la scorsa settimana, davanti alla Commissione africana sui diritti dell’uomo e dei popoli.

Il caso, portato avanti dagli avvocati della Legal Action Worldwide, della Pan-African Lawyers Union (PALU) e della Debevoise & Plimpton, punta il dito contro il governo etiope, accusato di aver commesso violazioni diffuse durante il conflitto armato conto il TPLF, il Tigray People’s Liberation Front.

Violazioni, che secondo gli avvocanti non sono cessate neppure dopo gli accordi di Pretoria.

“Le voci dei sopravvissuti sono state finalmente ascoltate sulla scena internazionale”, hanno scritto i legali in una nota.

“Questa udienza è un passo fondamentale verso l’assunzione di responsabilità”, ha affermato un rappresentante della società civile tigrina, che dà speranza non solo a chi è sopravvissuto, “ma a milioni di tigrini che hanno sopportato sofferenze inimmaginabili”.

La Commissione dovrebbe pronunciarsi in tempi brevi sulle responsabilità dell’Etiopia, che secondo i legali non avrebbe rispettato le misure provvisorie emanate dalla Commissione Africana nel 2022 che le intimavano di cessare le esecuzioni extragiudiziali, la tortura, la violenza sessuale e di genere e gli attacchi contro gli operatori umanitari.

“La recente decisione della Commissione di procedere con un’audizione orale dimostra il crescente riconoscimento internazionale delle gravi violazioni commesse dall’Etiopia contro i civili, che vanno dalle uccisioni di massa e dalla violenza sessuale agli sfollamenti forzati, alla carestia e a un prolungato blackout delle comunicazioni”, si legge ancora nella nota.

Un’udienza che manda un messaggio potente, secondo Antonia Mulvey, direttore esecutivo di LAW, non solo all’Etiopia, ma a tutta la comunità internazionale: “Le atrocità non possono essere sepolte nel silenzio”, ha detto.

“I sopravvissuti al conflitto del Tigray hanno atteso troppo a lungo per essere visti, ascoltati e creduti. Oggi compiamo un passo fondamentale per assicurare i responsabili alle loro responsabilità, riaffermare la promessa delle leggi internazionali sui diritti umani e il rispetto del diritto internazionale umanitario”, ha aggiunto.

Etiopia, stretta sui media

Almeno in sette sono finiti in carcere in Etiopia, solo nell’ultimo mese. Sette giornalisti.

Ahmed Awga è in prigione da tre settimane. Sul fondatore del Jigjiga Television Network pendono accuse di ‘istigazione’.

È in custodia cautelare. La sua colpa è aver intervistato un uomo che racconta di suo figlio, un sedicenne, morto per un pestaggio della polizia.

“Nell’intervista”, riporta il Comitato per la protezione dei  giornalisti, l’uomo “ha chiesto giustizia per la morte del figlio, affermando che un agente gli ha dato un calcio alla testa mentre indossava degli stivali, dopodiché è stato ricoverato in ospedale ed è deceduto per le ferite riportate”. Un’accusa che il capo della polizia ha respinto.

Sempre ad aprile, tre dipendenti dell’Addis Standard sono stati trattenuti per poco tempo. Arrestato, invece, Muhyidin Abdullahi Omar, redattore dell’agenzia di stampa statale Harari Mass Media Agency e fondatore del canale YouTube Biyyoo Production, accusato di diffamazione e disinformazione, rischia fino a tre anni di reclusione.

Era già stato arrestato in passato, ora il suo datore di gli ha sospeso lo stipendio. E ancora, rilasciato la scorsa settiamna dopo una cauzione di 113 dollari, Fanuel Kinfu, fondatore del sito web Fentale Media, sempre con l’accusa di diffamazione.

Anche Abebe Fikir è stato rimesso in libertà su cauzione: aveva chiesto un commento “su una controversia immobiliare” ed è finito dentro con l’accusa di aver filmato senza autorizzazione.

“Nel frattempo”, spiega sempre la CPJ, il 17 aprile, “il parlamento ha approvato un emendamento ampiamente criticato alla legge sui media del 2021 che ha aumentato il controllo governativo sull’Autorità Etiope per i Media (EMA), l’organismo di regolamentazione responsabile dell’emanazione di sanzioni contro le testate giornalistiche che violano l’etica della stampa, inclusa la revoca delle licenze”.

Una revisione della normativa che secondo giornalisti e attivisti per i diritti umani aprirebbe le porte ad “indebite influenze” della politica sulla stampa.

“L’ostilità dell’Etiopia verso la stampa è stata evidente nei frequenti arresti di giornalisti critici, e ora il Paese è sulla buona strada per invertire i progressi ottenuti con l’approvazione [di quella stessa] legge considerata un tempo progressista”, ha affermato Muthoki Mumo, coordinatore del programma Africa del CPJ.

Secondo i dati del Comitato, che non ha ricevuto nessuna risposta dalle autorità locali in merito agli arresti di aprile, l’Etiopia è il secondo peggior Paese dell’Africa subsahariana per numero di giornalisti in carcere, dopo l’Eritrea.

Stati Uniti e Sudafrica

Donald Trump ha in mano un mucchio di fogli e un video. Le prove, dice il presidente degli Stati Uniti, di un genocidio. Li sventola di fronte a Cyril Ramaphosa, il presidente del Sudafrica.

Ad esser sterminati sarebbero i bianchi, per mano dei neri.

Quello che va in scena nello studio ovale a Washington, mercoledì, è di nuovo uno show che non tralascia alcun dettaglio. Come era stato con Volodymyr Zelensky.

Questa volta, però, non si arriva al punto di rottura. Ramaphosa sapeva che l’incontro sarebbe stato un agguato, ed è arrivato pronto e con l’obiettivo di ricucire rapporti tesissimi: il Sudafrica ha bisogno degli Stati Uniti, secondo partner commerciale.

Ma anche gli Stati Uniti, forse, hanno bisogno delle ricchezze sudafricane. Su questo scommette Ramaphosa

Al seguito si è portato campioni di golf dalla pelle bianca, e una grande dose di autocontrollo. “Abbiamo molte persone che si sentono perseguitate e vengono negli Stati Uniti”, ha detto Trump.

“Stanno fuggendo dal Sudafrica per la propria sicurezza.

Le loro terre vengono confiscate e in molti casi sono uccise”, ha aggiunto il presidente. Una narrazione inquietante e diffusa, mito, quello del genocidio bianco e della “sostituzione” etnica che è diventato un punto chiave per l’estrema destra non solo americana.

Ma se il Sudafrica ha uno dei tassi di omicidi più alti al mondo, la stragrande maggioranza delle vittime è nera. “La polizia sudafricana ha registrato 26.232 omicidi a livello nazionale nel 2024, di cui 44 legati alle comunità agricole. Otto di queste vittime erano agricoltori”, scrive l’agenzia Reuters.

La tensione con gli Stati Uniti è iniziata a salire con la pormulgazione di una legge che autorizzava la confisca dei terreni agricoli detenuti dalla minoranza bianca, “una minoranza che rappresenta solo il 7% della popolazione, ma che possiede più del 70% di questi terreni”, come racconta Radio France Internationale.

Ma solo per ragioni di interesse pubblico, come per esempio nel caso di terre incolte. Espropri, però, mai avvenuti, ricorda ancora Reuter.

Ultima tappa nell’escalation della tensione è stato l’arrivo negli Stati Uniti, la scorsa settimana, di 49 afrikaner che hanno ottenuto lo status di rifugiati.

“Se ci fosse stato un genocidio dei contadini afrikaner, scommetto che questi tre signori non sarebbero qui”, ha detto Ramaphosa, riferendosi ai golfisti Ernie Els e Retief Goosen e al miliardario Johann Rupert, tutti bianchi, presenti nella stanza.

“Abbiamo migliaia di storie che ne parlano, abbiamo documentari, abbiamo servizi giornalistici”, incalza Trump. “Bisogna rispondere”.

Pretoria, però, è nel mirino di Washington non solo per questa ragione, come spiega RFI, ma anche “per la sua vicinanza a Pechino e Mosca” e perché nel 2023, il governo sudafricano ha presentato una denuncia contro alla Corte internazionale di giustizia, “accusandolo di aver violato la Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio … “.

Rapporti tesissimi culminati con l’espulsione dell’ambasciatore sudafricano dagli Usa.

Lui, Ramaphosa, a Washington voleva parlare di commercio.

“Per il Sudafrica, il rapporto con gli Stati Uniti è essenziale … Pretoria è preoccupata per le tariffe doganali annunciate dal presidente americano, tariffe al momento sospese, ma che potrebbero in futuro comprendere una tassa del 31% sulle importazioni sudafricane.

Questo avrebbe gravi conseguenze per il mercato del lavoro sudafricano”, sostiene la testata francese. Sul tavolo il Sudafrica ha messo una proposta d’investimento che “includeva l’acquisto di gas naturale liquefatto dagli Stati Uniti”.

Ma quali sono le carte che il Sudafrica si può giocare per ricucire i rapporti con gli americani? Le ricchezze del suo sottosuolo. “Il suo paese possiede notevoli riserve di minerali, manganese, cromo e metalli della famiglia del platino.

Si potrebbe prendere in considerazione un accordo in questo ambito, simile a quello fatto con l’Ucraina? È quanto ha suggerito Vincent Magwenya, portavoce del presidente sudafricano.

L’ipotesi è quindi sul tavolo. Questo sarebbe un modo per appianare le divergenze e consentire al Sudafrica di guardare al futuro con maggiore serenità….”, scrive ancora RFI.

Cannes

Nollywood sulla Crosiette. Per la prima volta la Nigeria è nel programma ufficiale di Cannes con il film “My Father’s Shadow” del regista Akinola Davies Jr, lungometraggio proiettato nella sezione ‘Un Certain Regard’.

Il racconto di due ragazzi che seguono per un interno giorno il padre mentre il Paese attende un colpo di stato: un solo giorno a Lagos in una Nigeria in bilico, nel 1993. Un padre assente, come tanti padri in Nigeria.

La sceneggiatura è di suo fratello, e per entrambi è una storia molto personale avendo perso il padre quando erano molto piccoli.

“Ci si aspetta ancora che gli uomini nigeriani si prendano cura delle loro famiglie, il che significa che sono via per lavoro la maggior parte del tempo, e a volte anche molto lontani”, si legge su France 24. “

Volevamo esplorare la questione di cosa sia più importante: la frenetica ricerca di un sostentamento o il trascorrere più tempo con le persone care?”

Un film girato in pochissimo tempo, ma con tanta fatica in un Paese dove l’industria cinematografica ha conosciuto un boom da farne la “seconda più prolifica al mondo, preceduta solo dall’India.

Ogni anno vengono sfornati circa 2.500 film, quasi cinque volte di più rispetto agli Stati Uniti.”, ricorda France 24. Un’industria che però è fatta per lo più di film a basso budget, giranti in fretta e che è rimasta a lungo lontana dalle rassegne più blasonate.

Fino ad oggi.

“Da bambino sentivo sempre parlare di Cannes e ritrovarmi qui con il mio primo film nel festival più prestigioso del mondo è un po’ surreale”, afferma il regista, scrittore e videoartista che lavora tra la Nigeria e il Regno Unito.

“Essere il primo film nigeriano selezionato a Cannes è anche qualcosa di molto speciale”, aggiunge, come racconta France24.  Ed importante per tutto il settore, come spiega il regista James Omokwe: “Questo aprirà nuove porte al nostro settore”, spiega. “È una visibilità internazionale per il nostro lavoro”.

Napoli

Si celebra in piazza, a Napoli, l’Africa Day, il giorno della nascita dell’Unione Africana. Si celebra con musica, poesia, giochi, danza e attività per bambini.

Si celebra con tavole rotonde e dibattiti, domenica 25 in Piazza Garibaldi e il 26 all’Università Orientale. Si celebra per sfidare, cambiare la narrazione dominante di questo continente così vasto e complesso.

Una giornata dove c’è tanta cultura perché la “cultura è uno strumento di lotta”,  spiega a Radio Bullets Daria Spina, vicepresidente e responsabile della comunicazione dell’’Associazione studenti e diaspora africana’ a cui si deve l’organizzazione dell’evento, un’associazione nata nel 2021 per dare supporto burocratico agli studenti di origine straniera iscritti all’università in Italia, ma che nel tempo ha allargato la sua visione e la missione: “Quello cerchiamo di diffondere è una narrazione alternativa dell’Africa che tenga conto delle sue complessità e delle sue ricchezze, delle migrazioni”.

Asda lo fa anche attraverso eventi come questo, e tante altre attività, “spazi ricreativi e culturali aperti a tutt3, che vadano oltre orientamento politico ed età (per dirne due)”, racconta ancora Daria. “La ricchezza della nostra associazione è proprio la nostra diversità, siamo italiani, migranti, seconda generazioni, studenti e lavoratori”.

Cosa significa cambiare la narrazione? Significa cambiare quel “linguaggio comune” che è il prodotto di decenni di racconti, di informazione passata attraverso i mass media occidentali a partire dalla stagione della decolonizzazione e delle indipendenze, secondo Adam Coulibaly, il presidente dell’associazione. “Discorsi che aiutavano a pulire la coscienza dei paesi colonizzatori”, ci dice.

“Ancora oggi, continua a sussistere questi tipo di linguaggio, anche nell’arena pubblica. Basta notare come molti dicano ‘l’Africa è ricca ma i vostri leader sono corrotti’, ‘voi siete poveri perché sono corrotti’, senza precisare che c’è un corrotto c’è un corruttore”.

Come si dovrebbe allora parlare dell’Africa? “Basterebbe semplicemente vestirsi di un abito semplice”, aggiunge Adam. Abbandonare “l’arroganza, la conoscenza a priori”, “mettersi nella disposizione di accogliere la conoscenza, le informazioni, e osservare, [per esempio], i membri della diaspora che vivono qui”. Non dare mai nulla per scontato.

Questo fine settimana sarà una buona occasione per confrontarsi con ciò che non sappiamo, per incontrarsi. Ma anche per interrogarci sul futuro, e su quale Africa vogliamo, che è il tema del convengo che si terrà il 26 all’Antisala degli Specchi dell’Università orientale, un convegno che parla di sfide e trasformazione.

‘Che Africa vogliamo?’ È la domanda che abbiamo rivolto ad Aly Diallo, membro fondatore e portavoce dell’Asda: “L’Africa che vogliamo è quell’Africa libera, l’Africa reale e realistica, l’Africa non [caricaturale], non raccontata dentro una cornice esotica.

Ma l’Africa che è un territorio che si muove, [l’Africa] dei movimenti sociali e culturali, delle tecnologie, delle grandi città. [L’Africa] che una realtà complessa … Vogliamo un’Africa veramente libera da qualsiasi racconto che la infantilizzi. Più che altro vogliamo un’Africa normale come tutti gli altri continenti”.

Ma c’è anche un’Italia che vogliono le nuove generazioni, che sono il futuro di questo Paese e del continente africano? “L’Italia che vogliamo in realtà già è stata pensata molto prima di noi dai padri fondatori. Basterebbe soltanto implementare la Costituzione italiana”, afferma ancora Aly, “visto che è una delle più belle al mondo ….

E vogliamo un’Italia che rappresenti tutti i suoi cittadini”, un’Italia umana, con un “ruolo da rivendicare”, adulta, non un’Italia “che non sa cosa fare da grande”.

Per conoscere più nel dettaglio il programma dell’Africa Day di Napoli c’è la pagina Instagram dell’Associazione.

Ti potrebbe interessare anche:

Basta sparare sulla stampa: appello per l’informazione a Gaza

E se credi in un giornalismo indipendente, serio e che racconta il mondo recandosi sul posto, puoi darci una mano cliccando su Sostienici


[There are no radio stations in the database]