Israele uccide altri sei giornalisti

Scritto da in data Agosto 12, 2025

Con i giubbotti PRESS ancora addosso, sei giornalisti palestinesi sono stati sepolti lunedì a Gaza.

Erano Anas al-Sharif, volto noto e voce coraggiosa di Al Jazeera; Mohammed Qreiqeh, corrispondente; i cameraman Ibrahim Zaher e Moamen Aliwa; l’assistente Mohammed Noufal e il freelance Mohammed al-Khalidi.

Sono morti in un attacco mirato dell’esercito israeliano contro una tenda stampa fuori dall’ospedale al-Shifa, a Gaza City.
Con loro se ne va un altro pezzo di verità: in meno di due anni di guerra, almeno 269 giornalisti sono stati uccisi a Gaza, 238 dei quali palestinesi.

L’attacco al cuore dell’informazione

Era notte fonda quando il drone israeliano ha colpito. La tenda era un punto di riferimento per i reporter locali, un rifugio precario tra un servizio e l’altro.

Chi è accorso dopo ha trovato un tappeto di macerie: giubbotti antiproiettile anneriti, macchine fotografiche sventrate, taccuini bruciati. E corpi mutilati, resi irriconoscibili dalla violenza dell’esplosione.

Medhat al-Sawalha, collega e amico, ricorda di aver sollevato con le proprie mani il corpo senza vita di al-Sharif. Accanto, un altro corpo, senza testa.

“Più che colleghi, eravamo una famiglia”

In questi due anni di guerra, i giornalisti di Gaza hanno condiviso molto più che il lavoro: hanno dormito nello stesso spazio, diviso il cibo, sostenuto l’uno l’altro quando la paura sembrava insopportabile.

Sharif, sempre pronto a strappare un sorriso, scherzava con i colleghi: “Se dobbiamo morire, moriremo insieme.”
Non era solo ironia: era il patto silenzioso di chi sa di essere costantemente nel mirino.

Le accuse e la macchina della delegittimazione

Poche ore dopo l’attacco, l’esercito israeliano ha accusato al-Sharif di essere “a capo di una cellula terroristica di Hamas”. Nessuna prova fornita. Ma perfino alcuni giornalisti italiani, ma non solo, hanno diffusa la propaganda.

Non è la prima volta: lo stesso schema è stato usato per giustificare altri omicidi mirati di giornalisti, accuse respinte con forza da Al Jazeera e condannate dal Committee to Protect Journalists, che parla di “tentativi sistematici di screditare la stampa palestinese”.

Un’ondata di condanne

La reazione è stata immediata:

  • ONU: il Segretario generale Guterres ha chiesto un’indagine indipendente, ricordando che “i giornalisti devono essere rispettati e protetti”.

  • Unione Europea: la commissaria Kaja Kallas ha sottolineato la necessità di prove chiare per evitare il targeting di giornalisti.

  • Qatar e Iran: accuse a Israele di “omicidio deliberato” e di “genocidio sotto gli occhi del mondo”.

  • RSF: parla di “omicidio riconosciuto” dall’esercito israeliano, che ammette di aver colpito la tenda.

  • Amnesty International e Human Rights Watch: definiscono l’attacco un crimine di guerra e ricordano che Sharif aveva dedicato la vita a documentare atrocità e carestia sotto assedio.

Gaza, dove raccontare è morire

Dall’inizio della guerra, Israele ha chiuso l’accesso ai giornalisti internazionali. Chi racconta Gaza sono i reporter palestinesi: senza protezione, senza garanzie, e con la certezza che la telecamera o il microfono non li salveranno da un missile.

Molti non dormono più nelle loro case, per paura di mettere in pericolo le famiglie. Lavorano e vivono in tende improvvisate, in ospedali o cortili distrutti, sapendo che ogni diretta, ogni post, ogni fotografia può essere l’ultima.

Un silenzio che si vuole imporre

Ogni giornalista ucciso è una voce in meno, un testimone che non potrà più raccontare. Per i colleghi, per chi resta, la domanda è sempre la stessa: “Dobbiamo continuare o fermarci? E se smettiamo, chi racconterà?”.

Le organizzazioni per la libertà di stampa avvertono: senza un’a

zione decisa della comunità internazionale, le uccisioni continueranno, e con esse il buio informativo.
Ma finché ci sarà anche un solo reporter con una penna, una videocamera o un telefono, Gaza avrà chi, a costo della vita, si rifiuta di tacere.

E tutti i giornalisti internazionali indipendenti e senza padroni, che continueranno il loro lavoro.

 

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