13 dicembre 2024 – Notiziario Africa

Scritto da in data Dicembre 13, 2024

Vittime civili. “Sono esseri umani in carne e sangue. Sono bambini. Sono madri. Sono fratelli. Sono nonni. Sapete una cosa? Sono vostre sorelle e vostri fratelli perché apparteniamo alla stessa famiglia”.

Desmond Tutu, vescovo anglicano, premio Nobel per la pace, attivista per i diritti umani che ha lottato contro l’apartheid in Sudafrica, pronunciava queste parole nel 2003.

La guerra, allora, è quella in Iraq. Quella, come tante altre, come tutte quelle che si stanno combattendo in Africa, teatro di dodici delle venti più gravi crisi umanitarie.

Sempre, nove su dieci sono vittime civili. Ed è dalle vittime civili che iniziamo oggi, dal Sudan, la più vasta carneficina di questo mondo. Ancora oltre centoventi morti.

Poi, andremo in Ghana per raccontare gli esiti elettorali. E ancora, in Ciad, Nigeria, Niger e infine in Puglia per una mostra che racconta i volti del Kenya.

Questo e molto altro nel notiziario Africa, a cura di Elena L. Pasquini

Sudan

È tutto raccontato in una video. Corpi insanguinati, sparsi dove c’era il mercato, incendi e persone estratte dalle macerie. Pianti ed urla, preghiere. Un uomo grida: “La gente sta morendo in massa”.

Un giorno di morte ordinaria in Sudan, nella guerra che va avanti da venti mesi tra le Forze armate sudanesi guidate da Abdel Fattah Abdelrahman Burhan e i miliziani delle Forze di Supporto Rapido di Mohamed Hamdan Dagalo detto Hametti.

Almeno 127 le vittime, quasi tutti civili, nel bombardamento che all’inizio di questa settimana ha colpito la città di Kabkabiya nel Nord Darfur, secondo le organizzazioni della società civile. Alcune tra le vittime resteranno senza nome, impossibile identificare ciò che resta.

L’esercito avrebbe intensificato gli attacchi aerei nella parte del Paese sotto controllo delle RSF. Attacchi di artiglieria e raid nei villaggi, da parte dei paramilitari. “Entrambi hanno preso di mira aree civili densamente popolate”, scrive Reuters.

Il video, verificato dall’agenzia di stampa, mostra le vittime, ma anche uomini in armi, “con i copricapi tipicamente indossati dai soldati delle RSF in motocicletta”.

Nessun segno di tregua, nella peggiore crisi umanitaria del pianeta: circa 13 milioni di sfollati, di cui 11 interni, e 30 milioni che hanno bisogno di aiuto.

Oltre 700 mila persone hanno raggiunto la città di Renk, nel Sud Sudan da quando è iniziato il conflitto. Mohamed Osman e Laetitia Bader di Human Rights Watch hanno visitato il campo che accoglie temporaneamente chi fugge.

“Ora si estende lungo una strada sterrata di un chilometro con rifugi di fortuna e alcuni capannoni più grandi in lamiera”, scrive HRW.

Durante la visita della scorsa settimana, raccontano i ricercatori, ci sono stati migliaia di nuovi arrivi, per l’intensificarsi dei combattimenti verso la frontiera. C’è chi fugge per paura di essere accusata di complicità con le RSF “per aver vissuto per così tanto tempo in una zona sotto il loro controllo di RSF”, e chi solo per aver salva la vita.

Scappano senza portarsi via niente. “Fin dai primi giorni dei combattimenti in Sudan, le RSF hanno notoriamente saccheggiato la proprietà privata delle persone.

Si sono scatenati nelle case delle persone, rubando oro, mobili e persino zaini scolastici dei bambini. La gente ha dovuto vendere i loro beni rimanenti per poter mangiare. Altri sono stati derubati da combattenti o bande criminali mentre fuggivano”, scrive ancora HRW.

Molti di coloro che sono riusciti ad arrivare ​​a Renk sono fuggiti più volte.

“La maggior parte delle persone è stata costretta a lasciare i propri cari: parenti più anziani che non possono fuggire, molti che non possono permettersi di fuggire. Altri hanno perso i contatti con i loro parenti nel caos”, aggiunge ancora l’organizzazione per i diritti umani.

È sempre HRW a raccontare cosa è accaduto tra il dicembre e il marzo 2024, nel Sud Kordofan. Un nuovo rapporto, pubblicato martedì, documenta uccisioni, violenze, stupri e rapimenti perpetrati dalle RSF nelle città di Habila e Fayu, principalmente verso residenti di etnia Nuba.

Per sedici giorni i ricercatori di HRW hanno vistato diverse aree dove vivono i profughi documentando l’uccisione di civili disarmati, esecuzioni sommarie nelle case e per strada, stupri, donne in condizione di schiavitù sessuale.

Attacchi che secondo HRW “costituiscono crimini di guerra”. “Gli abusi sui civili delle RSF nel Sud Kordofan sono emblematici delle continue atrocità in tutto il Sudan”, ha detto Jean-Baptiste Gallopin, ricercatore.

“Queste nuove scoperte mettono in evidenza l’urgente necessità del dispiegamento di una missione per proteggere i civili”, ha aggiunto.

Sudan che è in cima alla più tragica delle classifiche, quelle delle crisi che rischiano un’ulteriore escalation nel 2025, stilata dall’International Rescue Committee e pubblicata mercoledì.

Nell’Emergency Watchlist, il Sudan occupa il primo posto tra i dieci paesi più in pericolo, di cui cinque sono africani: oltre al Sudan, il Sud Sudan, il Burkina Faso, il Mali e la Somalia. Tra i Paesi che occupano tra l’11 e il 20 posto, solo tre sono fuori dal continente.

Ghana

John Dramani Mahama ha vinto le elezioni presidenziali in Ghana. Mahama, che già stato presidente dal 2012 al 2016, è il leader dell’opposizione e ha raccolto il 56,55 percento delle preferenze nel voto che si è tenuto sabato. Esito elettorale che ha generato un’improvvisa ondata di caos.

Sarebbero almeno 100 i sostenitori di Mahama arrestati per atti illeciti.

“I sostenitori del neoeletto presidente che vogliono posti di lavoro avrebbero attaccato alcune istituzioni statali, saccheggiato proprietà e preso parte a disordini che hanno ferito alcuni poliziotti e militari.

I sostenitori infuriati hanno anche dato alle fiamme due uffici della commissione elettorale a causa del ritardo nell’annuncio dell’esito delle elezioni di sabato e dei disaccordi su alcuni risultati parlamentari”, scrive la BBC. Mahama ha condannato questi atti di vandalismo.

Un fenomeno, quello dei sostenitori del partito vincitore che tentano di prendere il controllo delle istituzioni statali chiedendo che il governo ancora in carica lasci prima che il presidente eletto presti giuramento, comune in Ghana, ricorda la BBC.

“Questo fenomeno è radicato nella politica del paese in cui il vincitore prende tutto, dove il partito al potere arriva a controllare tutto, compresi posti di lavoro e contratti”, si legge.

La commissione elettorale ha sancito la sua vittoria contro Mahamudu Bawumia, vice presidente e candidato del partito al potere. Affluenza al voto del 60,9 percento in questo piccolo paese dell’Africa occidentale che ha scelto di tornare indietro.

Mahama, scrive Reuters, ha descritto l’avversario come colui che avrebbe rappresentato “la continuità di quelle politiche che hanno portato il Ghana alla peggiore crisi economica della generazione”.

Anche il partito di Mahama, il Congresso Nazionale Democratico, ha ottenuto un’ampia maggioranza in parlamento: 186 seggi contro i 76 dell’partito in carica, quattro agli indipendenti, e 10 seggi ancora da assegnare.

“Questo mandato ci ricorda costantemente quale destino ci attende se non riusciamo a soddisfare le aspirazioni del nostro popolo e governiamo con arroganza”, ha detto a centinaia di sostenitori giubilanti dopo l’annuncio dei risultati, si legge ancora su Reuters.

“Questa vittoria mostra che la gente del Ghana ha poca tolleranza per il cattivo governo”, ha aggiunto, promettendo riforme. In una intervista con Reuters prima del voto, Mahama aveva dichiarato che avrebbe rinegoziato i termini del bailout da 3 miliardi di dollari con Fondo Monetario Internazionale.

Un voto che, secondo la BBC, indica ancora una tendenza e segna un record in Africa. È la quinta volta quest’anno che un partito d’opposizione si impone sul partito al potere, anche dove non era mai accaduto prima.

In Ghana ha pesato “la combinazione tra la crescita del costo della vita, una serie di scandali che hanno coinvolto figure di primo piano e la crisi del debito”, si legge.

L’ “annus horribilis” per i governi, lo ha definito la BBC. Prima del Ghana è toccato a Botswana – dove il Botswana Democratic Party era al potere dall’indipendenza del 1966 – , Mauritius, Senegal and all’autoproclamato Somaliland.

“Oltre a questi risultati, quasi qualunque elezione tenutasi nella regione quest’anno in accettabili condizioni democratiche ha visto i partiti di governo perdere un numero significativo di seggi”.

Le ragioni? Risiederebbero nella recessione economica vissuta da molti Paese, nella crescente intransigenza dell’opinione pubblica verso fenomeni di corruzione e nell’emergere di partiti d’opposizione sempre più determinati e ben coordinati.

“I leader dell’opposizione hanno quindi potuto sfruttare la rabbia popolare nei confronti del nepotismo, della cattiva gestione economica e del fallimento dei leader nel sostenere lo stato di diritto per espandere la propria base di consenso.

La percezione che i governi stessero gestendo male l’economia è stata particolarmente importante perché molte persone hanno vissuto un anno difficile dal punto di vista finanziario. Gli alti prezzi del cibo e del carburante hanno aumentato il costo della vita di milioni di cittadini, aumentando la loro frustrazione per lo status quo”, scrive ancora la BBC.

Una tendenza destinata a continuare anche nel 2025.

Ciad

Parigi, 10 dicembre 2024. Il comunicato dello Stato Maggiore della difesa francese annuncia che i primi caccia stanno lasciando N’Djamena, due aerei da guerra Mirage 2000-D.

“I termini del disimpegno delle altre capacità militari francesi presenti in Ciad sono soggetti al coordinamento con le autorità ciadiane”, si legge nella breve nota.

La fine dell’accordo di cooperazione militare tra la Francia e il Ciad è un altro tassello in quel cambio di strategia dei Paesi del Sahel nei rapporti con il resto del mondo.

A fine novembre, il Ministero degli Affari Esteri della Repubblica del Ciad aveva annunciato che non ci sarebbe più stata la presenza militare dell’ex potenza coloniale nel suo Paese, presenza, scrive il Parigi, quella dei caccia, “che ha risposto ad un bisogno di sostegno espresso dal partner”.

Una mossa improvvisa, quella del Ciad, fino a due settimane fa stretto alleato con l’Occidente in nome della lotta all’integralismo jihadista e dove è di stanza una forza di circa 1000 uomini.

I soldati francesi sono già stati allontanati da Burkina Faso, Mali e Niger dopo i colpi di stato che hanno portato al potere giunte militari. Giunte sempre più vicine alla Russia che avrebbe incrementato la presenza di truppe mercenarie in tutta la regione.

È dagli anni Sessanta che i due Paesi sono legati da accordi militari, nel tentativo di Parigi di mantenere un’influenza in Africa. A N’Djamena sono state sempre presenti truppe con la capacità di intervenire rapidamente.

Secondo quanto riporta il quotidiano N’Dajm Post, come riferisce Africa Rivista, nel 1961 sarebbe stato firmato anche un accordo che consentiva ai francesi di intervenire nel caso di disordini interni.

Accordi, per altro accompagnati da operazioni speciali, che secondo il quotidiano presenterebbero delle clausole segrete che “hanno alimentato le critiche, accusando la Francia di servire soprattutto i propri interessi”.

Accordi rimodulati, poi, nel 2019, che avrebbero dovuto segnare un riequilibrio dei rapporti tra Francia e Ciad ma che mostravano ancora una forte dipendenza.

A novembre, il ministro deli esteri aveva detto che il Ciad voleva “completamente riaffermare la sua sovranità dopo oltre sei decenni di indipendenza”.

La scorsa settimana, come racconta Associated Press, in molti avevano marciato lungo le strade della capitale al grido “Il Ciad a noi, la Francia fuori! … Non vogliamo vedere un solo francese in Ciad”.

Nigeria

Uomini armati sono entrati nelle case, una dopo l’altra, nel villaggio di Kakin Dawa. Hanno rapito donne e bambine, a decine, sabato scorso.

Siamo nel nordovest della Nigeria, nell’antico stato di Zamfara. Terra dalla storia e dal presente travagliati. Povera, oggi, poverissima. Miseria, disoccupazione e troppe armi hanno fatto proliferare i rapimenti a scopo di riscatto.

“Abbiamo scoperto che hanno rapito più di 50 donne, comprese donne sposate e ragazze”, ha detto Hassan Ya’u, un residente che è riuscito a scappare ma a cui hanno rapito la sorella minore, riporta l’agenzia Reuters.

“Facciamo appello al governo federale e a quello dello stato di Zamfara affinché inviino più soldati e personale di sicurezza per combattere quei banditi”, ha affermato Ya’u.

“L’intero villaggio è stato preso dalla paura mentre gli spari riecheggiavano durante l’operazione”, ha aggiunto un altro residente secondo il sito nigeriano Daily Trust.

“Stiamo attualmente aspettando di sentire le richieste dei rapitori per il rilascio degli individui rapiti”, ha detto Abdulkadir Sadia, un altro residente del villaggio, secondo quanto riferisce sempre Reuters. “L’intera comunità è in difficoltà”.

Nessun gruppo ha rivendicato l’attacco. La polizia di Zamfara ha affermato di aver dispiegato ulteriori forze di sicurezza nell’area.

Quest’anno, ricorda Al Jazeera, erano già stati rapiti, a marzo, 130 studenti nella città di Kuriga. Liberati alcune settimane dopo grazie a negoziazioni tra il governo e quelli che qui vengono chiamati “banditi”.

Rapimenti di massa, il primo dei quali avvenne nel 2014, per mano del gruppo armato di matrice islamista Boko Haram che rapì 276 bambine dalla scuola di Chibok, nello stato di Borno. Da allora, circa 1500 bambini sono stati rapiti.

Niger

In Niger, nel piccolo centro di Chatoumane a Téra, nella regione del Tillabéri, quasi al confine con il Mali e non lontano dalla frontiera con il Burkina Faso, è stato compiuto l’attacco più mortale degli ultimi sei mesi.

Sarebbero morti circa un centinaio di soldati e cinquanta civili in uno scontro con le milizie di matrice islamista mercoledì mattina. Un giorno di mercato, anche qui, un giorno qualunque.

C’erano tanti soldati a Chatoumane perché i mercati sono sempre di più bersaglio di gruppi armati.

Secondo quando riferisce al francese Radio France Internationale, “un’ondata di jihadisti in motocicletta si è riversata nel villaggio, in numero molto superiore a quello dei soldati. Hanno circondano il mercato, prendendo in una morsa l’esercito nigerino, il che fa pensare ad un’operazione pianificata”.

Un massacro che non è stato ancora rivendicato, ma qui, in questa regione vicina alla capitale è dove gli attacchi jihadisti sono più intensi.

Sempre mercoledì ci sarebbe stato un secondo attacco al confine con il Burkina Faso, nel villaggio di Libiri, non lontano all’importante miniera d’oro di Samira. Un gruppo jihadista avrebbe costretto gli abitanti del villaggio ad abbandonarlo prima di dar fuoco alle abitazioni.

“Secondo le prime testimonianze, supportate da video, gli uomini armati viaggiavano a bordo di decine di motociclette. Dopo si sono diretti verso il confine del Burkina Faso dove si sono intensificati i combattimenti tra l’esercito regolare e i jihadisti dello Stato Islamico nel Grande Sahara”, riporta RFI.

In un comunicato trasmesso dalla televisione nazionale, lo stato maggiore delle forze armate nigerine ha negato qualsiasi attacco jihadista nella zona. Tuttavia, il comunicato precisa che dieci soldati sono stati sepolti questo mercoledì nella piazza dei martiri di Niamey”, si legge ancora.

Puglia e Kenya

La discarica di Dandora è 2,5 km quadrati di terra coperta di rifiuti, ogni giorno ne arrivano qui circa 850 tonnellate. Alle porte di Nairobi, è la più grande del Paese e una delle più grandi del mondo, delle più inquinate.

Qui, nella baraccopoli cresciuta ai suoi margini, è nato Ibrahim Rashid Otieno. Ed è qui che è nata la sua fotografia che racconta i volti del Kenya, le sue storie di sofferenza ma anche di resistenza.

Una vecchia macchina fotografica e il desiderio di immortalare le persone intorno a lui, così ha iniziato ad esprimere un talento che l’ha portato in giro per il mondo.

Fino al 15 di dicembre sarà possibile ammirarle in una mostra, “Kenya – Africa. Volti, sguardi e speranze di un popolo”, nella cittadina pugliese di Mesagne.

Ritratti, quelli di Otieno. “Nei loro volti c’è la loro natura, la libertà della nascita in una terra selvaggia e benedetta, gli ostacoli di dover crescere in una società sbagliata e maledetta.

Nei loro sguardi ci sono le costrizioni che gli piovono sulla testa e minano la pelle e l’anima, rendendo vani gli sforzi per una sopravvivenza dignitosa, le speranze e i sogni di cui non vergognarsi mai.

Eppure resistono: quelle storie sono graffiti sui muri, quei corpi sono simboli”, scrive il giornalista Freddie Del Curatolo, che è corrispondente ANSA dal Kenya.

“Oggi, Ibrahim è un fotografo documentarista e YouTuber viaggiatore, impegnato a narrare la vita delle comunità urbane e rurali, mettendo al centro dell’obiettivo le persone vulnerabili ed emarginate.

La sua arte è uno strumento di denuncia, ma anche di speranza, che punta a ispirare e a promuovere il cambiamento sociale”, spiega Antonio Portolano nel presentare la mostra.

“Un aspetto fondamentale del lavoro di Ibrahim Rashid Otieno – aggiunge – è la documentazione delle proteste giovanili in Kenya, alle quali è dedicata una sezione specifica della mostra. I giovani sotto i 35 anni rappresentano l’ottanta per cento della popolazione del Kenya e sono i principali protagonisti delle recenti manifestazioni contro le politiche del governo”.

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