29 agosto 2024 – Notiziario Mondo

Scritto da in data Agosto 29, 2024

  • Burkina Faso: il più drammatico attacco terroristico della storia recente del popolo burkinabé.
  • Sahel: questo conflitto armato non è il conflitto di un solo Paese.
  • Sudan: aggiornamenti alla lotta per contrastare l’epidemia di mpox.

Questo e altro notiziario Africa di Radio Bullets, a cura di Elena Pasquini

Burkina Faso

Colpi di arma da fuoco. Gli uomini imbracciano Kalashinkov. Chi tiene in mano il telefono corre su una moto e riprende corpi accatastati nelle fosse. Indossano abiti civili. Scarpe, ciabatte di plastica sono abbandonate accanto a vanghe e picconi.

È Barsalogho, provincia di Sanmatenga, centro-nord del Burkina Faso, Sahel. Poco lontano, Kaya, la città strategica, ultimo baluardo militare che separa i ribelli dalla capitale, Ouagadougou.

Qui, a Barsalogho, l’esercito reclutava civili per costruire chilometri di trincee. Le trincee ora sono fosse comuni. Ad uccidere, Jama’at Nasr al-Islam wal-Muslimin, JNIM, “gruppo di sostegno all’Islam e ai mussulmani”, un’organizzazione jihadista, affiliata ad al-Qaeda.

Tra le 9 e le 16 di sabato, i ribelli hanno aperto il fuoco indiscriminatamente. Otto ore, e la conta dei morti è impossibile. Centinaia secondo le ricostruzioni dei testimoni e della stampa. Solo in quel minuto di video se ne conterebbero almeno novanta.

Verificarlo, però, è anche questo impossibile. Duecento vittime, “più di 500”, dice all’agenzia Reuters una fonte che chiede di restare anonima.

“Tutto quello che potevano fare era sdraiarsi uno sopra l’altro. È stata una carneficina”, aggiunge, raccontando di come uomini armati abbiano sparato anche alle donne che raccoglievano legna da ardere nelle vicinanze.

Almeno 400 vittime, secondo una dichiarazione rilasciata nella capitale dai parenti dei residenti di Barsalogho. Oltre trecento i feriti, molti evacuati a Kaya.

Le autorità non hanno fornito numeri. Non lo farà quasi certamente – di sicuro non sulle vittime civili – Jama’at Nasr al-Islam wal-Muslimin che si è limitata a dichiarare di aver preso il “controllo totale del quartier generale della milizia burkinabé a Barsalogho”.

L’esercito sarebbe però intervenuto fermando l’attacco.

Donne, bambini, molti giovani, soldati e i membri dei “Volontari per la difesa della patria”, civili anche loro, ma armati: è l’attacco più letale nella storia del Burkina Faso, l’ex colonia francese, chiamata fino al 1984 Alto Volta.

Fu Thomas Sankara, a cambiarne il nome: Burkina Faso, “terra degli uomini integri”. Terra di savana, di antiche civiltà e raffinate culture, oggi anche di guerra.

Quei civili con le vanghe e i picconi, sarebbero stati forzati dall’esercito a scavare le trincee. Picchiati, quanti si rifiutavano per paura delle ritorsioni dei jihadisti.

Perché è frequente che i civili vengano fatti bersaglio, tanto dai gruppi armati quanto dall’esercito, con l’accusa di aver collaborato con il nemico. Costretti con la pistola alla testa, riporta Al Jazeera.

Il gruppo che rappresenta le famiglie delle vittime, il Collettivo Giustizia per Barsalogho, ha affermato nella dichiarazione vista dall’Agence France-Presse che i militari del Burkina Faso hanno “obbligato le persone, attraverso minacce, a prendere parte ai lavori di costruzione, contro la loro volontà”, scrive Voice of America.

Il portavoce della giunta militare che guida il paese, Jean Emmanuel Ouedraogo, non ha riposto alla richiesta di commento da parte dell’agenzia di stampa Reuters.

“Faremo in modo che il nemico sappia che non accetteremo mai più una simile barbarie sul nostro territorio”, ha detto il ministro della Sicurezza, Mahamadou Sana.

“Vogliamo assicurare al popolo burkinabé che ci impegniamo a proteggere i burkinabe e le loro proprietà e che rimarremo saldi”, ha aggiunto.

Dal 2015 il Burkina Faso – 22 milioni di persone che abitano 275 kilometri chilometri quadrati di terra senza pace – è teatro di una guerra tra il governo e i jihadisti che ha costretto circa 2 milioni di persone ad abbandonare le proprie case ed è costato la vita ad almeno 20 mila persone.

Il governo è guidato da una giunta militare sotto la leadership del presidente ad interim Ibrahim Traoré, salito al potere con un colpo di stato nel 2022, facendo proprio della lotta al terrorismo la sua priorità.

Terrorismo che è minaccia crescente, sia da parte del JNIM che dal suo rivale, lo Stato islamico della provincia del Sahel.

“Secondo le stime della fine dell’anno scorso, il ramo di al Qaeda controllava almeno il 40% del territorio burkinabé. Tuttavia, l’ISSP continua a colpire anche all’interno.

[La giunta al governo] tenta di controllare i combattimenti all’interno del Burkina Faso, nonché di impedire il flusso di violenza jihadista oltre i confini del Paese e negli stati vicini come Benin, Togo, Ghana e ora, in misura minore, Costa d’Avorio”, scrive l’analista Caleb Weiss sul Long War Journal.

Una lotta, quella contro gli islamisti, che il governo porta avanti sempre di più con l’ausilio dei “Volontari per la difesa della Patria”, milizia di autodifesa fondata nel 2020 e che di fatto agisce “essenzialmente come un’altra ala dell’esercito formale del Burkina Faso”, aggiunge Weiss.

Traoré avrebbe armato decine di migliaia di civili in tutto il Paese, mentre i mercenari dell’ex-Wagner sarebbero impiegati principalmente nella formazione delle truppe d’elite e nella protezione della capitale.

Jama’at Nusrat al-Islam wal-Muslimin è un gruppo salafita-jihadista nato nel 2017 in Mali, dalla fusione di altri quattro gruppi, ed è il più attivo nella guerra del Sahel, ma non l’unico.

È guidato dal maliano Iyad Ag Ghaly o Abu al-Fadl, ex combattente tra le fila dei separatisti Tuareg nella regione del Kida. “Fin dalla sua nascita, JNIM si è evoluto da una coalizione poco organizzata di gruppi militanti jihadisti locali a un’entità strategicamente coerente”, spiegano gli analisti di Acled, organizzazione che raccoglie i dati sui conflitti armati nel mondo.

Un gruppo con una strategia, sostengono, che include una combinazione di “guerriglia, uso strategico della violenza, governo [dei territori] e controllo della popolazione, guerra economica e operazioni mediatiche e di propaganda”, oltre che alleanze con diverse comunità locali e gruppi etnici.

“La guerra del JNIM si concentra principalmente sulla lotta contro le forze governative internazionali e locali nei paesi in cui il gruppo è attivo. Si presenta come un’avanguardia contro gli invasori stranieri e un’alternativa ai governi locali, che descrive come “regimi fantoccio” dell’Occidente, corrotti, laici e anti-islamici”, scrive Acled.

Secondo il Global Terrosim Index, il Burkina Faso è il Paese più colpito dal terrorismo, che nel 2023 avrebbe fatto circa 2000 vittime, con una crescita di quasi il 70 percento rispetto all’anno precedente: un quarto di tutte le morti per terrorismo dello scorso anno nel mondo.

Un attacco, quello di Barsalogho, che indica, secondo Weiss, quanto la situazione sia deteriorata in Burkina Faso, e è misura di cosa sta avvenendo nell’intero Sahel.

E che accade, come ha ricordato Nicholas Haque, corrispondente di Al Jazeera, in un momento in cui c’è una grande incertezza tra le fila militari sulla capacità della giunta di fermare gli attentati”.  Si sentono correre le voci, aggiunge, di colpi di stato e contro-colpi di stato.

 “I gruppi armati stanno bloccando sempre più città e paesi, compresi i principali centri abitati che si trovano fuori dalla capitale del Burkina Faso, Ouagadougou.

…I blocchi impediscono gravemente l’accesso ai servizi essenziali e hanno ridotto il commercio e l’agricoltura, distruggendo i mezzi di sussistenza”, scrive International Rescue Committee.

Quella del Burkina Fasa, un Paese dove il 40 percento della popolazione vive sotto la soglia della povertà, è, secondo l’organizzazione umanitaria norvegese, la quarta crisi più dimenticata al mondo.

 Mali

Tinzaouatène è una città al confine tra il Mali e l’Algeria, in quel nord del Paese travagliato dalla lunga guerra del Sahel.

Ed è ancora al centro della cronaca, dopo che a luglio, qui, l’esercito mailiano e i mercenari russi che combatto al loro fianco hanno subito pesantissime perdite da parte del Quadro Strategico permanente per la difesa del popolo Azawad, i ribelli separatisti, che nel 2015 avevano firmato con il governo un accordo di pace, salvo poi tirarsene fuori.

Un attacco di droni avrebbe ucciso, domenica scorsa, 21 persone, tra cui 11 civili. Colpita prima una farmacia, poi assembramenti. Così si legge sul comunicato diffuso dai separatisti.

“L’esercito della giunta maliana e i mercenari russi del gruppo Wagner (…) hanno effettuato diversi attacchi con droni dal Burkina Faso a Tinzaouatène, a pochi metri dal territorio algerino”, scrivono.

L’esercito fornisce un’altra versione: gli obiettivi erano terroristici. I militari invitano la popolazione civile a “stare lontano dai terroristi”, riporta la francese Radio France Internationale. Due abitanti della città intervistati telefonicamente e separatamente da RFI hanno invece “raccontato di aver perso parenti civili, tra cui tre bambini, durante gli attacchi”.

Conferme arrivano da fonti attendibili, riporta ancora la rivista Jeaune Afrique, incluso un funzionario di una ONG locale: “almeno 20 civili, compresi bambini, sono stati uccisi dal fuoco dei droni domenica …”.

Secondo Rida Lyammouri, del think tank marocchino Policy Center for the New South, le forze maliane e russe non avrebbero una presenza consistente sul terreno.

“Per questo ci si aspetta che gli attacchi aerei, inclusi quelli contro I civili, aumentino come atto di ritorsione a seguito del recente arretramento subito dai mercenari [russi] nel nord del Mali“, ha affermato Lyammouri all’agenzia americana Associated Press.

La Danimarca chiude l’ambasciata di Mali e Burkina Faso

Ancora un Paese europeo che chiude le sue ambasciate in Sahel. La Danimarca lascia il Mali e il Burkina Faso a causa delle tensioni con le giunte militari salite al potere con i golpe che si sono succeduti negli ultimi quattro anni.

Colpi di stato che “hanno fortemente limitato le possibilità di azione nella regione”, recita un comunicato della diplomazia danese.

Allo stesso tempo verranno aperte le rappresentanze diplomatiche in Tunisia, Senegal e Ruanda, e potenziate quelle in altri Stati.  Si tratta di “nuova strategia di impegno della Danimarca con i paesi africani”, aggiunge la nota.

Una decisione che sostiene, ancora una volta, quel cambio di rotta negli equilibri di questa parte di Africa. L’irrigidimento nei rapporti tra l’Europa e i regimi militari di Mali, Burkina Faso e Niger aveva già condotto la Norvegia a ritirare i suoi rappresentati dal Mali poco dopo che Bamako aveva deciso la fine della missione dei caschi blu dell’Onu.

Così la Svezia, aveva già pianificato di chiudere l’ambasciata a fine anno, prima che il 9 agosto, il governo, sempre del Mali, desse al Paese scandinavo 72 ore per sgomberare, a causa delle dichiarazioni del ministro Johan Forsell e del taglio agli aiuti allo sviluppo: “Non potete supportare la guerra illegale d’aggressione russa contro l’Ucraina e allo stesso tempo ricevere centinaia di milioni di corone ogni anno di aiuti”, aveva detto Forsell.

Ed è dal Mali che è iniziata la stagione dei colpi di stato che stanno mutando il corso della storia di una regione tanto sofferente quanto ricca (di minerali) e strategica.

Era l’agosto 2020, quando i militari hanno destituito e arrestato Aboubakar Keita, dopo settimane di proteste contro questo Presidente accusato di non essere capace di fermare la violenza jihadista del Nord.

Sicurezza, promette la giunta, oggi guidata da Assimi Goita, che a sua volta ha strappato il potere al suo predecessore, Bah Ndaw con un secondo golpe.

Poi, è stata la volta del Burkina Faso e del Niger. La narrazione è quella “anti-imperialista” che muove dal risentimento verso la Francia, l’ex potenza coloniale accusata di neo-colonialismo, cacciata con le sue truppe insieme a quelle americana.

I militari al potere in Sahel guardano, invece, oggi, al supporto russo e a quello dei mercenari degli Africa Corps, ex-Wagner.

Sahel, nuove strategie di comunicazione

Una strategia di comunicazione condivisa per Mali, Niger e Burkina Faso, i tre Paesi guidati da giunte militari e riuniti nell’Alleanza degli Stati del Sahel.

È di questo che hanno discusso esperti e politici, il 22 e 23 di agosto, raccolti intorno alla figura di Alhamdou Ag Ilyene, ministro della Comunicazione del Mali.

Un workshop che poterà alla nascita di piattaforme digitali. “Un passo cruciale nel rafforzamento della comunicazione istituzionale e della diplomazia pubblica dell’AES, in un momento in cui la nostra regione si trova ad affrontare sfide di sicurezza senza precedenti”, ha scritto in un post su X il Ministro.

Un segno del continuo rimpicciolirsi dello spazio per le voci che contestano il potere, secondo la stampa internazionale.

“Questo workshop ha una duplice missione: rafforzare la resilienza delle nostre popolazioni locali di fronte a molteplici shock interni ed esterni e contrastare le campagne di disinformazione orchestrate da coloro i cui interessi sono minacciati dall’unione dei nostri tre paesi”, ha aggiunto il Ministro.

“Rassicurare le nostre popolazioni” e “sensibilizzare la comunità internazionale sulla giustezza della nostra causa”: questo l’obiettivo.

Ma l’iniziativa, secondo Radio France international, è un ulteriore conferma di quanto già sta avvenendo da tempo in questi Paesi dove i regimi militati hanno progressivamente ristretto la libertà d’informazione, sia per i media internazionali che nazionali.

“Il termine guerra dell’informazione viene usato regolarmente.

Agli operatori dell’informazione viene ordinato di sviluppare il cosiddetto giornalismo “patriottico” e una parte della stampa viene messa con la museruola”, scrive RFI.

Molte testate sono state chiuse o sospese, i giornalisti espulsi, gli accrediti non concessi. E poi, giornalisti arrestati, costretti ad arruolarsi, ma anche esposti anche alla minaccia del terrorismo, uccisi, scomparsi.

Paesi che sono “un buco nero” nell’informazione, per Reporters senza Frontiere, in cui la copertura delle notizie è ormai sempre più affidata a media all’estero o giornalisti in esilio.

L’epidemia di Mpox

Pochi giorni dopo l’annuncio dell’Organizzazione mondiale della sanità che l’Mpox è un’emergenza globale, Moses Sawasawa si è seduto ad aspettare che un uomo di novant’anni si svegliasse.

“La maggior parte dei casi colpisce i bambini – il 70 percento – io volevo raccontare l’altro 30 percento”, ha detto all’Associated Press. Moses è un fotografo freelance, vive e lavora nella Repubblica democratica del Congo, il Paese dove sono morte oltre seicento persone dall’inizio dell’anno, con oltre 18 mila casi.

Il suo obiettivo si è avvicinato il più possibile al volto ferito dalla malattia, ai baffi radi e agli occhi di Christophe Chavilinga. “È una foto che ha una storia”, spiega.

È la storia unica di un anziano paziente che attende le cure in un Paese da decenni in guerra, un Paese che ha conosciuto ebola, che conosce fame, miseria, epidemie di morbillo e colera, malaria.

Ma è anche la storia di tanti che nel cuore dell’Africa devono affrontare l’ennesima sfida.

Foto simbolo, pubblicata sul sito dell’agenzia di stampa americana, di chi non può che aggrapparsi alla speranza e alle cure possibili.

Secondo l’Africa Centres for Disease Control and Prevention serviranno circa 10 milioni di dosi di vaccino nel continente. L’RDC è il Paese che ne ha più bisogno.

Diecimila mila dosi, intanto, sono arrivate in Nigeria, “il primo Paese africano a ricevere una partita nel mezzo dell’epidemia”, scrive la BBC, dove i casi registrati sono appena 40 ma potrebbero essere più di 700.

Nessun caso di quella nuova variante, la più pericolosa, la Clade 1b, individuata invece in Congo e che ha iniziato a diffondersi nei paesi vicini.

“Non ci sono ancora vaccini specifici, ma quelli per il vaiolo funzionano anche contro questa malattia”, spiega ancora la BBC.

La distribuzione dei vaccini procede lentamente, non ce ne sono in RDC, epicentro dell’epidemia, anche “se il Paese ha chiesto le dosi due anni fa e i produttori dicono di averne”, scrive Stephanie Nolen sul New York Times.

Le dosi “sono [bloccate] nel processo bizantino di regolamentazione dei farmaci dell’OMS”, aggiunge.

Tre anni dopo l’ultima epidemia globale, l’organizzazione “non ha ancora ufficialmente approvato i vaccini – mentre l’hanno fatto USA e Europa – e neppure ha rilasciato una licenza d’uso di emergenza che velocizzerebbe l’accesso”, aggiunge la Nole.

Approvazione necessaria per le campagne di immunizzazione condotte dalle organizzazioni umanitarie su cui fanno affidamento i Paesi più poveri.

Intanto, però, è di ieri la notizia che potrebbero arrivare un milione di dosi, come riporta la francese RFI, citando la dichiarazione di Jean Kaseya, direttore generale dell’Africa Centre for Disease Control and Prevention.

“Ci stiamo muovendo verso la garanzia di quasi un milione di dosi di vaccino contro il vaiolo”, ha detto in una riunione del comitato regionale dell’OMS per l’Africa, in Congo-Brazzaville.

Sarebbero già 215 mila quelle che verrebbero fornite dal produttore danese Bavarian Nordic. In Africa, però, mancano le risorse per combattere la malattia: c’è solo “il 10 percento dei 245 milioni di dollari necessari” per raggiungere l’obiettivo, ha dichiarato sempre ieri un funzionario dell’Africa CDC, secondo quando scrive l’agenzia Reuters.

La RDC si è impegnata con 10 milioni, l’Unione Africana con 10,4 milioni. Alcuni tra i Paesi più ricchi hanno deciso di contribuire con delle donazioni. Eppure non basta.

Sudan

La scorsa settimana si sono conclusi a Ginevra i colloqui, voluti dagli Sati Uniti, che avrebbero dovuto condurre ad un cessate il fuoco nella guerra che dalla primavera del 2023 combattono l’esercito sudanese e il gruppo paramilitare delle Rapid Support Forces. Ma le armi non faranno silenzio.

Le Forze armate sudanesi non si sedute al tavolo dei negoziati – intorno al quale c’erano Arabia Saudita, Emirati, Unione Africana e Nazioni Unite. Ma secondo quanto riporta Radio France Internationale nelle parole di Tom Perriello, l’Inviato speciale degli Stati Uniti per il Sudan, i contatti con l’esercito non sarebbero mai stati interrotti.

È arrivata, invece, l’apertura di vie d’accesso per portare aiuti umanitari ad una popolazione stremata, con 10 milioni di profughi e la carestia dichiarata nel campo di ZamZam.

Gli aiuti passeranno per la frontiera con il Chad, a Adrè, verso il Darfur e poi per la strada di al-Dabbah. Si starebbe valutando anche una terza via.

Questo mentre arriva la notizia, con una eslcusiva dell’agenzia di stampa Reuters, che il Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite avrebbe messo sotto indagine, tramite l’Ufficio dell’Ispettore generale, due dei suoi massimi funzionari.

“Gli investigatori stanno cercando di capire se lo staff del WFP ha tentato di nascondere (ai donatori) il presunto ruolo dell’esercito sudanese nell’ostacolare gli aiuti durante i brutali sedici mesi di guerra”, secondo cinque fonti sentite da Reuters.

Sotto indagine il vice capo della missione in Sudan, Khalid Osman, ma anche il manager Mohammed Ali, indagato invece per la presunta sparizione di carburante, riporta Reuters. Il WFP, la più grande agenzia di aiuti umanitari al mondo, ha confermato che “accuse di cattiva condotta individuale legate alle irregolarità nelle operazioni in Sudan” sono sotto esame urgente.

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