5 giugno 2025 – Notiziario Mondo
Scritto da Barbara Schiavulli in data Giugno 5, 2025
- ONU, il veto americano sull’ennesimo cessate il fuoco a Gaza.
- Israele minaccia di bloccare la nave con Greta Thunberg diretta a Gaza.
- Etiopia: due anni a giornalista per un post su facebook.
- In Vietnam si torna a decidere quanti figli avere. Chi si ricorda di Tienanmen?
Introduzione al notiziario: La voce dei sepolti pesa sulle nostre labbra chiuse”
Questo e molto altro nel notiziario di Radio Bullets a cura di Barbara Schiavulli
Israele e Palestina
Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU si è espresso con 14 voti a favore e uno contrario – quello degli Stati Uniti – su una risoluzione che chiedeva un cessate il fuoco immediato, incondizionato e permanente a Gaza, oltre all’accesso umanitario senza restrizioni.
Ma, come già accaduto a novembre, Washington ha posto il veto, bloccando ogni iniziativa.
L’ambasciatrice americana Dorothy Shea ha motivato il no dicendo che la risoluzione avrebbe “indebolito gli sforzi diplomatici in corso” e “rafforzato Hamas”. Ha inoltre accusato il testo di “creare una falsa equivalenza tra Israele e Hamas”.
Ma per molti membri del Consiglio, è proprio il veto USA a minare la credibilità delle Nazioni Unite.
Dure le reazioni. Per la Cina, il voto ha “messo a nudo” l’ostacolo principale alla fine del conflitto: l’ostinata opposizione americana. Il Pakistan ha parlato di “macchia morale” e di un momento che “risuonerà per generazioni”.
La Francia ha definito il veto un impedimento al ruolo del Consiglio.
Il rappresentante palestinese Riyad Mansour ha annunciato che porterà ora la risoluzione all’Assemblea Generale, dove nessun paese può porre il veto. La risposta dell’ambasciatore israeliano Danny Danon? “Non sprecate le vostre energie”.
E mentre il Gaza Humanitarian Fund, sostenuto dagli USA, viene criticato per coordinarsi con le forze israeliane, il bilancio umanitario è sempre più catastrofico.
E spostiamoci a Gaza, dove la parola “umanitario” rischia di diventare solo una copertura per operazioni che di neutrale non hanno più nulla.
La Gaza Humanitarian Foundation, l’unica organizzazione al momento autorizzata a distribuire aiuti nella Striscia, ha appena cambiato volto.
Il nuovo direttore si chiama Johnnie Moore, è un pastore evangelico americano e un fervente sostenitore di Donald Trump.
È lo stesso Moore che in passato ha scritto che gli Stati Uniti dovrebbero “prendersi la responsabilità di Gaza”, cancellando con un post decenni di diritto internazionale.
Ma la sua nomina non è solo simbolica. Arriva dopo le dimissioni dell’ex direttore, Jake Wood, che ha lasciato l’incarico denunciando la mancanza di rispetto per i principi fondamentali dell’aiuto umanitario.
La GHF, infatti, è sostenuta da Washington e Tel Aviv, ma è stata respinta da tutte le principali agenzie umanitarie, incluse le Nazioni Unite, proprio perché non è considerata imparziale.
Nel frattempo, si moltiplicano le denunce di attacchi da parte dell’esercito israeliano nei pressi dei centri di distribuzione GHF. “Le persone stanno rischiando, e in molti casi perdendo la vita, solo per cercare di prendere del cibo,” ha dichiarato il portavoce dell’ONU.
E c’è dell’altro.
La GHF è avvolta da un alone di mistero: una donazione di oltre 100 milioni di dollari da un paese occidentale non meglio identificato.
Due società di sicurezza private americane coinvolte. La registrazione in Svizzera e Delaware tramite società di comodo. E soprattutto il sospetto – sempre più insistente – che dietro tutto questo ci sia lo Stato di Israele, tramite il Mossad e il ministero della Difesa.
Il tutto è esploso con un video dell’esercito israeliano in cui si afferma che i centri GHF sono stati aperti proprio dai soldati. E così, l’aiuto umanitario si trasforma in operazione militare.
E allora la domanda è una sola:
come si può parlare di neutralità quando gli aiuti sono distribuiti da chi bombarda?
In mezzo, come sempre, ci sono i palestinesi. I civili. Gli affamati. Quelli che cercano pane e trovano droni. Quelli che stanno morendo anche oggi, mentre chi dice di aiutarli fa i conti con le strategie geopolitiche e le guerre d’influenza.
■ GAZA: Il Ministero della Salute guidato da Hamas ha dichiarato che almeno 95 palestinesi sono stati uccisi e 440 feriti tra ieri e oggi. Secondo il Ministero, dall’inizio della guerra sono stati uccisi 54.607 palestinesi.
Asaad al-Nasasra, uno dei due soccorritori civili sopravvissuti all’incidente di marzo nel sud di Gaza, in cui le truppe israeliane hanno ucciso 15 dei loro colleghi, ha dichiarato alla Mezzaluna Rossa Palestinese di essere stato risparmiato dopo aver detto ai soldati in ebraico: ” Non sparate. Sono israeliano “, spiegando che sua madre è una cittadina palestinese di Israele, ha riportato il Guardian .
Secondo il rapporto, inizialmente i soldati pensavano che al-Nasasra fosse morto.
Quando hanno scoperto che era vivo, un soldato gli ha puntato un fucile alla testa. Dopo che al-Nasasra ha parlato, i soldati “sono rimasti un po’ confusi” e hanno deciso di risparmiarlo.
■ CISGIORDANIA: Germania, Francia, Regno Unito, Canada e altri otto paesi occidentali hanno criticato la politica israeliana in Cisgiordania in una dichiarazione congiunta , avvertendo che decine di migliaia di palestinesi sono ad alto rischio di “trasferimento forzato” a causa della crescente violenza dei coloni.
I paesi hanno esortato le autorità israeliane a smantellare un avamposto di coloni che era stato stabilito vicino al villaggio di Mughayyir al-Deir e “ad adottare misure urgenti ed efficaci per consentire il ritorno in sicurezza dei residenti sfollati”.
■ ISRAELE: Circa 20 manifestanti di estrema destra si sono presentati al valico di frontiera di Kerem Shalom per impedire ai camion di aiuti di entrare a Gaza.
Martedì, l’Unità di difesa dell’IDF ha presentato una petizione all’Alta corte di giustizia israeliana affinché interrompesse l’indagine del revisore dei conti Matanyahu Engleman sugli eventi del 7 ottobre , sostenendo che stava oltrepassando il suo mandato e mettendo a repentaglio sia i diritti del personale dell’IDF sia l’integrità di qualsiasi futura commissione d’inchiesta statale.
Gli ufficiali interrogati dallo staff del controllore hanno affermato che le domande si sono concentrate principalmente sui messaggi inviati dall’esercito al governo prima della guerra , in particolare sul perché i comandanti affermassero che Gaza non mostrava segni di un conflitto imminente e non aggiornassero i leader politici.
È stato anche chiesto loro perché non fossero stati utilizzati meccanismi di controllo per monitorare i fondi che rafforzavano le capacità di Hamas.
Un ufficiale delle IDF è stato recentemente promosso al grado di comandante di battaglione, nonostante la decisione di indagare sulle affermazioni dei suoi subordinati secondo cui avrebbe ordinato loro di sparare a due abitanti di Gaza con una bandiera bianca.
Nel dicembre 2024, un editoriale di Haaretz scritto da un soldato che aveva assistito all’accaduto , così come un rapporto investigativo di Haaretz sugli eventi accaduti lungo il corridoio di Netzarim, hanno rivelato l’incidente.
Un influente rabbino del partito Giudaismo Unito della Torah ha ordinato ai parlamentari della sua fazione di sostenere lo scioglimento della Knesset , a causa dell’incapacità del governo Netanyahu di approvare una legge che esentasse gli Haredim dal servizio militare obbligatorio, in una mossa che potrebbe portare a elezioni anticipate.
Sarebbe ironico che il governo di Netanyahu cadesse per mano dei suoi più grandi amici.
■ SIRIA: Le IDF hanno dichiarato di aver colpito le installazioni militari siriane nel sud del Paese. Gli attacchi sono avvenuti dopo che due razzi sono stati lanciati dal territorio siriano verso Israele e sono caduti in aree aperte martedì sera. In una dichiarazione, le IDF hanno affermato: “Il regime siriano è responsabile di ciò che accade in Siria e continuerà a subirne le conseguenze finché continueranno le attività ostili dal suo territorio”.
FLOTILLA: Un’imbarcazione con a bordo l’attivista climatica Greta Thunberg e altri 11 volontari è salpata domenica da Catania per consegnare aiuti simbolici a Gaza, ma potrebbe non arrivare mai a destinazione.
Israele ha infatti lasciato intendere che impedirà l’attracco. “Siamo preparati anche per questo caso”, ha dichiarato il portavoce militare israeliano, generale Effie Edfrin, evocando la “esperienza” maturata in situazioni simili.
Un’allusione diretta al tragico precedente del 2010, quando le forze speciali israeliane uccisero nove persone a bordo di una flottiglia umanitaria diretta all’enclave.
La nave – parte dell’iniziativa Freedom Flotilla Coalition – ha già percorso oltre 380 miglia nautiche. Un’altra imbarcazione dello stesso gruppo, la Madleen, è stata colpita da droni a inizio maggio al largo di Malta.
Thunberg, 22 anni, ha definito la missione “necessaria”, anche se pericolosa: “Il vero pericolo è il silenzio del mondo mentre un intero popolo viene genocidato”.
Dicono che sia solo una barca, solo una manciata di aiuti. Ma evidentemente fa paura. Perché la disobbedienza civile, quando porta con sé la verità, può pesare più di qualunque missile. E se anche una ragazza di vent’anni salpa per Gaza, allora forse la coscienza collettiva ha ancora una speranza di svegliarsi.
Iran
Il leader supremo iraniano, Ali Khamenei, ha respinto con durezza la più recente proposta statunitense, secondo cui Teheran dovrebbe rinunciare del tutto all’arricchimento dell’uranio. “È al 100% contro i nostri interessi”, ha dichiarato, bollando l’idea come una forma di dipendenza mascherata.
La proposta americana – secondo indiscrezioni veicolate da mediatori dell’Oman – sembrava ammettere arricchimento a basso livello, ma un post di Trump ha smentito anche questo spiraglio.
Il presidente ha dichiarato di aver parlato con Putin, il quale si sarebbe detto disposto a intervenire nella trattativa. “Ma serve una risposta chiara da Teheran, e in tempi brevi”, ha aggiunto.
Khamenei ha chiarito che l’Iran non intende rinunciare a un ciclo completo del combustibile nucleare, definendolo motivo di orgoglio e sovranità nazionale.
“Una politica di zero arricchimento è un’industria inutile. Sarebbe come cederla agli americani.”
Gli Stati Uniti avrebbero suggerito una coalizione regionale che fornisca all’Iran l’uranio per usi civili, ma Teheran rifiuta l’idea di dipendenza energetica.
Pur sostenendo di non voler ottenere l’arma atomica, l’Iran continua ad avvicinarsi ai livelli di arricchimento che la renderebbero possibile. Intanto, Khamenei attacca: “Voi americani avete bombe atomiche. Perché dovremmo ascoltarvi su cosa possiamo o non possiamo fare con il nostro uranio?”
Parole dure, che confermano come sul nucleare l’Iran non cederà facilmente. Più che una questione tecnica, è ormai una battaglia di identità. E dietro le trattative, lo spettro del decimo Stato nucleare si avvicina.
Etiopia
In Etiopia, dire la verità – o anche solo cercarla – può costare la libertà. Il giornalista Ahmed Awga, fondatore della Jigjiga Television Network, è stato condannato a due anni di carcere da un tribunale regionale nella zona di Fafen, nella regione somala etiope.
Il motivo? Un post su Facebook che non ha scritto lui.
Arrestato lo scorso 23 aprile con l’accusa di incitamento, Ahmed aveva intervistato un uomo il cui figlio era morto dopo un presunto pestaggio della polizia.
L’accusa iniziale è stata poi modificata in “propagazione di disinformazione e incitamento pubblico” sulla base di una legge anti-odio del 2020.
Ma secondo l’analisi del Committee to Protect Journalists, e confermata anche da fonti giornalistiche indipendenti, la condanna si basa su un post che appartiene a un’altra pagina, in cui Ahmed era stato semplicemente taggato.
Nei contenuti effettivamente pubblicati da lui in quei giorni, non c’è traccia delle affermazioni incriminate.
Eppure è bastato.
Angela Quintal, direttrice per l’Africa del CPJ, parla di un caso “scioccante” e di una “escalation nella repressione della libertà di stampa in Etiopia”. Un paese che, solo ad aprile, ha arrestato almeno altri sei giornalisti e che ha recentemente rafforzato il controllo sull’autorità di regolazione dei media.
Il presidente della regione somala, Mustafa Mohammed Omar, ha respinto ogni accusa di repressione. Ha parlato di giustizia indipendente e ha affermato che chi è in carcere – tra cui un giornalista, un ex funzionario e due attivisti – avrebbe diffamato le forze di sicurezza ed esagerato le condizioni carcerarie.
Repubblica Democratica del Congo
In Repubblica Democratica del Congo, il giornalismo è entrato ufficialmente in zona proibita. Il governo ha vietato a tutti i media di parlare delle attività dell’ex presidente Joseph Kabila o di intervistare i membri del suo partito.
Il motivo?
Kabila è tornato nel Paese dopo due anni di esilio autoimposto, ed è di nuovo al centro della scena politica, accusato di tradimento e di presunti legami con i ribelli dell’M23, in lotta con l’esercito regolare.
Accuse che l’ex presidente respinge, ma che hanno spinto il senato a revocare la sua immunità. E ora, il governo guidato da Félix Tshisekedi sembra voler cancellare anche la sua voce, mettendo a tacere l’intera narrazione.
Il CSAC, l’autorità di regolazione dei media, ha avvertito: chi infrange il divieto sarà sospeso.
Ma non tutti ci stanno.
In un post su X, Ferdinand Kambere, segretario del partito di Kabila, ha definito la decisione “arbitraria”.
Anche gli attivisti per i diritti umani parlano di abuso di potere, mentre i media nelle zone controllate dall’M23 hanno annunciato che ignoreranno il divieto.
E infatti, mentre Kinshasa tenta il blackout informativo, Kabila continua a farsi vedere, a Goma, nei territori ribelli, tra leader religiosi e società civile. E tutto finisce online, sui canali del suo partito.
Spagna
A Barcellona si preparano all’estate come a una vera e propria emergenza.
Con le ondate di calore sempre più frequenti e pericolose a causa del cambiamento climatico, la città ha deciso di potenziare la rete dei “rifugi climatici”: spazi pubblici freschi e accessibili dove rifugiarsi nelle ore più torride.
Quest’anno ne saranno attivi 400, una cinquantina in più rispetto al 2023. Si tratta di piscine, biblioteche, musei, asili nido, ma anche parchi attrezzati, tutti pensati per offrire riparo soprattutto a bambini e anziani, le fasce più vulnerabili.
Ogni quartiere ne avrà almeno uno, ha spiegato la vicesindaca Laia Bonet, responsabile per l’urbanistica e la transizione ecologica. L’obiettivo è ambizioso: garantire che il 90% dei cittadini abbia un rifugio a meno di 10 minuti a piedi da casa.
Il Comune prevede inoltre l’ampliamento degli orari di apertura ad agosto, quando la città si svuota ma il caldo resta. E saranno potenziati anche gli spazi pubblici ombreggiati e le aree gioco con acqua, sempre a disposizione gratuitamente. In totale, quest’estate Barcellona avrà almeno 70 nuove zone ombreggiate.
Russia e Ucraina
Donald Trump torna in campo e riferisce di una telefonata “molto franca” con Vladimir Putin. Il presidente russo gli avrebbe assicurato una risposta imminente al massiccio attacco ucraino del weekend contro aeroporti militari in Russia.
“Una buona conversazione”, ha detto Trump, “ma non porterà a una pace immediata”.
È la prima volta che il presidente americano commenta l’offensiva con droni, che secondo Kiev ha colpito 41 velivoli russi, tra cui bombardieri strategici. Washington, intanto, nega di essere stata avvertita in anticipo.
Putin accusa l’Ucraina di “atti terroristici” e rifiuta ogni summit con Zelenskyy, che dal canto suo bolla la proposta russa di cessate il fuoco come “un bluff” utile solo a guadagnare tempo, reclutare truppe e accumulare armi. “È spam diplomatico”, ha dichiarato.
L’unico accordo emerso finora a Istanbul è lo scambio di cadaveri e feriti. E mentre la guerra prosegue, il ministro della Difesa USA non si è presentato all’incontro internazionale di Bruxelles, segnando un possibile segnale di disimpegno da parte americana.
Zelenskyy rilancia: propone un cessate il fuoco preventivo per aprire un vertice a tre, con Trump come mediatore. E mentre la diplomazia arranca, gli attacchi continuano su tutta la linea del fronte.
Vladimir Putin ha avuto una conversazione telefonica con papa Leone XIV.
Lo rende noto il Cremlino citato da Interfax.
Putin ha espresso apprezzamento al papa per la sua disponibilità ad aiutare a risolvere la crisi ucraina.
Tra spam diplomatico e droni intelligenti, la guerra si gioca su più fronti: militare, simbolico, mediatico. Ma la verità resta una: le bombe parlano più forte dei tavoli di pace. E chi oggi promette mediazioni, ieri prometteva vittorie lampo.
Stati Uniti
Donald Trump ha imposto un divieto di ingresso a partire dalla settimana prossima negli Stati Uniti da dodici Paesi: Afghanistan, Myanmar, Ciad, Repubblica del Congo, Guinea Equatoriale, Eritrea, Haiti, Iran, Libia, Somalia, Sudan e Yemen.
India
Doveva essere una serata di gloria per i tifosi dei Royal Challengers Bengaluru, che festeggiavano la loro prima vittoria nella Indian Premier League.
Ma la celebrazione è degenerata in tragedia: almeno 11 persone sono morte e 47 sono rimaste ferite in una calca fuori dallo stadio M. Chinnaswamy di Bengaluru, nello stato indiano del Karnataka.
Migliaia di fan si erano radunati mercoledì sera per accogliere la squadra. Alcuni si sono arrampicati su alberi e muri, altri hanno cercato di forzare i cancelli per entrare senza pass.
La pressione della folla è esplosa tra l’ingresso e l’arena principale. Alcuni testimoni parlano anche di agenti che avrebbero colpito la folla con i bastoni.
Le autorità locali parlano di una partecipazione ben oltre le previsioni. “Una tragedia che non doveva accadere”, ha detto il governatore del Karnataka Siddaramaiah, mentre il vice ha chiesto scusa per l’overcrowding.
Anche il Board of Control for Cricket in India ha definito l’episodio “una pagina nera” per il torneo più popolare del Paese. “Questo è il lato oscuro della passione sportiva”, ha commentato il segretario della BCCI.
In India, il cricket non è solo uno sport: è una religione. Ma quando la fede diventa fiume in piena senza controllo, il prezzo lo pagano i fedeli. Undici vite spezzate per una vittoria che doveva unire, non travolgere.
Vietnam
In Vietnam, le famiglie potranno finalmente decidere da sole quanti figli avere.
Il Parlamento ha approvato l’abolizione della politica del figlio unico o doppio, in vigore dal 2009 per contenere la crescita demografica.
Una norma che, pur applicata in modo blando ai cittadini comuni, era rigidamente imposta ai funzionari pubblici e ai membri del Partito Comunista. Ma ora le priorità sono cambiate: il governo guarda con preoccupazione a un calo delle nascite e a una popolazione che sta invecchiando rapidamente.
La fertilità nazionale è scesa a 1,91 figli per donna nel 2024, ben al di sotto della soglia di sostituzione. Se il trend continuerà, il cosiddetto “dividendo demografico” – quando la popolazione attiva supera nettamente quella dipendente – potrebbe finire nel giro di quindici anni.
Ma la libertà di scelta non basta, dice chi vive questa realtà.
A Hanoi, Tran Phuong Mai, 42 anni, racconta che suo marito, un ex funzionario, lasciò il lavoro quando lei rimase incinta del terzo figlio: “Non volevamo metterlo nei guai. Ora possiamo avere cinque figli, ma è tardi. E crescere un figlio costa troppo.”
Infatti, secondo gli esperti, allevare un figlio fino all’università costa in media tra i 380 e i 760 dollari al mese – più del reddito medio.
Il governo cerca ora di adeguarsi a quanto fatto da altri Paesi, come la Cina, che ha revocato la politica del figlio unico nel 2016. Ma per Jonathan London, consigliere ONU, questa è solo una parte del lavoro: servono politiche strutturali di sostegno alle famiglie e alle donne, altrimenti la misura rischia di restare simbolica.
Intanto, il governo affronta anche un’altra emergenza silenziosa: la selezione prenatale del sesso, che porta a squilibri numerici tra maschi e femmine. Il Ministero della Salute ha proposto di aumentare le multe per chi sceglie il genere del nascituro fino a 3.800 dollari, una cifra molto superiore a quella attuale.
Il diritto a scegliere quanti figli avere è una conquista. Ma non basta aprire le gabbie, se fuori ci sono muri invisibili: povertà, disuguaglianze, pressioni culturali. In Vietnam, come altrove, la libertà riproduttiva è vera solo quando è anche sostenibile.
Cina
“Sperano soprattutto che perdiamo la speranza.”
A parlare è Wu’er Kaixi, uno dei volti simbolo delle proteste di Piazza Tiananmen del 1989. Sono passati trentasei anni da quella notte in cui il regime cinese ha scelto i carri armati contro studenti disarmati che chiedevano libertà, giustizia e stampa libera.
E oggi, mentre il mondo dimentica, la Cina continua a cancellare. A censurare. A imprigionare.
Con 123 giornalisti dietro le sbarre, è il peggior Paese al mondo per la libertà di stampa: penultima su 180 nella classifica RSF del 2025.
Almeno 70 di questi reporter si trovano nello Xinjiang, la stessa regione da cui proviene Wu’er Kaixi, dove informare è diventato un atto sovversivo, un crimine contro lo Stato.
La repressione che quei giovani cercavano di fermare nel 1989 non si è mai davvero interrotta. È cambiata forma, si è digitalizzata, è diventata globale.
Oggi la Cina non si limita a zittire le voci al suo interno: esporta il proprio modello di controllo dell’informazione oltre i confini, influenzando algoritmi, piattaforme, e opinioni pubbliche.
Ma nonostante il silenzio imposto, lo spirito della resistenza non è morto.
Lo ha detto Wu’er Kaixi parlando con Reporter Senza Frontiere, proprio nel giorno in cui si ricordano quei morti dimenticati, quelle verità sepolte, quei sogni schiacciati dai cingolati.
Essere giornalista in Cina significa essere un nemico dello Stato. Ma proprio per questo, ogni parola detta, ogni verità scritta, ogni memoria custodita – è un atto di ribellione, un grido che rompe il silenzio.
E oggi, trentasei anni dopo Tiananmen, quel grido non si è spento.
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