11 aprile 2025 – Notiziario Africa

Scritto da in data Aprile 11, 2025

  • Sudan vs Emirati Arabi Uniti: genocidio e complicità davanti alla Corte Internazionale di Giustizia
  • Repubblica Democratica del Congo: Kabila torna sulla scena mentre l’Est è in fiamme
  • Tanzania: arrestato Tundu Lissu, nuove ombre sulle elezioni
  • Tunisia: piazze in rivolta contro l’autoritarismo di Kais Saied
  • Matrimoni tra donne in Africa Occidentale: una tradizione antica tra potere e stigmatizzazione

Questo e molto altro nel notiziario Africa a cura di Elena L. Pasquini

“La vera pace non è semplicemente l’assenza di tensione; è la presenza della giustizia”, sosteneva Martin Luther King.

Giustizia che chiedono le vittime di una guerra. Giustizia che chiedono i perseguitati, chi subisce la repressione per le proprie idee, il proprio credo.

Giustizia grida l’Africa dal Nord all’estremo Sud. Ed è con un procedimento aperto davanti alla Corte Internazionale di Giustizia che iniziamo, quello che dovrebbe verificare la corresponsabilità degli Emirati Arabi Uniti nei massacri in Sudan.

Poi, andremo nella Repubblica democratica del Congo, torneremo a parlare delle elezioni in Gabon, delle tensioni tra Algeria e Mali, degli arresti, delle proteste e delle lotte di Tanzania e Tunisia, poi di un’antica tradizione dell’Africa occidentale, il matrimonio tra donne.

Sudan

Il Sudan accusa gli Emirati Arabi Uniti di complicità in genocidio e porta il caso davanti alla Corte Internazionale di Giustizia, che oggi inizierà a discuterlo.

Sostiene che senza il supporto militare, finanziario e politico degli Emirati, le Rapid Support Forces guidate dal generale Mohamed Hamdan “Hemeti” Dagalo, che da due anni combattono contro l’esercito sudanese una devastante guerra civile, non avrebbero potuto commettere le atrocità di cui si sono macchiate: omicidi di massa, violenza sessuale, sfollamenti forzati e distruzione di villaggi e proprietà, violenza etnica contro i Masalit nel Darfur occidentale.

Armi e veicoli catturati dalle Forze Armate del Sudan sarebbero prove chiave. Che confermano quello che Nazioni Unite e analisti hanno già documentato, il viaggio delle armi alle RSF attraverso il Ciad.

E poi, vi sarebbero evidenze di un addestramento di combattenti da parte di uomini degli Emirati e transazioni finanziarie attraverso banche emiratine. Il Sudan ritiene che senza questo supporto, che è fatto di droni, logistica e mercenari, alle RSF sarebbe difficile continuare con le operazioni militari.

Gli Emirati negano. Le accuse “non sono altro che un gioco politico e una trovata pubblicitaria, un tentativo di trascinare un amico di lunga data dell’Africa nel conflitto che loro stessi hanno istigato e alimentato”, ha detto un funzionario, come riporta Reuters.

Un caso, scrive The Africa Report che “potrebbe rimodellare le dinamiche di potere regionali” perché “evidenzia le crescenti tensioni geopolitiche nella regione.

Il coinvolgimento degli Emirati Arabi Uniti ha sollevato preoccupazioni circa l’accertamento delle responsabilità per crimini internazionali e ha intensificato il controllo sulle interferenze esterne nei conflitti africani”.

Decisioni giuridicamente vincolanti, quella Corte internazionale di Giustizia anche spesso di problematica attuazione.

“Ciononostante, una sentenza contro gli Emirati Arabi Uniti potrebbe danneggiare significativamente la loro reputazione internazionale e aumentare la pressione sugli altri Paesi affinché riconsiderino il loro sostegno o coinvolgimento nei conflitti regionali”, si legge ancora.

Il Sudan chiede misure di emergenza, in attesa della conclusione del procedimento che potrebbe durare anni, affinché la guerra non diventi ancora più violenta.

Il conflitto armato, intanto, non fa altro che allargarsi, come spiega un recente rapporto dell’International Crisis Group. “A due anni dall’inizio della guerra civile sudanese, il paese e la regione circostante si trovano ad affrontare un momento di resa dei conti”, scrivono i ricercatori.

Nonostante l’esercito abbia riguadagnato posizioni e riconquistato la capitale Khartoum al suo avversario, “invece di sfruttare questa avanzata per perseguire la pace, sembra voler proseguire per la vittoria totale, mentre le RSF mirano a espandere la guerra in nuove aree.

Entrambe le parti stanno ancora ricevendo ampio sostegno esterno per continuare a combattere. Un’ulteriore escalation potrebbe portare alla frammentazione del Paese. Rischia inoltre di destabilizzare i vicini del Sudan, in particolare Ciad e Sud Sudan”, si legge.

“Se questa guerra riguardasse solo i sudanesi”, sostengono gli analisti, “il suo corso sarebbe più facile da prevedere … Tuttavia, il forte coinvolgimento esterno nella guerra rende più probabile un’escalation.

Entrambe le parti continuano a ricevere ingenti rifornimenti dall’esterno, inclusi nuovi droni e tecnologie anti-drone. Inoltre, le capitali arabe e africane competono per proiettare il loro potere attraverso il Sudan, che si affaccia sullo strategico Mar Rosso, e considerano l’esito della guerra altamente rischioso”.

Repubblica Democratica del Congo

Joseph Kabila, l’ex presidente, tornerà nella Repubblica democratica del Congo e tornerà all’Est, dove i ribelli dell’M23 sostenuti dal Ruanda hanno conquistato ampie zone di territorio.

Ho deciso di tornare senza indugio per contribuire a trovare una soluzione”, ha dichiarato all’agenzia Reuters martedì sera. “Ho deciso di cominciare dalla regione orientale, dove il pericolo è imminente”, ha affermato spiegando i suoi piani in un messaggio scritto.

Salito al potere dopo l’assassinio del padre Laurent, Joseph Kabila, l’uomo che ha guidato il Congo dal 2001 al 2019, è stato accusato del presidente Felix Tshisekedi di sostenere i ribelli.

Quello stesso Felix che vinse le controverse elezioni del 2018 e con cui strinse un accordo di condivisione del potere. L’alleanza è naufragata, Kabila, che aveva fatto di tutto per restare al potere per un terzo mandato rifiutandosi di dimettersi nel 2016 e scatenando proteste violente, ha lasciato i Paese nel 2023 e si trova ora in Zimbabwe.

Il piano per l’Est sarebbe stato disegnato consultandosi con “potenti attori nazionali e stranieri e con altri attori del conflitto”, riporta Reuters. Secondo le informazioni raccolte da Radio France Internationale, Kaibila avrebbe ricevuto numerosi visitatori, ex collaboratori, ma “anche fedeli sostenitori di lunga data, per non parlare di molti altri profili”.

Tra loro, John Numbi, ex capo della polizia nazionale, poi ispettore generale delle Forze armate di Kinshasa “che è ricercato dalla giustizia militare congolese, in particolare in relazione all’assassinio degli attivisti Floribert Chebeya e Fidèle Bazana”.

Su Numbi, anche lui fuggito in Zimbabwe, pende una richiesta di estradizione da Kinshasa.

“Sempre sul fronte congolese, fonti sentite da RFI sostengono che Joseph Kabila sia in contatto anche con oppositori recentemente esiliati in Europa, in particolare in Belgio, e annoveri tra i suoi sostenitori diversi leader della comunità del Nord Kivu, alcuni dei quali avrebbero legami con gruppi armati”.

Kabila manterrebbe anche contatti il Ruanda e secondo una fonte, avrebbe parlato con Corneille Nangaa, coordinatore dell’Alleanza del Fiume Congo/M23.

Intanto, a Doha, in Qatar, dove lo scorso mese si sono incontrati per la prima volta dopo l’inizio dell’offensiva a gennaio, Felix Tshisekedi e il presidente del Ruanda, Paul Kagame, sono ripresi i colloqui tra funzionari congolesi e membri del gruppo armato M23.

Poche sono le informazioni che filtrano. Si sa che le delegazioni sono arrivate, che si sono svolte discussioni preliminari sulla struttura del negoziato.

Una fonte ha riferito all’agenzia Reuters, che le parti hanno tenuto un incontro riservato a Doha all’inizio di questo mese per preparare i colloqui.

Un percorso, però, non semplice, anche perché sembrerebbero essere sorti malumori per la tipologia di delegati inviati dal Congo: “Kinshasa ha inviato delegati senza qualifiche o capacitò di negoziare”, ha affermato una delle voci ascoltate da Reuters.

Gabon

ll generale Oligui Nguema è l’uomo della democrazia o quello che consegnerà il Gabon ai militari? È il golpista controcorrente o userà le elezioni per consolidare il potere?

L’ex comandante della Guardia Repubblicana che solo poco più in un anno e mezzo fa, ha messo fine alla “dinastia” dei Bongo che guidava il Paese dal 1967, ha chiamato il popolo alle urne. Domani, il Gabon andrà al voto per eleggere il Presidente.

Si vota, “contrastando una tendenza che in altre parti dell’Africa ha visto i leader militari aggrapparsi al potere”, scrive la BBC.

La sua candidatura conferma “le speculazioni di lunga data secondo cui le autorità militari avrebbero potuto ricorrere al processo elettorale per rimanere al potere nonostante la precedente promessa di riportare il paese al governo civile”, sostiene invece l’International Crisis Group.

“C’BON”, è lo slogan della sua campagna. Un gioco di parole, tra le sue iniziali, Brice Clotaire Oligui Nguema, e il “c’est bon” francese. Promette, Nguema, un cambio di rotta, e può contare su una forte popolarità, in questo Paese di soli 2,5 milioni di persone, un terzo, almeno, poverissime, ma che abitano su 270 mila chilometri quadrati di preziosa foresta, petrolio, manganese e molte altre risorse naturali.

Il suo principale rivale è Alain-Claude Bilie-By-Nze, primo ministro di Ali Bongo, il presidente deposto senza che vi fosse alcuna resistenza il 30 agosto del 2023.

Era succeduto al padre, Omar, nel 2009. Fragile di salute, colpito da un ictus, si era candidato comunque per un terzo mandato e si era aggiudicato la vittoria, con molti dubbi sulla regolarità del processo elettorale.

Si diceva che alle sue spalle, a regnare davvero fossero sua moglie, la francese Sylvia, e suo figlio, Nourredin Bongo Valentin. Entrambi arrestai con accuse di corruzione. Alain Claude Bilie By Nze, considera Nguema una minaccia per la democrazia.

“La democrazia gabonese è in pericolo”, ha dichiarato in un’intervista all’agenzia Reuters. “È stato permesso ai militari di candidarsi, quindi c’è chi controlla le forze armate, chi controlla le finanze, chi controlla lo Stato e chi è candidato”, ha detto Nze.”Dobbiamo lottare per porre fine a questo sistema e rimandare i militari nelle loro caserme.”

Nguema resta, però, il favorito. “Ha approfittato con astuzia del colpo di stato, cercando di costruire un’ampia base di sostegno per il suo regime di transizione.

Ha portato ex esponenti del governo, oppositori e importanti voci della società civile, fino ad allora critiche, nella struttura del potere o in istituzioni come il Senato. I detenuti politici sono stati liberati, mentre la moglie e il figlio di Ali Bongo restano detenuti in attesa di processo.

Non ha fatto ricorso a quel genere di repressione del dissenso o della libertà di stampa che è diventato uno strumento di routine per gli altri leader militari dell’Africa francofona, in Mali, Guinea, Burkina Faso e Niger”, scrive Paul Melly, consulente presso il Programma Africa della Chatham House di Londra, sulla BBC.

Molte sono le sfide che chi vincerà la tornata elettorale si troverò davanti, in questo Paese che a differenza di molti altri in Africa occidentale non conosce troppe turbolenze, né conflitti armati, e che è in controtendenza anche sul fronte delle relazioni internazionali, lontano dalle posizioni anti-occidentali degli altri regimi del West Africa, tanto con i Bongo, quando con Nguema.

Paese leader “nella conservazione della foresta pluviale e della sua enorme diversità di flora e fauna”, ha difronte la sfida di conciliare quest’approccio “con la pressione economica per sfruttare appieno le altre risorse naturali, in particolare minerali e petrolio, e con le esigenze delle comunità rurali che cercano di proteggere i propri diritti di caccia e agricoltura.

Le popolazioni urbane, in particolare a Libreville, dove vive quasi la metà della popolazione del paese, hanno bisogno di più posti di lavoro e di servizi migliori, in un paese il cui bilancio di sviluppo sociale è stato deludente, considerando la sua relativa ricchezza”, spiega ancora Paul Melly.

Mali e Algeria

Accuse reciproche, spazio aereo chiuso, ambasciatori ritirati e l’appello al Consiglio di sicurezza della Nazioni Unite, la tensione tra Mali e Algeria cresce e preoccupa i paesi dell’Africa occidentale.

È iniziata con la dichiarazione dell’Algeria di aver abbattuto un drone da ricognizione armato sul suo territorio il primo di aprile, poi il Mali che accusa Algeri di aver colpito uno dei suoi droni su suo territorio.

L’Algeria che nega, il Niger e il Burkina Faso che ritirano i loro ambasciatori, Algeri che replica facendo lo stesso. E infine, la chiusura dello spazio aereo.

Il Mali accusa l’Algeria di sostenere il terrorismo, l’Algeria accusa il Mali di violare il suo spazio aereo. Uno scontro durissimo, finito sul tavolo del Consiglio di Sicurezza della Nazioni Unite. Secondo quanto scrive Radio France Internationale, Bamako e Algeri avrebbero inviato due comunicati il 7 aprile.

La denuncia di Bamako per atti di aggressione, non è tuttavia, al momento, una richiesta di una qualche azione. Una fonte diplomatica all’interno del Consiglio di Sicurezza ha riferito a RFI che “né il Mali né l’Algeria hanno richiesto una riunione sull’argomento.

Queste lettere non richiedono pertanto alcuna azione specifica da parte del Consiglio “, consiglio presieduto in questo momento dalla Francia e di cui l’Algeria è membro non permanente.

È un modo, sostiene la fonte diplomatica, per avviare discussioni tra i membri del Consiglio, in modo informale o in seduta plenaria. Ma è possibile che nessuno voglia davvero affrontare la questione sotto la presidenza francese.

Dal punto di vista legale“, continua l’esperto, “questo consente anche di notificare il proprio disaccordo e di prepararsi a possibili ritorsioni “.

Tanzania

“Tundu Lissu è stato arrestato dalla polizia nel distretto di Mbinga dopo aver appena terminato un discorso a un pubblico incontro. Finora non si sa in quale stazione di polizia sia stato portato”. La notizia arriva dall’account X di CHADEMA, principale partito d’opposizione in Tanzania.

“Il presidente è stato arrestato insieme ad altri membri del partito e gli agenti di polizia stanno disperdendo il pubblico utilizzando gas lacrimogeni sul luogo dell’evento”.

Non sarebbero ancora chiare le ragioni dell’arreso, ultimo atto in un clima di forte tensione in vista delle elezioni di fine anno, fissate per il 28 ottobre.

Un clima segnato da tentativi di intimidazione verso le forze di opposizione che fanno temere una possibile ondata di nuove forti azioni repressive con l’avvicinarsi dell’appuntamento con le urne.

I movimenti per i diritti umani e gli oppositori, accusano il governo di non rispettare le libertà politiche e chiedono riforme del processo elettorale prima del voto, puntando il dito contro la presidente Samia Suluhu Hassan, succeduta a John Magufuli dopo la sua morte nel 2021, e contro il governo dominato dal partito Chama Cha Mapinduzi (CCM) al potere dall’indipendenza.

“Nessuna riforma, nessuna elezione” è slogan gridato dal partito di Lissu. Senza riforma la regolarità del voto è a rischio, sostengono le opposizioni.

L’arresto di Tundu Lissu, ex candidato alla presidenza, sopravvissuto ai 16 colpi di arma da fuoco in un tentativo di assassinio nel 2017, arrestato più di una volta, “è un chiaro tentativo di mettere a tacere le voci dell’opposizione in vista delle elezioni”, ha dichiarato Brenda Rupia, a capo della Comunicazione di CHADEMA.

“Siamo presi di mira, molestati e brutalizzati semplicemente per aver esercitato i nostri diritti costituzionali”.

Sono centinaia i casi di sparizioni forzate. Nel settembre dello scorso anno, Mohamed Ali Kibao, un membro della segreteria del partito, era stato rapito e ucciso, il suo corpo ritrovato con evidenti segni di tortura.

Poi è toccata ad Aisha Machano, rapita e picchiata, quindi ad Abdul Nondo del partito ACT Wazalendo. Di altri cinque attivisti non si sa più nulla. Secondo Rupia di tratta “di una campagna coordinata per intimidire i leader dell’opposizione, limitare le libertà politiche e minare la democrazia”.

Tunisia

La Tunisia scende in piazza, in centinaia hanno protestato mercoledì contro il presidente, Kais Saied e contro il suo regime che considerano autoritario. Chiedono la liberazione dei prigionieri politici.

Sei detenuti, sei oppositori, arrestati con l’accusa di cospirazione, hanno iniziato uno sciopero della fame per protestare con il processo che considerano ingiusto.

“Saied, dittatore, è arrivato il tuo turno”, “Liberate Abir”, hanno gridato i sostenitori del Partito Costituzionale Libero chiedendo la liberazione del loro leader, Abir Moussi.

Sempre a Tunisi, una seconda manifestazione è stata organizzata da un altro partito, sempre all’opposizione, il Fronte di Salvezza. Per tutti, il governo di Saied, che nel 2021 ha di fatto assunto pieni poteri e il controllo della magistratura, è un governo autoritario, che reprime il dissenso.

In carcere c’è anche Rached Ghannouchi, il capo del partito Ennahda, tra i più importanti rivali di Saied.

Donne e Matrimonio nell’Africa occidentale

Da secoli, in Africa occidentale, le donne sposano altre donne. Dalle popolazioni Igbo della Nigeria, ai Frafra del Ghana, ai Dahomey del Benin, solo oltre 40 i gruppi dove vi sono prove di matrimoni tra donne, dove una donna può assumere il ruolo di marito, secondo i risultati di una ricerca condotta da Bright Aloize, accademico della Portaland State University.

Non è però un’unione romantica, piuttosto un contratto sociale in cui una donna paga il “prezzo della sposa” per diventare “marito” di un’altra donna che attende dei figli da un parente uomo.

“I figli apparterranno legalmente al donna-marito e saranno considerati parte della sua discendenza”, spiega Bright Aloize su The Conversation.

 Lo scopo è rendere “i legami familiari all’interno delle comunità e dei clan tradizionali”, ma è anche quello “preservare la discendenza, garantire l’eredità e rafforzare il potere decisionale economico e politico di una donna”, spiega.

“Le donne-marito acquisiscono un controllo significativo sulla proprietà assumendo il ruolo di capofamiglia. Ciò consente loro di possedere e gestire i beni in modo indipendente, un diritto tipicamente riservato agli uomini” e “possono stipulare contratti, risolvere controversie … rafforzando ulteriormente il loro potere in una società patriarcale”.

Sonno donne che hanno un’influenza importante nella loro comunità.

Una pratica che ne. tempo è divenuta sempre più rara, anche a seguito della stigmatizzazione in epoca coloniale:  “Considerandola attraverso un quadro morale vittoriano – i rigidi e conservatori valori della Gran Bretagna del XIX secolo che enfatizzavano rigidi ruoli di genere, moderazione sessuale e purezza morale – la equipararono erroneamente all’omosessualità e cercarono di metterla al bando .

Ad esempio, nel 1882 le autorità coloniali britanniche in Ghana criminalizzarono le relazioni omosessuali. Queste leggi includevano i matrimoni tra donne”.

La ricerca di Bright Aloize ricostruisce questa storia, con interviste, materiali d’archivio e letteratura, raccontando una varietà di tradizioni assai diverse.

“Oggi, il matrimonio tra donne rimane incompreso. Alcuni sostengono che rafforzi le strutture patriarcali, mentre altri lo confondono con le relazioni omosessuali. La crescente influenza del cristianesimo e dell’Islam ha portato alla sua stigmatizzazione.

Nel frattempo, i moderni sistemi giuridici non riconoscono le unioni, lasciando le donne-marito e i loro figli vulnerabili nelle controversie ereditarie”, scrive ancora.

Una tradizione, secondo Bright Aloize, che metterebbe invece in luce “l’ingegnosità delle società africane nel creare strutture alternative di potere, parentela e sicurezza economica, soprattutto per le donne”.

Il libro: Sotto la sabbia

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