11 ottobre 2024 – Notiziario Mondo
Scritto da Elena Pasquini in data Ottobre 11, 2024
- Tunisia: domenica si è votato per eleggere il presidente.
- Sudan: Nessun accenno di tregua.
- Repubblica democratica del Congo: Onu, situazione allarmante
- Mozambico: in attesa dei risultati delle elezioni nazionali, anche queste dall’esito quasi scontato.
Il notiziario Africa è a cura di Elena L. Pasquini per Radio Bullets
Tunisia
“Se un giorno il popolo vorrà vivere
il destino deve assecondarlo,
la notte deve dissiparsi
e le catene devono spezzarsi”.
Scrive così il poeta tunisino Abu’l Qasim ash-Shabbi ne “La volontà di vivere”. Questi versi, ripresi nell’inno nazionale, hanno accompagnato le rivolte della primavera araba in questo Paese, la Tunisia, dove tutto è cominciato nel 2010 e dove domenica si è votato per eleggere il presidente.
Con la maggior parte degli oppositori interdetti dal correre alle elezioni oppure incarcerati, il voto di domenica scorsa in Tunisia non è stato che un atto cerimoniale per Kaïs Saïed.
Il presidente uscente si è garantito un secondo mandato con il 90,7 percento dei consensi, ma anche con una delle più basse affluenze della storia tunisina, il 27,7. “Questa è la prosecuzione della rivoluzione”, ha detto Saïed. “Ripuliremo il Paese dai corrotti, traditori e cospiratori”.
Se dopo la primavera araba che ha portato alla fine del ventennale regime di Ben Ali, si è guardato alla Tunisia come il Paese che era riuscito a dar vita in qualche modo a una democrazia, sebbene imperfetta, oggi, si assiste allo sgretolarsi di molte di quelle conquiste.
“Molti temono che un nuovo mandato per Saïed non farà altro che aggravare i problemi socioeconomici del paese, oltre ad accelerare la deriva autoritaria del regime”, scrive l’International Crisis Group.
Un piccolo Paese, la Tunisia, ma strategico, diventato il principale punto di partenza per chi cerca di raggiungere l’Europa, migranti che fuggono miseria e guerra.
In migliaia arrivano qui dall’Africa subsahariana: donne, uomini e bambini che rappresenterebbero, secondo Saïed, una minaccia per l’identità del Paese.
Salito al potere nel 2019, nella seconda tornata elettorale dopo la “Rivoluzione dei gelsomini”, era stato una sorpresa: un professore di diritto senza un partito alle spalle e senza esperienza, segno della frustrazione e della delusione dei tunisini dopo le speranze accese nel 2011. Lo chiamavano “Robocop”, per quei modi duri e rigidi.
Nel 2021, Saïed ha imposto lo stato d’emergenza e sciolto il Parlamento, in quello che l’opposizione ha definito un “colpo di stato”, e l’anno dopo ha sostenuto un referendum per la nuova costituzione che gli ha dato ampissima libertà di movimento, rimuovendo i sistemi di garanzia istituzionale e legale che fanno da contrappeso al potere del capo dello Stato.
La Tunisia è oggi un sistema presidenziale senza controlli, come spiega ancora l’International Crisis Group. “Allo stesso tempo, per rafforzare il suo progetto politico che mescola idee nazionaliste e di estrema sinistra, il presidente ha fatto leva sul risentimento popolare nei confronti – tra gli altri – della classe politica tunisina dell’era 2011-2021 e degli occidentali.
La sua retorica bellicosa ha portato ad attacchi violenti contro i migranti subsahariani”, si legge sempre nel rapporto dell’ICG.
Venerdì i tunisini hanno protestato, sono scesi in piazza gridando contro il “Faraone che manipola la legge”.
I seggi, però, hanno aperto dopo una campagna senza praticamente sfidanti, con la sola voce di Saïed a chiamare gli elettori alla “lunga guerra contro forze cospiratrici legate a circoli stranieri” che avrebbero infiltrato l’amministrazione pubblica.
“Sui muri di Tunisi gli spazi destinati alla propaganda elettorale erano praticamente vuoti, spesso solo la casella numero 3, quella del presidente in carica, era occupata da un’immagine.
Gli altri due candidati ammessi non avevano forse le risorse né la possibilità concreta di far appendere manifesti”, scrive Gianpaolo Cadalanu per l’Ispi, Istituto per gli studi di politica internazionale.
Non ci sono stati neppure comizi o dibattiti pubblici in questa campagna elettorale.
In 17 avrebbero voluto correre contro Saïed, ma l’Autorità indipendente per le elezioni ha ridotto la lista a tre, tra questi Ayachi Zammel, l’imprenditore che poteva rappresentare lo sfidante più forte, e che è finito in carcere con l’accusa di aver falsificato le firme a sostegno della sua candidatura e ora rischia 14 anni.
L’altro è stato l’ex alleato di Saïed, Zouhair Maghzaoui, leader del partito Chaab. “Molti critici del presidente o suoi alleati sono stati imprigionati grazie al Decreto 45, una normativa controversa passata nel 2022 che criminalizza ogni discorso pubblico che in seguito si dimostrasse falso”, riporta Al Jazeera.
Secondo l’organizzazione per i diritti umani Human Rights Watch, sarebbero “più di 170 le persone detenute in Tunisia per ragioni politiche o per aver esercitato i loro diritti fondamentali”.
“Dall’inizio del periodo elettorale, il 14 luglio, le autorità hanno perseguito, condannato o detenuto almeno nove potenziali candidati”, ha detto a The Guardian, Bassam Khawaja, vicedirettore per il Medio Oriente e il Nord Africa di HRW.
Una deriva autoritaria che coincide con un momento di forte crisi economia, segnata da inflazione, disoccupazione, scarsità di merci, interruzioni di acqua ed energia.
“Archiviata la formalità del voto, le prospettive del Paese restano poco chiare”, scrive ancora Cadalanu. Il corso della democrazia tunisina, sempre più prossima ad un’autocrazia, sta mutando i rapporti del Paese nordafricano con il resto del mondo, ma per far fronte alla crisi la Tunisia ha comunque bisogno di aiuto.
Saïed “ha respinto come “inaccettabili diktat” le richieste del Fondo monetario internazionale in cambio di un prestito da 1,9 miliardi di dollari”, misure di austerità fiscale che avrebbero messo in difficoltà il suo consenso, aggiunge sempre Cadalanu. Che racconta del riavvicinamento della Tunisia ai BRICS, il blocco dei paesi delle cosiddette economie emergenti.
La repressione del partito politico Ennahda, ramo dei Fratelli mussulmani, inoltre, rende tesi i rapporti con i Paesi dove la fratellanza esercita un forte potere, si legge ancora. Rashid Ghannouchi, tra i più critici contro Saïed, e fondatore e leader del partito che ha dominato la politica tunisina dopo la rivoluzione, è anche lui in carcere insieme ad altri membri del partito.
“La carta più preziosa in mano del presidente resta sempre quella di consolidare il Paese come scudo contro l’immigrazione, una carta che vale solo con l’Europa, e con l’Italia prima di tutto”, spiega Cadalanu.
“Le classi politiche europee, ossessionate dall’immigrazione illegale, non possono che chiudere un occhio di fronte ai metodi autocratici di Tunisi”, aggiunge.
L’anno scorso Saïed aveva detto che l’ingresso illegale di migranti era una “cospirazione per cambiare la composizione demografica del paese”. Parole che l’Unione Africana aveva censurato come incitamento all’odio.
“Nei giorni e nelle settimane successive, le famiglie migranti affermano di essere state sfrattate dalle loro case, i bambini negli asili nido sono stati sequestrati dalle autorità e interi quartieri sono stati saccheggiati. Molte persone non hanno lasciato le loro case per paura di essere prese di mira”, secondo The Guardian.
A maggio di quest’anno, poi, Saadia Mosbah, attivista e leader di un’organizzazione che lotta per i diritti dei migranti, Mnemty, era stata arrestata con il sospetto di crimini finanziari mentre il Presidente puntava il dito contro alcuni gruppi impegnati nel sostengo a chi arriva dopo aver percorso le durissime rotte che attraversano il deserto. Gruppi tacciati di tradimento.
Nonostante le accuse di violare i diritti umani che pesano sulla Tunisia, l’Unione europea ha stipulato un accordo da 105 milioni di euro per fermare i migranti, riporta The Guardian.
“L’accordo ha contribuito a finanziare le unità di sicurezza che hanno perpetrato diffuse violenze sessuali contro le donne lungo le rotte migratorie nel suo territorio”, secondo un’inchiesta realizzata proprio dal quotidiano britannico.
Sudan
Nessun accenno di tregua, nella guerra del Sudan che dall’aprile dello scorso anno è costata la vita ad un numero impossibile da calcolare di persone, decine di migliaia.
Si continua a combattere, l’Esercito sudanese contro il gruppo paramilitare delle Rapid Support Forces. E si continua a morire, sotto le bombe, di fame e di malattie, nella noncuranza del mondo.
L’esercito avanza, riporta la francese Radio France Internationale, e annuncia di aver riconquistato Jabal Moya, un luogo strategico per controllare le strade che portano alla capitale Khartoum, e un’avanzata che consente, come riporta RFI, “la riapertura della strada Sennar-Rabak e quindi la consegna di aiuti alimentari al nord”.
Esercito che ha lanciato anche un’offensiva proprio nella capitale, tornando a controllare alcuni quartieri. Emergono però già le prime accuse di crimini che sarebbero stati commessi dalle Forze Armate durante queste durissime giornate di guerra, in particolare esecuzioni sommarie per chi è sospettato di aver collaborato con le RSF.
Notizie che dovrebbero essere prese molto sul serio, secondo Radhouane Nouicer, responsabile dei diritti umani in Sudan per l’ONU che chiede indagini approfondite.
Si continua a combattere e morire anche nella città di al-Fasher, un tempo città rifugio nel Darfur per i profughi in fuga, oggi sotto il fuoco delle RSF da diversi mesi: sono oltre dieci i morti nel bombardamento della moschea del campo di Abu Chouk e altre otto le vittime nell’attentato al mercato.
“Già alla fine di settembre il bilancio delle vittime degli attentati ad al-Fasher ammontava a 48 persone morte in due giorni”, riporta RFI.
Mentre si intensificano i combattimenti e gli aiuti stentano ad arrivare, un numero incalcolabile di persone potrebbe morire, denuncia Hanan Balkhy, direttrice regionale dell’Organizzazione mondiale della sanità.
“I bambini malnutriti e le madri stanno morendo per mancanza di accesso alle cure, e il colera si sta diffondendo in molte parti del Paese”. Malattie e fame rischiano di costare la vita a decine di migliaia di persone.
A portare aiuti in un contesto in cui è difficilissimo, se non impossibile, per le organizzazioni internazionali raggiungere chi ha bisogno, sono quasi solo volontari locali.
Un’inchiesta realizzata dall’agenzia Reuters documenta le minacce e le violenze a cui sono sottoposti gli operatori che provano a rispondere ai bisogni di una popolazione stremata.
Reuters ha parlato con 24 volontari che gestiscono cucine comunitarie nello stato di Khartoum che sono diventate obiettivi. Riporta Reuters: “Le RSF Vedono le nostre cucine come una fonte di cibo”, ha detto Gihad Salaheldin, un volontario che ha lasciato la città di Khartoum l’anno scorso e ha parlato dal Cairo.
“Entrambe le parti – si legge ancora nel servizio dell’agenzia – hanno anche attaccato o arrestato volontari sospettati di collaborare con i loro oppositori”.
Gli Stati Uniti, intanto, hanno imposto sanzioni al fratello più piccolo di Mohamed Hamdan Dagalo, leader delle RSF e cosciuto con il nome d Hemedti. Algoney Hamdan Dagalo Musa è accusato di aver fornito armi al gruppo paramilitare e aver contribuito all’allargamento di un conflitto nel quale le RSF sono accusate di commettere crimini e violazioni dei diritti umani.
Lo stesso Algoney, secondo quando riporta il New York Times, ha fatto parte della delegazione delle RSF ai falliti negoziati di pace tenutisi ad agosto a Ginevra, e voluti dagli Stati Uniti.
Hemedti accusa invece l’Egitto di aver condotto bombardamenti aerei sulle sue truppe, e di fornire droni e addestrare l’esercito sudanese. L’Egitto, che ha ospitato una tornata di colloqui tra Forze armate e paramilitari, nega ogni suo coinvolgimento.
Repubblica Democratica Del Congo
Le parole sono sempre le stesse, i racconti sempre gli stessi. Da trent’anni. Parole di guerra e di orrore per descrivere quello che accade nell’Est della Repubblica democratica del Congo.
Huang Xia, l’inviato speciale del Segretario generale delle Nazioni Unite per la regione dei Grandi Laghi si è seduto davanti al Consiglio di sicurezza e ha ripetuto quelle stesse parole. La situazione resta “allarmante”, ha detto. “
È la popolazione civile che continua a portare ogni giorno il pesante tributo alla guerra: la perdita di vite, violenze sessuali, malattia e malnutrizione dei campi profughi”, ha aggiunto. Però, secondo Xia, forse c’è un “barlume di speranza”.
L’M23, le ADF, la Codeco, e moltissime altre sigle, oltre 120 gruppi armati fanno di questa terra una delle più tormentate del pianeta. Un conflitto, però, che non ha una dimensione locale, piuttosto regionale, con interessi globali.
È stato un recente rapporto della stessa Onu a indicare la presenza di truppe ruandesi nel Paese e il loro supporto al gruppo degli M23.
Il barlume di speranza risiederebbe, secondo Xia nel processo portato avanti dal presidente dell’Angola, João Lourenço, il cosiddetto processo di Luanda, che ha l’obiettivo di far raffreddare la tensione tra il Congo e il Ruanda.
“Posso testimoniare che i recenti colloqui di pace nel quadro del processo di Luanda sono incoraggianti e rappresentano un passo importante verso la messa a tacere delle armi e il raggiungimento di una pace duratura”, ha affermato.
A garantire una certa calma sarebbe stato l’accordo di cessate il fuoco, firmato il 30 giungo e che XI ritiene sia stato largamente rispettato.
Secondo Xi servono tre ingredienti perché la pace possa avere una chance: fiducia tra i paesi della regione, inclusività – in particolare la partecipazione delle donne – e il supporto della comunità internazionale.
Il Congo sostiene, però, che sia il Ruanda ad ostacolare proprio questi negoziati. Questi i commenti che arrivano dal Ministro degli esteri congolese, Therese Kayikwamba Wagner, durante la seduta del Consiglio di sicurezza, e che seguono le accuse del Ruanda al Congo che non avrebbe firmato un accordo negoziato ad agosto e mediato dall’Angola, come riporta Reuters.
Sonia Rolley su Reuters scrive che il “Ruanda, che nega di supportare gli M23 – e rifiuta ogni clausola dell’accordo che menzioni la sua responsabilità nella guerra del Congo – dice di aver preso quelle che chiama misure difensive e accusa il Congo di combattere al fianco di un gruppo di ribelli Hutu, le FDLR, le Forze democratiche per la liberazione del Ruanda, che hanno attaccato i Tutsi in entrambi i Paesi”.
Intanto però, arrivano nuovi dati drammatici e nuove accuse da parte delle stesse Nazioni Unite. Secondo Volker Türk, Alto Commissario per i diritti umani, quest’anno gli sfollati hanno raggiunto i 6,4 milioni, con oltre 940 mila persone in più.
E Bintou Keita, capo della missione dei caschi blu MONUSCO, ha accusato il M23 di “aver attaccato ospedali e luoghi di sfollati durante la cattura di Kanyabayonga alla fine di giugno”, riporta RFI.
“Qualsiasi ruolo svolto dal Ruanda nel sostenere l’M23 nel Nord Kivu – e da qualsiasi altro paese che sostiene gruppi armati attivi nella RDC – deve finire”, ha poi affermato Türk (RFI).
Congoweek in Italia e nel mondo
Trent’anni di guerra e trent’anni di silenzio. Non smette, però, la società civile di chiedere pace e giustizia per la Repubblica democratica del Congo. E lo fa con la Congo Week, una settimana di eventi e mobilitazione in tutto il mondo.
Quest’anno torna anche in Italia, dal 12 ottobre al 19, grazie al lavoro di una rete di cittadini, la Rete Insieme per la Pace in Congo, nata nel 2023, dopo il viaggio compiuto da Papa Francesco, e che raccoglie decine di organizzazioni e attivisti in tutto il Paese. Eventi in 12 città italiane: Torino, Trento, Rovereto, Verona, Oderzo; Padova; Mantova, Guastalla, Massa, Carrara, Rosolini e Modica.
Incontri pubblici, testimonianze di chi in Congo vive o di chi da quel paese è stato costretto a scappare a causa di una guerra. Un conflitto armato che, scrivono gli organizzatori, ha fatto “dieci milioni di morti” in un Paese da dove si fugge anche per la persecuzione politica “perpetrata ai danni di chi si ribella in maniera civile ad un governo da sempre disinteressato delle condizioni di estrema povertà in cui vive il 90% della popolazione.
La Repubblica Democratica del Congo è oggi uno degli stati più ricchi di minerali, ma anche uno dei paesi con il più basso tasso di sviluppo economico del pianeta e soggetto allo sfruttamento delle multinazionali, tanto da esser stato provocatoriamente definito “ricco da morire”, spiegano ancora dalla Rete.
Non solo testimonianze ma anche concerti, girotondi e molte iniziative. La Congo Week commemora le vittime di questo lunghissimo conflitto ed è stata lanciata per prima volta nel 2008 da normali cittadini, intellettuali, accademici, artisti e leader religiosi di tutto il mondo, ha coinvolto 75 Paesi e circa 600 tra università e comunità.
Tutte le informazioni per partecipare agli eventi italiani sono sul sito: https://www.insiemeperlapaceincongo.org/congo-week-2024/.
Mozambico
In Mozambico si contano i voti delle elezioni nazionali che si sono tenute il 9 ottobre e il cui esito sembra scontato. Nessuno si aspetta altro se non che il potere resti in mano al partito Frelimo, che guida il Paese da quasi cinquant’anni, ovvero dall’indipendenza dal Portogallo nel 1975. Quello che si attendeva, però, erano anche le ombre di irregolarità.
A sollevarle, le organizzazioni della società civile. “Più di 200 seggi hanno negato a giornalisti e osservatori l’accesso al processo, ha detto la piattaforma della società civile, Sala da Paz”, come riporta l’agenzia Reuters.
“Ci sono stati significativi casi di … irregolarità elettorali che sollevano domande sulla credibilità del processo” elettorale, ha dichiarato l’organizzazione. Elezioni “storicamente caratterizzate dalle frodi”, secondo quanto sostiene Analgencio Makamo, un analista della missione Mais Integridade (Reuters).
I primi risultati provvisori sono attesi per domani, ma ci vorranno almeno due settimane per quelli ufficiali. La vittoria scontata è quella del quarantasettenne della Frelimo, Daniel Chapo, che dovrebbe succedere a Filipe Nyusi.
L’unico sfidante di peso, Venancio Mondlane, corre dopo aver lasciato la Renamo, il partito di opposizione che ha combattuto contro la Frelimo nella lunga guerra civile terminato nel 1992.
Il nuovo presidente non si troverà davanti solo un Paese dall’economia fragile e sempre più vulnerabile all’impatto del cambiamento climatico, ma anche la lunga rivola islamista nel Nord, scoppiata sette anni fa, con l’insurrezione dello Stato islamico del Mozambico.
Ottobre del 2017, Cabo Delgato, regione ricchissima di gas, dove la Total ha dovuto abbandonare un progetto da 20 miliardi di dollari, così come si è dovuto fermare quello di Exxon Mobile.
Chapo ha promesso negoziati da una parte, mentre dall’altra dichiara di voler continuare a combattere. Da allora, sono circa 1,3 milioni gli sfollati interni.
A fare il punto, un rapporto dell’Internal Displacement Monitoring Centre pubblicato ieri. “Il conflitto ha narrazioni contrastanti sulle sue origini, ma è opinione diffusa che la scoperta di rubini e giacimenti di gas naturale nella regione e il cattivo governo di queste risorse abbiano avuto un ruolo importante nella sua escalation”, si legge.
Il 2023, spiegano i ricercatori, è stato segnato da una diminuzione dei combattimenti, dovute, si legge, in gran parte dovute alle operazioni condotte dalle truppe del Mozambico, insieme a quelle dislocate dalla Comunità di sviluppo dell’Africa meridionale e dal Ruanda. Nel 2024, invece, la situazione è nuovamente precipitata.
A febbraio, nel distretto di Chiùre, il gruppo ha sferrato attacchi nei villaggi “bruciando chiese, case, scuole e edifici governativi”. Circa 96 milia gli sfollati. Ad aprile, nuovi attacchi e altre 50 mila persone costretta a fuggire: un’escalation che tra gennaio e giungo ha portato un “numero di sfollati – 200 mila – cinque volte superiore al 2023”.
Mai mutate le condizioni di chi ha dovuto lasciare tutto: “La popolazione sfollata, che vive per la maggior parte nelle zone meridionali della provincia, ha dovuto affrontare diverse sfide, tra separazioni familiare, disagio mentale e la mancanza di documentazione civile necessaria per l’accesso ai servizi essenziali.
I loro bisogni sono urgenti e molteplici e vanno dall’alloggio, al cibo e sicurezza, all’accesso all’assistenza sanitaria e all’istruzione”, sostiene il rapporto dell’IDMC.
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