12 settembre 2024 – Notiziario Mondo

Scritto da in data Settembre 12, 2024

  • Tanzania:  omicidio di un membro del partito d’opposizione e arresti di centinaia di attivisti, si teme il ritorno all’autoritarismo.
  • Algeria:  si conferma presidente Abdelmajid Tebboune
  • Ciad: l’Ungheria tenta la penetrazione africana
  • Nazioni Unite: votato embargo in Sudan.

Questo e molto altro nel notiziario Africa a cura di Elena Pasquini

Lunedì 12 settembre 1977, carcere di Pretoria, Sudafrica. Muore Steve Biko. Era stato massacrato di botte alcuni giorni prima. Picchiato nella “stanza 619”,  cella di tortura nel Sanlam Building, il quartier generale delle forze di sicurezza a Port Elizabeth.

“L’arma più potente nelle mani dell’oppressore è la mente dell’oppresso”, diceva.

Era il leader del Black Consciousness Movement, il movimento che fu motore delle proteste di Soweto. Le proteste contro l’apartheid che divennero strage: oltre mille persone, molti i ragazzini, uccisi dalla repressione della polizia. Chiedevano uguaglianza, diritti, parlare la loro lingua.

Lo ricordiamo oggi perché quella lotta non fu solo per il Sudafrica. Come oggi, non ci sono lotte per i diritti che non ci riguardino.

Diceva Gino Strada, il fondatore di Emergency, che i diritti o sono di tutti o sono privilegi. Ed i privilegi non sono dati per sempre, per nessuno. Lo ricordiamo oggi, Steve Biko, mentre in molti Paesi africani si continua a lottare per quei diritti, inclusa la vita, che sono ancora solo privilegi per una parte di mondo.

Tanzania

Gridano a Tanga, chiedono le dimissioni del ministro Hamad Masauni. “Dove è il governo? La gente viene rapita e non c’è nessuna reazione. Ministro Masauni dimetti, dimettiti, dimettiti!”.

È il funerale di Ali Mohamed Kibao, sequestrato, brutalmente picchiato e poi cosparso di acido. Il suo corpo è stato trovato sabato mattina nei terreni dell’Istituto di previdenza sociale, a Uninio, quartiere lungo quella costa, in questo paese guidato da una donna, paradiso del turismo, narrato come un “miracolo” a cui guardano gli appetiti degli investitori di tutto il mondo.

Sessantanove anni, membro del partito di opposizione Chadema, Ali Kibao viaggiava da Dar es Salaam, la più grande città della Tanzania e il suo più grande porto, a Tanga, dove era nato.

Sembra sia stato costretto a scendere dall’autobus da sospetti agenti di sicurezza, riporta la BBC. Un omicidio che è solo l’ultimo atto di un’ondata di sparizioni, arresti e violenze.

A dicembre la Tanzania voterà per rinnovare le amministrazioni locali, nel 2025 ci saranno le elezioni generali. Un omicidio che è un “cattivo presagio” per le prossime tornate elettorali, sostiene l’organizzazione per i diritti Human Rights Watch, HRW.

“L’autopsia è stata eseguita ed è ovvio che Ali Kibao è stato ucciso, dopo essere stato duramente picchiato e perfino dopo che gli è stato versato dell’acido sul viso”, ha dichiarato Freeman Mbowe, presidente del partito, davanti alla porta dell’obitorio.

“Un omicidio politico”, titola la rivista Africa.

“Ho ordinato alle agenzie investigative di fornirmi informazioni dettagliate su questo terribile incidente e altri simili il prima possibile”, ha detto in un post su X la presidente, Samia Suluhu Hassan.

“Il nostro Paese è una democrazia, e ogni cittadino ha diritto alla vita. Il governo che guido, non condona né tollera tali atti di brutalità”, ha aggiunto.

Nel 2021, Samia Suluhu Hassan aveva promesso riforme, lotta alla corruzione e un cambio di rotta dall’involuzione autoritaria del suo predecessore, John Magufuli, il “bulldozer”, morto mentre era in carica.

Aveva persino tolto il divieto ai raduni dell’opposizione e incontrato Tundu Lissu, membro di Chadema, esiliato dal precedente regime. Ora, però, si teme il ritorno ad uno stato di polizia.

L’apparato di sicurezza è ancora saldamente nelle mani dell’ufficio del presidente, il potere è fortemente centralizzato.

Il mese scorso sono stati arrestati oltre 500 attivisti e giornalisti, tra cui proprio Lissu e lo stesso Mbowe, entrambi trattenuti per quarant’otto ore.

Chadema, che è il più grande partito d’opposizione, aveva tentato di organizzare una manifestazione nella città di Mbeya, nel sud-ovest del Paese. “È stato vietato poco prima che avesse luogo dalla polizia tanzaniana, che sostenuto che la manifestazione avrebbe potuto scatenare violente proteste.

Il commissario Awadh Juma Haji … ha contestato le parole di un leader giovanile di Chadema che invitava i sostenitori dell’opposizione a “ispirarsi ai nostri colleghi in Kenya””, scrive Deus Valentine, CEO del Center for Strategic Litigation, su The Continent.

Il partito ha denunciato la sparizione di membri della sua sezione giovanile, Bavicha e l’organizzazione per i diritti umani, Amnesty International, ha parlato di “arresti arbitrari”.

Prima ancora, però, come riporta Radio France Internationale, a luglio, era scomparso Dioniz Kipanya, altro membro del partito, e altri tre sarebbero stati rapiti un mese dopo a Dar es Salaam.

Non se ne hanno più notizie. Secondo la Tanganyika Law Society, in tre mesi sarebbero 83 le persone di cui non si sa più nulla.

“Non possiamo consentire che la nostra gente continui a scomparire o ad essere uccisa così. Le vite dei leader di Chadema sono a rischio adesso”, ha detto all’Agence France Press, Mbowe.

“Non siamo affatto al sicuro. Sono tutti preoccupati, me compreso, non so se vedrò domani. Ogni volta che le persone escono di casa devono dire addio alla propria famiglia perché non sanno se avranno la possibilità di rivederla. Il regime di Magufuli sta tornando, e a pieno ritmo.

Sotto il [suo] regime abbiamo vissuto la stessa cosa, ma ora questi incidenti accadono in tutto il Paese e, cosa nuova, non ci sono indagini, né accuse.

Sotto Magufuli, a volte siamo stati portati in tribunale e con false accuse, ma ora le persone semplicemente scompaiono e non riusciamo a trovare i loro corpi”, racconta John Mirema, portavoce di Chadema, su RFI.

“In quei giorni bui per la democrazia della Tanzania, ai partiti di opposizione era vietato tenere manifestazioni per decreto presidenziale, e i loro leader dovettero affrontare sia persecuzione giudiziaria che fisica. Tundu Lissu, ad esempio, è sopravvissuto solo per un pelo a un attentato in cui gli hanno sparato sedici volte”, racconta ancora Valentine.

“La presidente Samia Suluhu Hassan, inizialmente aveva promesso di essere diversa. Ha consentito ai mezzi di informazione indipendenti di operare e, nel gennaio 2023, ha revocato il divieto presidenziale sulle manifestazioni dell’opposizione.

Ciò significava che altri partiti politici potevano fare campagna elettorale liberamente, per la prima volta dal 2016.

È stata elogiata per aver creato un clima migliore per gli investimenti internazionali e ha perseguito una politica di sanità pubblica basata sulla scienza, ben lontana dal famigerato e mortale negazionismo del Covid di Magufuli”, aggiunge.

John Mnyika, segretario di Chadema, ha apertamente accusato i servizi di intelligence della Tanzania – “principali sospettati” – di essere dietro la morte Ali Kibao, riporta Business Insider Africa. Non crede che le indagini arrivino da nessuna parte. L’opposizione chiede indagini indipendenti.

E riforme, perché “la legge può essere strumentalizzata” e la legge della Tanzania deve cambiare, come aveva spiegato a marzo in una intervista a Human Rights Watch, l’avvocato e attivista Tito Magoti, arrestato nel 2019 e detenuto senza processo con l’accusa di terrorismo, poi di crimini economici, riciclaggio di denaro e di essere guida della criminalità organizzata.

Quelle stesse leggi che stanno costando due anni di prigione e duemila dollari, ad un giovane di 24 anni, Shadrack Chaula, colpevole di aver postato su Tik Tok un video in cui brucia un’immagine della presidente mentre l’apostrofa con parole forti.

È accusato di aver diffuso informazioni false e di aver violato le leggi sul cyberbullismo, in questo Paese dove nel 2018 è stata approvata una legge contro le “fake news” considerata dai critici l’ennesimo tentativo di limitare la libertà di espressione.

Riforme necessarie, spiega Magodi, perché chiunque al potere può usare la legge come vuole, per i suoi “capricci”: “se il presidente sceglie di agire in modo duro, ha ancora gli strumenti a sua disposizione.

Dopo tutto, il presidente Suluhu ha usato queste leggi: ha incarcerato [il politico dell’opposizione] Freeman Mbowe.

Cerca di far sembrare che sta annullando l’oscura eredità di Magufuli, ma abbiamo ancora persone in prigione per aver criticato il governo”, sosteneva l’attivista raccontando di come, appena rilasciato, avesse scritto a Suluhu spiegando cosa non andava nel sistema giudiziario della Tanzania.

Era stato persino consultato quando la presidente decise di formare una task force per esaminare il sistema penale.

“Nonostante ci sia stata voglia di riforme nel Paese, non ci siamo mossi perché manca la volontà politica di cambiare gli aspetti principali del nostro sistema, ovvero la costituzione e le cattive leggi.

Invece, abbiamo promesse politiche dal Presidente e dai ministri. Ma più le cose cambiano, più restano le stesse. È lo stesso tè in una tazza diversa”, aggiunge.

Un passo indietro, verso un passato che si credeva dimenticato, dove il potere non può essere messo in discussione.

Non le sue scelte, quelle che toccano la terra, per esempio; o le infrastrutture, le risorse naturali. Come l’accordo con una società di logistica degli Emirati per la gestione dei porti marittimi del Paese. Un accordo controverso che è costato agli oppositori l’accusa di “tradimento”, il reato più grave.

“Non direi che le cose sono cambiate drasticamente. Forse siamo bloccati da qualche parte tra il presidente Suluhu che dice di essere democratica ma che fa anche fatica a costruire ponti e istituzioni politiche? Ma come ci si può riconciliare quando alcuni dei nostri uomini e donne sono ancora in prigione?”, aggiunge Magodi.

Ed è forse lì, alle immense ricchezze e al ruolo che il Paese vuole giocare nelle scacchiere globale, che bisogna guardare per capire il Paese che non è solo spiagge e safari.

Dritti fragili e interessi economici, moltissimi, che ancora ancora una volta sembrano andare l’uno contro l’altro, a scalfire l’immagine perfetta del paradiso Tanzania.

Perché questo Paese non è soltanto il miracolo raccontato dei media occidentali poco dopo l’elezione della presidente Samia Suluhu Hassan nel 2021, è anche quello che deporta i pastori Maasai dalle loro terre ancestrali per “venderle agli investitori”, come sostiene l’attivista e avvocato Tito Magodi.

Dal giugno 2022 – documenta Human Rights Watch – “le autorità hanno adottato tattiche abusive e illegali, tra cui percosse, sparatorie, violenza sessuale e arresti arbitrari per sfrattare con la forza i residenti nella divisione di Loliondo, nel distretto di Ngorongoro”, nel Nord del Paese.

Costretti a spostarsi a 600 km di distanza. Ad agosto di quest’anno, i pastori Maasai avevano protestato bloccando decine di auto di turisti in safari.

“Il governo giustifica questi movimenti con l’aumento della popolazione Masai e delle sue mandrie che metterebbero in pericolo la zona di conservazione (naturale).

Ma le associazioni per i diritti umani la denunciano come una decisione politica ed economica. Il turismo dei safari, ma anche quello super-elitario della caccia grossa, costituisce una manna finanziaria alla quale il governo tanzaniano non vuole rinunciare”, si legge su Africa.

“It’s like a killing culture”, una cultura omicida, scriveva HRW a luglio, figlia di quelle scelte che hanno fatto della Tanzania un Paese dove si corre, sempre più forte, nella gara per l’accaparramento delle terre. Turismo, ma anche agribusiness.

La Tanzania è stata uno dei paesi più colpiti dalla grande corsa per i terreni agricoli in tutto il mondo dopo la crisi alimentare e finanziaria del 2008.

“I grandi progetti agricoli, che sono diventati una strategia preferita da donatori, multinazionali e alcuni governi, alla fine hanno causato più danni che benefici esacerbando i conflitti fondiari e distruggendo i mezzi di sussistenza delle persone.

In Tanzania, la maggior parte di questi progetti è fallito presto e ha causato sofferenze ai piccoli agricoltori”, scrivono Grain e l’organizzazione contadina, La via Campesina.

“Nonostante questo tragico primato – aggiungono – il governo della Tanzania sta perseguendo un altro giro di investimenti esteri nel settore agroalimentare trasformando centinaia di migliaia di ettari di terre in “fattorie a blocchi “dove le multinazionali produrranno raccolti da esportazione, non alimenti locali per la popolazione.

Con la Cina che guarda alla Tanzania come nuova fonte di approvvigionamento di semi di soia, si potrebbe preparare il terreno per un’altra ondata di furti di terre, con conseguenze disastrose per i piccoli agricoltori”.

Si chiama “Building a Better Tomorrow”, il programma lanciato dalla presidente Samia che prevede il disboscamento di vaste aree da convertire ad irrigazione irrigua su larga scala, attraverso le cosiddette “block farms”. Sarebbero stati già identificati 690 mila ettari destinati a questo scopo.

Scelte, anche queste, che potrebbero far crescere ulteriormente la tensione sociale: “I conflitti per la terra sono già presenti nel Paese e non solo a causa dell’agribusiness, ma anche per gli accordi minerari, le riserve ambientali, i parchi e i progetti di carbon credit”, si legge su Grain.

Una nuova spinta allo sfruttamento intensivo della terra che getta benzina su un fuoco che è già un incendio.

Algeria

Abdelmajid Tebboune è stato rieletto presidente dell’Algeria, sabato. Come era prevedibile. Una percentuale altissima di consensi: il 94,65%, praticamente un plebiscito. E non si è sforzato neppure troppo, giusto quattro comizi durante la campagna elettorale.

Una vittoria schiacciante che non racconta tutta la storia. Persino il responsabile della sua campagna si è unito ai due sfidanti nel denunciare “gravi incongruenze” nei risultati, racconta The Africa Report. Quello che non torna – e che brucia al Presidente, è l’affluenza.

Mohamed Charfi, a capo dell’Autorità Nazionale Indipendente per le elezioni aveva comunicato alla televisione pubblica algerina che si era recato alle urne il 48% degli aventi diritto al voto, con un calcolo messo rapidamente in discussione. Avrebbe votato solo 23%. Ed erano proprio  boicottaggio e assenteismo a far paura a Tebboune.

“Molto prima della campagna elettorale, e ancor di più durante la stessa, il presidente uscente si è vantato dei risultati economici del suo primo mandato …  e ha elogiato i suoi successi sulla scena regionale e internazionale, sottolineando che l’Algeria è diventata una potenza ascoltata e rispettata”, scrive sempre The Africa Report.

“Considerato questo record apparentemente lusinghiero, gli elettori avrebbero dovuto presentarsi in massa, sabato, per convalidare il primo mandato di Tebboune … La bassa affluenza è quindi, prima di tutto, un segno di disapprovazione del primo mandato quinquennale”, si legge ancora.

I due rivali, Abdelaali Hassani Cherif, leader dell’islamista Mouvement de la Société pour la Paix e Youcef Aouchiche, leader del Front des Forces Socialistes, hanno ottenuto rispettivamente il 3,17% dei voti e il 2,16%: il 10 settembre hanno presentato ricorso alla Corte costituzionale.

“Ritorno alle vecchie pratiche”, “pressioni su alcuni amministratori dei seggi elettorali per gonfiare i risultati”, “mancata consegna dei resoconti di conteggio ai rappresentanti dei candidati”, “massiccio ricorso al voto per delega”, denuncia un comunicato di MSP.

Una rielezione avvenuta mettendo il bavaglio ad ogni forma di dissenso, impedendo proteste e boicottaggi, denunciano in Algeria.

“Mai una campagna elettorale presidenziale è stata segnata da una repressione così implacabile”, ha detto Mohcine Belabbas, ex presidente del  Rassemblement pour la culture et la démocratie, si legge su Le Monde, partito che ha boicottato le elezioni presidenziali dopo numerosi arresti tra i suoi membri.

“Secondo l’elenco in mio possesso, ci sono attualmente 225 prigionieri di coscienza, un numero sottostimato perché le famiglie a volte hanno paura di comunicare ”, spiega Zakaria Hannache, attivista per i diritti umani lui stesso minacciato, nel 2022 , e oggi rifugiato in Canada.

 “Nelle ultime tre settimane ho notato anche un aumento del numero di persone convocate per interrogatori, intimidite prima di essere rilasciate”, aveva detto Hannache sempre su Le Monde.

Dal giugno 2019, scrive il quotidiano francese, le autorità “fanno affidamento su un arsenale legale, rafforzato nel 2021 dall’articolo 87 bis del codice penale, che equipara al “terrorismo” o al “sabotaggio” qualsiasi invito a “cambiare il sistema di governo con mezzi non convenzionali”.

Una definizione “così vaga da lasciare ai servizi di sicurezza un ampio margine di manovra per arrestare i difensori dei diritti umani”, come ha sostenuto nel novembre del 2023, Mary Lawlor, relatrice speciale delle Nazioni Unite.

Tebboune, salito al potere con il movimento Hirak, l’ondata di proteste che ha portato alla fine del regime di Abdelaziz Bouteflika, ha di fronte quei problemi che sono sempre gli stessi a travagliare il Paese nordafricano, e a cui si aggiungono tensioni crescenti ai sui confini.

L’uomo che guida il paese dove Amnesty International denuncia una “repressione continua dei diritti alla liberta di espressione e di riunione politica”, deve fare i conti non solo con le richieste pressanti di uno spazio democratico, ma anche con una galoppante disoccupazione giovanile che ha superato il 30% tra i minori di 24 anni su una popolazione molto giovane.

E poi, deve tentare di diminuire la dipendenza dagli idrocarburi (l’Algeria è il primo esportatore africano di gas naturale), che rende la sua economia ricca ma anche fragile e vulnerabile, cosi come affrontare le crisi ai sui confini, con Marocco, Mali e Libia.

Ungheria e Chad

L’Ungheria va avanti, vuole giocare un ruolo militare nel Sahel e inviare 200 soldati in Chad. Relazioni sempre più strette con questo Paese strategico, nel cuore di una regione volatile attraversata da guerre ed instabilità, dal Sudan, alla Libia, al Niger, al Mali, alla Repubblica centrafricana.

Un Paese che è un alleato chiave dell’Occidente. Nel fine settimana, Mahamat Idriss Déby è volato a Budapest per incontrare Viktor Orban.

“Il Chad è un paese chiave nella lotta contro l’immigrazione clandestina in Africa. La migrazione dall’Africa verso l’Europa non può essere fermata senza i paesi della regione del Sahel.

Ecco perché l’Ungheria sta costruendo un partenariato con il Chad. Stiamo lavorando su questo oggi e domani con il presidente Deby”, ha dichiarato Orban su Facebook.

Nell’ultimo anno l’Ungheria ha lavorato per costruire una relazione sempre più stretta con il paese africano, mentre l’Occidente perde la sua storica influenza a beneficio della Russia, con la Francia cacciata dalle giunte militari salite al potere in Mali, Niger e Burkina Faso, e gli Stati Uniti che hanno dovuto ritirare i propri soldati.

L’Ungheria “ha aperto un centro di aiuto umanitario e una rappresentanza diplomatica, firmando accordi nel campo dell’agricoltura e dell’istruzione. Prevede inoltre di schierare truppe per addestrare le forze locali contro i jihadisti”, scrive Le Monde.

Vuole svolgere “un ruolo militare più attivo”, spiega all’Agence France- Presse Viktor Marsai, direttore dell’Istituto di ricerca sulla migrazione con sede a Budapest.

Dalla fine della missione NATO in Afghanistan nel 2021, “l’esercito ungherese non dispone più di un teatro di operazioni in cui affinare le proprie armi in un ambiente ragionevolmente rischioso”.

Una decisione accolta positivamente dall’Unione Europea. “È importante che più partner internazionali lavorino con il Ciad”, ha detto un portavoce dell’UE all’agenzia di stampa AFP.

Non mancano le critiche interne per un’operazione sulla cui efficacia si sollevano dubbi: “spreco di denaro”, operazione “pericolosa”, denuncia l’opposizione. In realtà “non sappiamo cosa faremo lì”, confida un alto ufficiale militare in pensione, parlando a condizione di anonimato a Le Monde.

A muovere l’Ungheria, che non ha storicamente una forte presenza in Africa, anche significativi interessi economici.

“In primo luogo, dobbiamo considerare i fattori di attrazione che potrebbero attrarre Budapest verso il Sahel o il Ciad, in particolare le abbondanti risorse nel Sahel in termini di petrolio, uranio, oro e altre risorse che sono molto abbondanti e devono ancora essere sfruttate”, ha detto Fidel Amakye Owusu, politico e analista ghaniano, Deutsche Welle.

“Come ogni paese europeo, l’Ungheria sta diventando sempre più influente e vorrebbe anche avere una buona parte delle risorse dell’Africa. Oro, cobalto, litio e altre risorse sono i principali fattori di attrazione che potrebbero spingere Budapest nel Sahel, e non dovrebbero essere trascurate”, ha aggiunto.

Sudan

Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha rinnovato ieri, all’unanimità, le sanzioni verso il Sudan, o meglio il Darfur, ancora per un anno. La risoluzione 1591, che ha come obiettivo precisi individui ed entità coinvolte nel conflitto, resterà in vigore ancora per dodici mesi. Include divieti di viaggio, il congelamento di beni e l’embargo sulle armi.

“Questa adozione invia un segnale importante [alla popolazione], che la comunità internazionale rimane concentrata sulla loro difficile situazione e si impegna a promuovere la pace e la sicurezza in Sudan e nella regione”, ha detto Robert Wood, vice inviato degli Stati Uniti all’Onu.

“Il rinnovo delle misure sanzionatorie limiterà il movimento di armi nel Darfur e sanzionerà individui ed entità che contribuiscono o sono complici di attività destabilizzanti in Sudan”, ha aggiunto.

Un’opportunità sprecata, invece, per Jean Bpatise Gallopin, ricercatore di Human Rights Watch. “La decisione di oggi del Consiglio di sicurezza di rinnovare il regime delle sanzioni sul Darfur senza espanderlo all’intero Sudan è un’opportunità sprecata. Il consiglio dovrebbe correggere questo fallimento il prima possibile ed espandere le restrizioni delle armi a tutto il [Paese] per limitarne il flusso e le atrocità diffuse che vengono commesse”.

Secondo un rapporto dell’organizzazione per i diritti umani, reso noto in questi giorni, le Forze armate sudanesi e le Rapid Support Forces, che si combattono dalla primavera dello scorso anno e sono accusate di aver commesso atrocità e crimini di guerra, “hanno recentemente acquistato armi ed equipaggiamenti militari moderni di fabbricazione straniera”.

Il conflitto del Sudan è una delle peggiori crisi umanitarie contemporanee: un numero difficile da quantificare di morti, sicuramente superiore alle 20mila persone, e 10 milioni dii sfollati.

“Con le parti in guerra che commettono atrocità impunemente e le armi, le attrezzature appena acquisite potrebbero essere utilizzate per commettere ulteriori crimini”, ha affermato Jean-Baptiste Gallopin.

“I combattenti sia della SAF che della RSF hanno pubblicato dalla metà del 2023 foto e video di nuovi kit di fabbricazione straniera, come droni armati e missili guidati anticarro”.

Human Rights Watch li ha analizzati. Video apparentemente girati da combattenti di entrambe le parti, pubblicati sulle piattaforme di social media come Facebook, Telegram, TikTok e X .

“Le attrezzature apparentemente nuove identificate da Human Rights Watch, che includono droni armati, lanciarazzi montati su camion e munizioni per mortaio, sono state prodotte da società registrate in Cina, Iran, Russia, Serbia e gli Emirati Arabi Uniti.

Human Rights Watch non è stata in grado di stabilire in che modo le parti in conflitto abbiano acquisito le nuove attrezzature”, si legge.

L’organizzazione per i diritti umani chiede l’estensione dell’embargo a tutto il Paese perché il regime delle sanzioni – istituito nel 2004, quando il Darfur era l’epicentro di un brutale conflitto – dovrebbe tenere in considerazione che la guerra oggi coinvolge un territorio molto più vasto.

I risultati dell’indagine di HRW, “dimostrano sia l’inadeguatezza dell’attuale embargo limitato al Darfur, sia i gravi rischi posti dall’acquisizione di nuove armi da parte delle parti in guerra.

Un embargo nazionale sulle armi contribuirebbe ad affrontare questi problemi facilitando il monitoraggio dei trasferimenti in Darfur e impedendo l’acquisizione legale di armi da utilizzare in altre parti del Sudan”, sostengono i difensori dei diritti umani.

Ad opporsi all’estensione, il governo sudanese che negli ultimi mesi “ha esercitato pressioni sui membri del Consiglio di Sicurezza affinché ponesse fine all’regime e rimuovesse del tutto l’embargo sul Darfur”, aggiungono.

Mali

A luglio una battaglia nel nordest del Mali, a Tinzaouaten, tra i combattenti dell’ex Wagner alleati all’esercito maliano e i ribelli, indipendentisti, Tuareg, era costata molte vite e una pesante sconfitta ai mercenari russi.

Tra quei mercenari che presumibilmente hanno perso la vita, ha rivelato ieri l’agenzia Reuters, c’erano veterani sopravvissuti alla guerra in Ucraina, Libia e Siria: “Incrociando le informazioni pubbliche con i post online di parenti e combattenti, parlando con sette parenti e utilizzando un software di riconoscimento facciale per analizzare i filmati del campo di battaglia verificati da Reuters, l’agenzia di stampa è stata in grado di identificare 23 combattenti dispersi in azione e altri due presi prigionieri dai Tuareg dopo l’imboscata vicino a Tinzaouate.

I macabri filmati di combattenti morti sono ora circolati online e alcuni parenti hanno detto a Reuters che i corpi dei loro mariti e figli erano stati abbandonati nel deserto”, riporta l’agenzia precisando di  non per confermare quanti degli uomini identificati fossero morti.

L’agenzia di stampa sostiene che “la perdita di combattenti così esperti mostra i pericoli affrontati dalle forze mercenarie russe che lavorano per le giunte militari, che stanno lottando per contenere i separatisti e le potenti propaggini dello Stato islamico e di Al Qaeda nell’arida regione del Sahel in Mali, Burkina Faso e Niger”.

Una sconfitta che, secondo Reuters, metterebbe in dubbio la capacità della Russia di fare meglio delle truppe occidentali e dell’Onu nel pacificare l’area.

Foto di copertina: Nikita Sakurai / Unsplash

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