6 giugno 2025 – Notiziario Africa

Scritto da in data Giugno 6, 2025

  • Sahel in fiamme: attacchi jihadisti, silenzi di Stato e nuova geografia del potere.
  • Nigeria: ritorna Boko Haram, l’ISWAP si rafforza.
  • L’economista mauritano Sidi Ould Tah alla guida della Banca Africana di Sviluppo.
  • La Nigeria alla Biennale di Design di Londra: futuro e radici

Questo e molto altro il notiziario Africa di Elena L. Pasquini

“Il termine “jihad” non è mai stato usato nel Corano per indicare la guerra nel senso di lanciare un’offensiva. È usato piuttosto per indicare “lotta”. L’azione che più costantemente si domanda nel Corano è l’esercizio della pazienza”, scriveva Wahiduddin Khan, nel suo libro “Il vero Jihad: Il concetto di pace, tolleranza e non violenza nell’Islam”.

Serve, oggi, questa premessa dello studioso islamico e pacifista indiano che aggiunge: “Cos’è il jihad? Jihad significa lotta, lottare con tutte le proprie forze.

Bisogna innanzitutto comprendere che questo termine è usato per indicare la lotta non violenta, in contrapposizione alla lotta violenta”.

Serve, oggi, ricordare che questa parola in cui si chiama il fedele ad un impegno strenuo al servizio di Dio, è per molti, nell’Islam, inaccettabilmente brandita per chiamare alla guerra, alla violenza.

Serve, perché andiamo in Africa occidentale, in Sahel dove l’insorgenza che si definisce jihadista è di nuovo in forte espansione e si fa sempre più aggressiva. Dal Mali, al Burkina Faso, alla Nigeria.

In Africa Occidentale resteremo voltando pagina perché la Banca africana di sviluppo, che ha sede ad Abidjan, in Costa d’Avorio ha un nuovo leader: faremo il punto sul futuro di quest’istituzione e sullo stato dell’economia del continente.

Infine, arriveremo a Londra, alla Biennale di Design, nell’altra Africa, quella che non è solo conflitti armati. Oggi, 6 giugno 2025.

Sahel

A Mamaribougou, appena fuori Bamako, l’esercito del Mali è stato attaccato mercoledì dal Gruppo di Sostegno all’Islam e ai Musulmani, il JNIM, gruppo legato ad al-Qaeda.

Lo stesso giorno il campo militare di Tessit, nella regione di Gao, è stato conquistato dai jihadisti dello Stato Islamico nel Sahel. Attacchi anche Sikasso, nel Sud del Paese. Imprecisato, ancora, il numero delle vittime del duplice attacco di domenica scorsa.

Bersaglio dei gruppi jihadisti, l’esercito del Mali e le milizie alleate. Il JNIM afferma di aver preso di mira a Mamaribougou, una città nel comune di Mandé vicino a Bamako, un raduno dell’esercito maliano e dei suoi alleati russi del gruppo Wagner, riporta Radio France Internationale.

Nel nord, al confine con Mali, Niger e Burkina Faso, i jihadisti rivali dello Stato Islamico nel Sahel hanno ugualmente puntato a un sito militare, dove opera il Gatia, un gruppo armato locale alleato con le forze maliane.

“Secondo diverse fonti locali concordanti, circa quaranta soldati maliani sono morti durante l’attacco”, scrive RFI. L’esercito ha risposto nella regione di Kidal con un attacco di droni.

Il primo di giugno, invece, il Jnim, ha colpito la zona militare di Boulikessi, nel centro del Paese, e poi la città di Timbuctù, il centro più importante nel Nord, l’antica città ai confini del Sahara, la “città dei 333 santi” per i santi musulmani lì sepolti, che è stata preda della furia jihadista già nel 2012, quando i miliziani ne distrussero i santuari considerati “idolatrici”.

Questa volta è stato attaccato lo scalo aeroportuale. “Non hanno fatto irruzione all’aeroporto perché ci sono i russi. Ma hanno lanciato dei proiettili”, ha raccontato una fonte all’Agence France Press.

Il numero delle vittime del duplice attacco non è noto: decine, almeno 60, i soldati, secondo quanto dichiarato da un funzionario locale ad AFP.

Un centinaio, riportano altre fonti di stampa. Tra loro c’è ci sostiene vi siano anche i russi dell’ex Wagner, anche se non ve ne è traccia nelle immagini diffuse dal Jnim.

Sarebbero 22, invece, gli ostaggi. “Il bilancio delle vittime è intollerabile”, ha commentato una fonte di sicurezza maliana, come riporta RFI. “La pressione non è mai stata così alta “, ha aggiunto.

Poco filtra, però, dal governo della giunta guidata da Assimi Goita che non ha risposto alla richiesta di commento da parte della testata francese e ha deciso di adottare la “dottrina del silenzio”, arrivando persino a negare alcuni degli episodi più violenti di questi mesi come l’attacco al campo di Dioura del 23 maggio.

“In passato, leader militari e politici hanno già spiegato che si trattava di non fare il gioco del nemico e di non minare il morale delle truppe, nel contesto della guerra al terrorismo.

In Mali c’è chi ritiene che i cittadini non abbiano bisogno di essere informati … Altri pensano che l’attuale regime stia solo cercando di nascondere ai maliani la realtà della situazione della sicurezza nel paese per mantenere il potere e chiedono maggiore trasparenza”, si legge su RFI.

Un’ondata di violenza di matrice islamista che non sta colpendo solo il Mali. Terrorismo in Burkina Faso e Niger. Ripresa, intensa, degli attacchi in Nigeria. Infiltrazioni in Togo e Benin.

Una tendenza regionale, in un’area strategica in cerca di nuovi equilibri, scossa dai colpi di stato che hanno portato al potere giunte militari, sempre più distante dall’Occidente e dal multilateralismo sognato dalla Comunità economica dell’Africa occidentale. Sempre, invece, più vicina alla Russia.

In Burkina Faso si sono intensificati gli attacchi terroristici. A maggio, nell’est del Paese, l’JNIM ha conquistato la città di Diapaga, al confine con Niger e Benin.

Già il 28 marzo, una cinquantina di soldati e volontari delle forze di polizia erano stati uccisi dai terroristi nella stessa città, in un’ondata di attacchi che avevano colpito diversi centri, come Sollé e Sangha.

Secondo Ope Adetayo, firma di Monocle, l’incapacità di rispondere all’insicurezza della regione è tra le cause che hanno condotto a quello che definisce il ‘fallimento’ del progetto dell’Ecowas, la comunità economica dell’Africa occidentale che quest’anno compie cinquant’anni e che ha perso tre membri con l’uscita dei governi di Mali, Niger e Burkina Faso.

“Non è stato certo un compleanno di buon auspicio”, scrive Adetayo. “Vaste aree dell’Unione si trovano a fronteggiare insorti jihadisti e i colpi di stato militari hanno messo in crisi la democrazia”, spiega.

È nell’incapacità di rispondere al bisogno di sicurezza che vanno cercate le radici dell’ondata dei colpi di stato in Sahel. “È emersa una generazione di leader militari giovani, ambiziosi e non eletti, uomini forti che si stanno dimostrando popolari tra coloro che sono stanchi dell’instabilità e dell’inazione statale…

Proprio nel momento in cui l’Africa occidentale ha bisogno di una maggiore cooperazione, la Ecowas e i suoi nobili ideali fondanti di stabilità e liberalismo sembrano sempre più fuori dal mondo”, aggiunge.

Nigeria

Gli attacchi di Boko Haram nel Nord-Est della Nigeria, in particolare nello Stato di Borno, si stanno intensificando. Lo ha ammesso Mohammed Badaru Abubakar, il ministro della Difesa della Nigeria in una conferenza stampa dopo una visita nello stato di Kaduna….

Una minaccia che si inserirebbe in una tendenza regionale di ripresa dell’insurrezione jihadista e che comprenderebbe altri gruppi, tra cui il Gruppo insurrezionale della Provincia dell’Africa occidentale dello Stato islamico, l’ISWAP.

Tendenza preoccupante, la definiscono su The New Humanitarian, Malik Samuel, ricercatore presso Good Governance Africa, e Ed Stoddard, docente di Sicurezza Internazionale presso l’Università di Portsmouth e ricercatore affiliato presso la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa.

Il ministro Abubakar ha assicurato che il governo federale sta affrontando attivamente la minaccia, riporta The Daily Trust. “La ripresa delle attività di Boko Haram nel Borno riflette la più ampia instabilità nel Sahel. Se avete seguito gli sviluppi in Niger, Mali e Burkina Faso, avrete notato un aumento degli attacchi”, ha affermato sottolineando, però, la risposta for dell’esercito.

“Nelle ultime due settimane, le nostre forze armate hanno acquisito slancio, eliminando un numero significativo di insorti”, ha aggiunto.

Il generale Christopher Musa, capo di stato maggiore della Difesa, intervenendo ad una conferenza nella capitale Abuja, ha chiesto invece che vengano recintati tutti i confini del Paese per “limitare l’ingresso di gruppi armati”, come riporta l’agenzia Reuters.

“La gestione delle frontiere è molto critica”, ha detto Musa. È la prima volta che un alto funzionario nigeriano propone pubblicamente una misura del genere.

“Altri paesi, a causa del livello di insicurezza in cui si trovano, hanno dovuto recintare i propri confini”, ha affermato, citando i casi di Pakistan e Afghanistan, e quella del confine tra Arabia Saudita e Iraq.

“È la Nigeria che interessa a tutti. Ecco perché dobbiamo proteggere completamente e prendere il controllo dei nostri confini”, ha spiegato Musa.

“È fondamentale per la nostra sopravvivenza e sovranità”. Le autorità nigeriane attribuiscono spesso la prolungata insurrezione, compresi i recenti attacchi alle stazioni militari , all’infiltrazione di combattenti stranieri, scrive ancora Reuters.

Una minaccia che non arriva solo da Boko Haram. Il Gruppo insurrezionale della Provincia dell’Africa occidentale dello Stato islamico, l’ISWAP ha messo a segno una serie di irruzioni in “basi militari presumibilmente invalicabili, costringendo i militari al ritiro e allo sfollamento delle comunità civili”, ricordano Samuel e Stoddard.

“Questa rinnovata campagna mette in luce la sfida sempre più importante posta dallo Stato islamico e dai gruppi estremisti legati ad al-Qaeda in tutta l’Africa occidentale: gli insorti ora sono meglio equipaggiati e utilizzano nuove tattiche innovative”, scrivono.

La serie di attacchi più rilevante si è verificata il 12 e 13 maggio: attacchi coordinati contro le città di  Marte, Dikwa e Rann nel Borno orientale.

“Sebbene la minaccia jihadista nel bacino del lago Ciad sia spesso etichettata come “Boko Haram”, spiegano i ricercatori, “i gruppi in questione sono diventati piuttosto distinti dal 2016 …  L’ISWAP si è distinto dal resto di “Boko Haram”, perseguendo una strategia alternativa”, prendendo di mira principalmente i militari.

“Mentre l’insurrezione dell’ISWAP sembrava affievolirsi negli ultimi mesi l’ISWAP ha invertito la rotta e ora sta vivendo il periodo di maggior successo della sua storia.

 Quest’anno, il gruppo ha conquistato con successo 15 basi militari, una delle quali è stata saccheggiata due volte.

Il gruppo si è consolidato ha ampliato la sua portata geografica. L’ISWAP ha ora la capacità di attaccare qualsiasi località dello Stato, comprese le città di guarnigione, e militarmente è diventato il franchise più potente dello Stato Islamico”, scrivono ancora, capace di lanciare quasi in simultanea su diversi siti.

Conduce sempre più attacchi notturni – il che indicherebbe “l’impiego di visori notturni” – e “ha inoltre sviluppato una notevole capacità di utilizzare droni, ora sempre più armati”.  Anche secondo Samuel e Stoddard, “la rinascita dell’ISWAP in Nigeria, quindi, non può essere considerata isolatamente.

Rappresenta piuttosto un aspetto preoccupante di una più ampia tendenza all’insurrezione regionale che sta mettendo sempre più in discussione l’autorità statale in tutta l’Africa occidentale” dove i gruppi jihadisti operano in maniera sempre più interconnessa e transfrontaliere, forti ”di rivendicazioni comuni, di una presenza statale limitata e di vuoti di sicurezza associati, nonché di lacune nella cooperazione regionale in materia di sicurezza”.

Banca Africana di Sviluppo

Sidi Ould Tah è stato eletto presidente della Banca africana di sviluppo, a larga maggioranza e solo dopo tre turni di votazione. Ould Tah entrerà formalmente in carica il primo settembre alla guida della banca che fornisce assistenza finanziaria ai paesi africani attraverso prestiti e assistenza tecnica.

E in cui l’Italia vede il “suo principale partner finanziario strategico per l’attuazione del Piano Mattei”. Partnership che è stata al centro, proprio in questi giorni, di una delle riunioni annuali della Banca dove dovrebbe essere istituito il Rome Process/Mattei Plan Financing Facility (RPFF).

“Un fondo speciale multi-donatori, destinato a cofinanziare progetti sovrani e garantiti dallo Stato nei settori dell’agroalimentare, dell’energia, dell’ambiente e dell’industrializzazione, tra gli altri, per trasformare le economie e contribuire ad affrontare le cause profonde della migrazione”, si legge nel comunicato stampa dell’AfDB.

A guidarla per i prossimi cinque anni, sarà l’economista, ex ministro dell’Economia e delle finanze della Mauritania, che è considerato un uomo “ponte” tra il mondo arabo e l’Africa e che è stato a capo della Banca Araba per lo Sviluppo Economico in Africa (BADEA), di proprietà dei paesi della Lega Araba, facendone una delle più importanti istituzioni finanziare per lo sviluppo, e che a metà maggio ha ottenuto da S&P il rating AA+, appena sotto il massimo, AAA.

“Ho moltiplicato le approvazioni annuali per dodici volte e gli esborsi per otto volte”, ha dichiarato Sidi Ould Tah a Jeune Afrique durante la campagna elettorale.

La sua esperienza di “ponte tra Africa e il mondo arabo” e i suoi messaggi elettorali avrebbero contribuito a fargli guadagnare la vittoria, scrive The Africa Report. “Entrato per ultimo nella corsa, il mauritano ha sfruttato la rete diplomatica del suo Paese, rafforzata dalla presidenza dell’Unione Africana di Mohamed Ould Ghazouani nel 2024.

Ha beneficiato anche dell’influenza dell’Arabia Saudita, il cui sostegno ha contribuito a ottenere i voti degli Stati membri della Lega Araba”, si legge ancora.

Ould Tah eredita un’istituzione solida, con le sue tre A, con un capitale che in dieci anni è passato da 93 a 318 milardi di dollari, e con un utile di 310 milioni di euro. Eredita anche la strategia disegnata dal suo predecessore, Akinwumi Adesina, il nigeriano che ha guidato l’AfDB per dieci anni.

La strategia, approvata lo scorso anno e che punta su cinque priorità – illuminare e dare energia all’Africa, integrare, industrializzare e migliorare la qualità della vita degli africani – potrebbe essere rimodulata per renderla coerente a quanto annunciato da Ould Tah in campagna elettorale.

Quattro i punti chiave, come riporta The Africa Report: “riformare l’architettura finanziaria dell’Africa; trasformare il boom demografico del continente in forza economica; industrializzarsi sfruttando le risorse naturali; e sbloccare capitali su larga scala”.

Un’agenda che segnerebbe un drastico cambio di passo: “L’era dello sviluppo guidato dagli aiuti occidentali è finita. L’Africa deve andare dove ci sono i soldi”, ha detto Serge Ekué, presidente della Banca di sviluppo dell’Africa occidentale (BOAD), riporta sempre The Africa Report.

L’ex capo della BADEA, si legge su All Africa, “ha auspicato una sinergia tra le istituzioni finanziarie africane, come la Banca Africana di Sviluppo (AfDB) e altre istituzioni finanziarie per lo sviluppo, che, a suo dire, operano in modo “disgiunto” tra loro”, affermando che “le esigenze del continente richiedono finanziamenti per oltre 400 miliardi di dollari”.

A un evento Brookings all’inizio di quest’anno, come Diporta Devex, Tah ha dichiarato: “Dobbiamo far sì che ogni dollaro valga come 10. Questo non è un sogno. Può essere realtà”.

“L’Africa ha bisogno di capitali e l’Africa ha capitali”, ha affermato. Particolare attenzione dovrà essere prestata al cambiamento climatico, all’auso dell’intelligenza artificiale e ai giovani, una componente crescente della popolazione africana che rappresenta sia un’opportunità che un rischio, poiché l’elevata disoccupazione può essere fonte di instabilità”, si legge ancora su All Africa.

Sidi Ould Tah guiderà la Banca Africana di Sviluppo in un momento di “tensione per le economie africane, con il calo degli aiuti globali e l’oscillazione dei mercati”, racconta Devex.

Le previsioni di crescita per il 2025 sono state riviste al ribasso proprio dalla Banca di Sviluppo africana e si assesteranno sul 3,9 percento complessivamente.

Causa del rallentamento, spiega Devex, “dazi, guerre commerciali e la riduzione degli aiuti occidentali – incluso lo smantellamento dell’USAID”.  Tuttavia, 21 paesi sono destinati a crescere di oltre il 5%, grazie ai “guadagni duramente ottenuti grazie a efficaci riforme interne, alla relativa diversificazione e a una migliore gestione macroeconomica”, si legge ancora.

Quattro paesi, Etiopia, Niger, Ruanda e Senegal, potrebbero raggiungere “la soglia critica del 7%, necessaria per la riduzione della povertà e una crescita inclusiva”.

Il rapporto per il 2025, l’African Economic Outlook, dimostrerebbe “La capacità del continente di resistere a molteplici shock”. La crescita dell’Africa resta comunque superiore alla media mondiale anche se con variazioni da regione a regione.

L’Africa orientale è in testa con una crescita prevista del 5,9% nel 2025-2026, l’Africa occidentale si assesta intorno al 4,3%, “trainata dalla nuova produzione di petrolio e gas in entrata in funzione in Senegal e Niger”; 3,6% in Nord Africa, mentre potrebbe rallentare l’Africa meridionale con una crescita prevista solo del 2,2%, “con la sua maggiore economia, il Sudafrica, che dovrebbe raggiungere solo lo 0,8%”, scrive l’AfDB.

Molte, però, le sfide. “Quindici paesi stanno registrando un’inflazione a due cifre, mentre il pagamento degli interessi assorbe ora il 27,5% delle entrate pubbliche in tutta l’Africa, rispetto al 19% del 2019”. “

L’Africa deve guardare al suo interno per mobilitare le risorse necessarie a finanziare il proprio sviluppo negli anni a venire”, ha affermato Kevin Chika Urama, economista capo e vicepresidente del Gruppo della Banca africana di sviluppo, presentando i risultati del rapporto.

Inutilizzato, spiegano ancora i ricercatori della Banca di sviluppo africana, l’enorme potenziale delle risorse. Quelle naturali, prima di tutte. L0Africa ospita il 30% delle riserve minerarie globali e potrebbe catturare oltre il 10% dei 16 trilioni di dollari di entrate previste dai principali minerali verdi entro il 2030”, spiegano gli analisti.

Ma c’è anche l’enorme capitale umano, con “l’età media del continente, pari a 19 anni, che rappresenta un dividendo demografico che potrebbe aggiungere 47 miliardi di dollari al PIL dell’Africa attraverso una migliore partecipazione della forza lavoro”. E poi, il capitale finanziario e quello aziendale. Troppi, però, i capitali che lasciano il continente.

“Rispetto ai 190,7 miliardi di dollari di afflussi finanziari ricevuti nel 2022, l’Africa ha perso circa 587 miliardi di dollari a causa di perdite finanziarie.

Di questi, circa 90 miliardi di dollari sono andati persi a causa di flussi finanziari illeciti, altri 275 miliardi di dollari sono stati sottratti dalle multinazionali che hanno trasferito i profitti e 148 miliardi di dollari sono andati persi a causa della corruzione”.

A diminuire, nel 2023, sono state anche le rimesse dall’estero, che “potrebbero raggiungere i 100 miliardi di dollari nel 2025. Il rapporto suggerisce di cartolarizzare i flussi e di introdurre un’imposta sul reddito della diaspora.

Se applicata correttamente, “una tassa del genere darebbe alla diaspora un forte senso di appartenenza e la possibilità di partecipare alle questioni nazionali, come il voto e la responsabilizzazione dei leader”, scrive ancora Devex.

Arte

Hopes and Impediments, speranze e impedimenti. Così, la Nigeria racconta se stessa nel padiglione alla Biennale di Design di Londra, che si terrà dal 5 al 29 giungo, curato da Myles Igwebuike.

Il titolo trae ispirazione dai saggi dello scrittore Chinua Achebe, che analizzano la natura dell’identità “non solo come costrutto individuale, ma come negoziazione collettiva plasmata dalla memoria, dalle storie mutevoli e dalle esperienze comunitarie”, come ricorda Igwebuike.

“Gran parte del processo creativo di Myles Igwebuike inizia molto prima che il medium dell’opera si materializzi. Tutto inizia non solo con le emozioni, ma con la ricerca, molta”, scrive Neslon C.J. su OkeyAfrica.

Una ricerca non “è sempre di tipo accademico”, ma che attinge e incorpora fonti non convenzionali, “reliquie viventi”, come “leader tradizionali, griot e le persone (dai bambini agli anziani) che vivono in luoghi con storie sepolte o mai raccontate”.

Lo spazio che Igwebuike cura in uno uno degli eventi di design più prestigiosi al mondo, “rivendica le tecnologie indigene come legittimi strumenti epistemologici, capaci di ispirare il discorso contemporaneo su design, storia e identità”.

Il messaggio è chiaro: “il futuro del design africano può e deve essere trovato nell’intelligenza del passato”, scrive OkeyAfrica.

Tutto inizia a Lejja, una comunità della Nigeria orientale, piccola ma “considerata anche il più antico sito di fusione del ferro al mondo … Igwebuike darà vita a Lejja in uno spazio multisensoriale che combina ricerca etnografica, strumenti digitali avanzati e manufatti architettonici speculativi per creare un “capitale sociale” concettuale della Nigeria”, si legge ancora.

“La ricerca non consiste solo nell’andare in biblioteca e consultare gli archivi. La ricerca consiste anche nel sedersi con l’Igwe di Lejja e nel farsi raccontare la storia di Lejja dai suoi occhi, e poi sedersi con un bambino di 10 anni che gioca a calcio nella piazza del villaggio e che a sua volta mi racconta di Lejja”, spiega  Igwebuike che in un’intervista a Monocle nel novembre delle scorso anno aveva raccontato del suo Studio e del lavoro con gli artigiani in Nigeria, e “della sua ambizione di trasformare l’artigianato e il design in una diplomazia soft e di come altri possano imparare dal suo lavoro”, come si legge sulla rivista.

Lavoro con artigiani locali e giovani designer. Sono un futurista, un giovane ambizioso che pensa di poter cambiare il mondo”, aveva detto.

“Come possiamo sostituire una mentalità limitante con una mentalità che non conosce limiti? I miei workshop hanno a che fare con l’osservazione di come utilizziamo i materiali che abbiamo nel nostro ambiente e nella nostra località … Mi piace interrogarmi sull’aspetto del design, usando il patrimonio culturale come mezzo per esplorarle”, aveva detto.

Uno sgabello, per esempio, può nascere dallo studio “mitologia e degli strumenti” musicali tradizionali. Oggetti belli, ma anche oggetti nati dal desiderio di “coltivare una comunità” e esplorare ciò che unisce le persone, partendo dalla vita nel sud-est della Nigeria.

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