Carne fresca: il dramma delle migranti venezuelane
Scritto da Barbara Schiavulli in data Luglio 30, 2024
CUCUTA – Sami Cardenas piange. Piange smarrita sul tavolino di un caffè sulla piazza principale di Cucuta. Piange per la sua storia, piange per i suoi figli, piange per il suo paese.
È come se le lacrime la liberassero da quella vita che si ritrovata a vivere, senza altra possibilità di scelta.
La storia di Sami

Andy Marin @andymarinx
Sami è venezuelana. Una donna adulta di 53 anni, con il viso di un cerbiatto solcato da un tempo che sarebbe stato troppo duro per chiunque.
Le brillano gli occhi quando parla del suo passato a Merida, del lavoro per vent’anni nella pubblica amministrazione, dei suoi figli che le crescevano accanto.
Poi un giorno l’incidente in moto. E la sua vita cambia. Mentre il Venezuela precipita nella peggiore crisi finanziaria della sua storia e diventa un governo sempre più autoritario, lei perde una gamba.
In un paese dove la sanità non funziona. Per chi non ha soldi non c’è cibo, non c’è lavoro, non ci sono medicine.
Poi perde il figlio di 19 anni, un problema al cuore e il giovane atleta di pugilato muore perché la sanità, appunto, non funziona.

@andymarinx
Sette anni fa emigra con il suo compagno in Colombia perché la situazione in Venezuela peggiora di giorno in giorno.
Quasi 8 milioni di venezuelani e venezuelane costretti a prendere un aereo o attraversare il confine per sopravvivere. Qualcuno ci riesce, altri no.
Come per Sami che piange sulla sua storia, per Maria, per Catherina e per migliaia di donne che si ritrovano attorcigliate nella spirale di un mondo che non potevano immaginare le avrebbe travolte.
“Pensavo che qui avrei trovato un lavoro, magari nelle pulizie, avrei mantenuto i miei figli nonostante la mia condizione. Niente è andato come doveva andare”, dice piano piano, lontano dagli sguardi indiscreti attirati dal suo corpo disintegrato.
Quella che credeva un’amica e che le aveva detto di andare a Cucuta, che l’avrebbe trovato un lavoro, in realtà il lavoro per lei non ce l’aveva, era una reclutatrice, una di quelle coinvolte nello sfruttamento sessuale.
“Da quel momento in poi mi sono accadute cose che non auguro a nessuno. Gli uomini non vogliono una donna come me, mi prendono solo per usarmi e picchiarmi e il mio compagno mi ha gettato sulla strada come se niente fosse”.

Andy Marin @andymarinx
Lei lavorava la notte e lui si drogava di giorno e la picchiava.
Tutti picchiano Sami che non può neanche scappare, prigioniera delle stampelle che la trascinano per un mondo dal quale non riesce a uscire.
Sorride e mostra una bocca dove mancano dei denti. Li ha persi per le botte e la mancanza della possibilità di andare da un dentista.
Sami conosce il dolore, il sangue, la vergogna.
“A volte avrei voluto farla finita”, confessa. “Ma poi penso ai miei figli che hanno bisogno di me e tiro avanti. Ogni volta che ho fame, vado a “camminare”, ma loro non sapranno mai cosa sto facendo”.
Sami tu sei un’eroina, sei una donna forte, i tuoi figli non possono vergognarsi di te.
“No, siamo un paese cattolico, i figli non capiscono cosa una madre è disposta a fare pur di salvarli. Loro devono solo pensare a studiare e avere una vita migliore della mia”.
Riesce almeno a liberarsi del compagno, ma resta sola.
Ci parla della sua casa di legno, con il tetto rotto. Non ha la televisione, i soldi che guadagna li usa tutti per i suoi figli e la famiglia originaria.
Mangia quando può, parla con loro, le sue 24 ore sono scandite dal giorno, quando cerca di vendere sigarette o fazzoletti in strada, e dalla notte, quando lavora negli interstizi della città.
“Riesco al massimo ad avere due uomini a notte, in una buona giornata guadagno 60mila pesos, circa 13 euro”.
Guadagna meno delle altre ragazze perché è disabile, e tranne una volta che ha guadagnano molto perché un uomo cercava proprio una come lei, prende sempre meno.
“Nelle mie condizioni nessuno mi darebbe un lavoro in più. Sono venezuelana e la Colombia, per quanto sia un paese ospitale, è anche razzista verso i venezuelani”.
Se l’opposizione vincesse in Venezuela, torneresti a casa? “Tornerei, se ci fosse la possibilità di lavorare, tornerei nel mio paese”, dice ricominciando a singhiozzare, cercando la mia mano alla quale si aggrappa come una corda.
Quello di Sami è il destino di migliaia di donne che superano il confine alla ricerca di un lavoro e vengono ingabbiate dalla criminalità, perché il lavoro non c’è, perché sono troppo scure, troppo indigene, troppo difettose per gli standard di un altro paese.
Alejandra, l’avvocata
Ci sono migliaia di donne fuggite e abbandonate in posti sporchi e nascosti di paesi che non le vogliono vedere come la Colombia, ci dice Alejandra Vera Laguado, 36 anni, direttrice dell’Associazione Mujer: “La Colombia non vuole affrontare il problema, come molti paesi sudamericani: meglio nascondere la polvere sotto il tappeto”.

@andymarinx
La crisi economica in Venezuela ha contribuito in modo significativo alla migrazione delle donne nello sfruttamento sessuale in Colombia, spinta da circostanze finanziarie disastrose e dalla mancanza di opportunità di lavoro valide.
Mentre l’economia venezuelana continua a deteriorarsi a causa dell’iperinflazione, della povertà diffusa e dell’instabilità politica, milioni di venezuelani e venezuelane, soprattutto donne, sono fuggite in Colombia in cerca di prospettive migliori.
Molte arrivano con risorse limitate e affrontano sfide nell’ottenere un impiego formale a causa della mancanza di qualifiche riconosciute e documentazione legale, che le costringe a entrare nel mercato del lavoro informale dove lo sfruttamento è dilagante.
In Colombia
In Colombia, il quadro giuridico che circonda lo sfruttamento sessuale, che non è illegale, ha portato all’istituzione di “zone di tolleranza” in cui il lavoro sessuale è prevalente.
I resoconti indicano che una percentuale significativa vittime dello sfruttamento sessuale in queste aree sono migranti venezuelani, molti dei quali sono costretti a questo tipo di lavoro nella convinzione che offra un rapido sollievo finanziario.
Le precarie condizioni di vita e i minimi guadagni finanziari esacerbano ulteriormente la loro vulnerabilità, poiché spesso incontrano lo stigma e sono a rischio di sfruttamento da parte delle reti criminali.
Di conseguenza l’intersezione tra disperazione economica e barriere sistemiche in Colombia ha creato un circolo vizioso, in cui molte donne venezuelane si sentono costrette a diventare vittime come mezzo di sopravvivenza.
Alejandra è una colombiana forte e determinata, è un’avvocata per i diritti delle donne, le aiuta a lasciare la strada con la sua organizzazione e le assiste.
Sa quel che fa perché ci è passata. Vittima del narcotraffico e dello sfruttamento.
A cinque anni è stata rapita dalla sua famiglia per essere messa in vendita per qualche famiglia ricca che voleva un bambino, complice la nanny. Ricorda di essere stata portata via, legata e messa in un armadio, dove la madre e la polizia l’hanno ritrovata un paio di giorni dopo.
Ma a 11 anni la vera tragedia: la sua famiglia, che vive in un villaggio controllato dal narcotraffico e dai guerriglieri, viene messa sulla lista nera.
Gli uomini vengono uccisi per strada. Le donne violentate. Loro fuggono.
Come tutti le persone vittime di un conflitto, si sistema da un’altra parte cerca un lavoro, un’amica le dice che ne ha uno, in genere da cameriera. Ma poi non è vero.
La prostituzione a Cucuta gira intorno al mondo del narcotraffico, delle sale di biliardo, della droga, e lei per un mese e mezzo farà la vita, fino a quando è abbastanza forte da dire basta.
“Ogni anno in Colombia vengono uccise, per quello che si sa, almeno 800 donne da mariti o ex. Dal 2018 solo noi abbiamo aiutato 5mila donne: il 65% sono venezuelane, e il 25% escono dal conflitto armato. Donne che non hanno altra opzione che vendere il loro corpo”.
Ragazzine dai 12 anni in su che finiscono nel mondo della pedofilia, della pornografia. Cucuta in Colombia è la città leader della diffusione di immagini pedopornografiche.
“Cerchiamo di creare progetti, di aiutarle, ma molte faticano a uscire dal giro. Noi andiamo a cercarle nelle zone più povere e periferiche, parliamo con loro, lontano dagli uomini, ma il governo non ci aiuta, nega completamente la realtà”, ci spiega Alejandra.
Katherin Andreina Crespo Melendes

@andymarinx
Una che è uscita è Katherin Andreina Crespo Melendes, 30 anni. Il viso che sembra un cartone animato di Walt Disney. Anche lei è arrivata qui attirata da un’amica.
La situazione in Venezuela peggiorava, c’erano le proteste, non si trovava da mangiare, ha venduto i suoi capelli per pagarsi il viaggio con la sorella e la figlia.
Ma arrivata qui il lavoro non c’era. Si è messa a cercare un’occupazione, ma ogni volta che diceva di essere venezuelana il lavoro non c’era.
Poi il padre rimasto in Venezuela ha un infarto, ha bisogno di soldi e lei è disperata. Così va a lavorare con l’amica in un locale in una zona pericolosa. Ma non guadagna abbastanza, va alla mensa dei poveri a mangiare. Infine le presentano una donna. Che la butta in strada.
“E’ arrivata carne fresca”, ha detto presentandola.
Le ha preso i documenti e le estorceva i soldi che guadagnava andando con gli uomini. “Da quel momento è stato l’inferno, sono una ragazza cattolica, e ogni sera finivo in un motel, e i soldi comunque non bastavano mai perché li dovevo dare alla donna che comandava nel quartiere e se non pagavi perché non guadagnavi abbastanza ti picchiavano, ti sfregiavano, ti torturavano”.
“Piangevo ogni sera, avevo paura delle droghe, delle malattie, molte donne cedevano, si trasformavano, a un certo punto ho detto basta”.
Un anno e mezzo sulla strada. Un cliente le offre un lavoro in un hotel come amministratrice, stanno insieme e per un po’ funziona, poi lui perde tutto e sparisce.
Arriva il covid e richiude tutto, e l’inferno si ripete. Ma poi il mondo si riapre e lei trova lavoro in un altro hotel, l’organizzazione di Alejandra l’aiuta. Piano piano ne esce e comincia a credere che una vita normale sia possibile.
Ora Katherina studia, vuole diventare operatrice sociale, vuole aiutare altre donne. Perché le donne devono aiutarsi tra loro. Sua figlia l’ha raggiunta insieme a sua madre. Non sanno quello che ha fatto per aiutarle e non lo sapranno mai.
Maria Jacanamijoy

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Neanche la famiglia di Maria Jacanamijoy lo saprà mai.
43 anni, indigena venezuelana, è in Colombia da 8 anni.
In Venezuela non trovava lavoro, perché per gli indigeni è ancora più difficile che per i venezuelani. Vendeva cose per la strada, ma voleva che i figli studiassero.
Pensava che sarebbe stato facile se fosse emigrata in Colombia. Ha trovato lavoro in bar “e mi hanno costretta a fare cose che non posso raccontare”.
Scappa, fa venire i figli, li mette subito a scuola e trova una signora che avrebbe dovuto farle fare le pulizie. Invece le prende i documenti e si ritrova in una casa con altre donne, danno loro dei vestiti e le portano in un posto isolato.
“Per tutto il tempo, mentre mi facevano quello che volevano, ho pensato solo ai miei figli. Ogni giorno piangevo e alla fine ho fatto pena a un uomo che ha cercato di portarmi via. Ma avevo paura e sono scappata anche da lui”.
Ha trovato da fare le pulizie, ma non la pagavano e così è dovuta tornare in strada. “La mia unica paura che i miei due figli scoprano cosa faccio, mentre loro devono solo studiare e vivere meglio di me. Ora continuo a lavorare per strada ma cerco di fare l’ambulante, fare lavori di fatica, sembro piccola ma sono forte”.
Tornerai in Venezuela?
“Se Maduro se ne andasse e la transizione politica funzionasse certo che tornerei. Quello è il mio paese”.
La promessa
Katherin ci saluta alla porta della sua modesta casa – con un Cristo che ci sovrasta e una Madonna davanti che ci guarda – con un grande abbraccio che solo i venezuelani sanno darti come se ti conoscessero da sempre, come se volessero passarsi il loro dolore che è quello di ogni donna che nel mondo non trova il suo posto. Abbandonate dalle istituzioni, dalle leggi, dalle autorità e dagli uomini.
Maria si alza, ci sorride con i suoi occhietti vivaci, esce dal caffè dove l’avremmo incontrata qualche ora dopo e con il suo passo leggero si allontana in un pomeriggio di sole accecante, si perde nella foschia del caldo come centinaia di migliaia di donne che ci passano accanto senza che riusciamo veramente a vederle.
Immigrate, mamme single, vittime degli uomini e delle circostanze politiche che le circondano.
Sami invece, siamo noi a non riuscire a lasciarla. Sami ha la sofferenza scritta sul volto, nel corpo, in quella gamba che manca, in quei figli a cui nasconde la verità. Hai fame Sami? Ordina quello che vuoi. Lei ci guarda come se venissimo dalla luna. O preferisci che facciamo un po’ di spesa?
Ma Sami devi farci una promessa: ci hai detto che il tuo sogno è aprire una scuola per bambini poveri, devi prometterci che da questo momento in poi ci proverai ogni giorno e realizzerai il tuo sogno con l’aiuto di Alejandra e dell’organizzazione.
Lei ci guarda attonita e annuisce. “Certo, lo farò”. Sei una donna forte Sami, solo le donne forti sopravvivono a quello che hai passato tu, senza perdersi.
Lei piange e sorride e mi stringe la mano. Andiamo a fare la spesa Sami e stasera niente “passeggiata”, stasera riposi e sogni.
Spendiamo 38 euro che non le cambieranno la vita, ma un po’ cambiano la nostra, e per un attimo le fanno tirare un sospiro di sollievo.
Le prendiamo riso, pollo, caffè, zucchero, mais, detersivi, sapone. Sami è raggiante, dice che nessuno ha mai fatto niente del genere per lei.
Non abbiamo fatto niente in realtà, solo un po’ di spesa come tra amiche, perché la fame gliel’avevamo sentita addosso. E nessun essere umano dovrebbe aver fame.
Chiama un amico che ogni tanto l’aiuta, non potendo portare i sacchetti, e glieli mette nel bagagliaio. Il rumore del bagagliaio che si chiude ci fa sobbalzare.
Sembra che nessuno riesca a muoversi, fino a che Sami butta le stampelle a terra e mi getta le braccia al collo in equilibrio su quell’unica gamba che ha: “Te lo prometto, ce la farò e metterò su una scuola per bambini”.
La stringo. Che ci riesca o no, non importa. Per un momento ci ha creduto, lei ci ha donato la sua storia e noi le abbiamo dato un piccolo sogno, e per noi è tutto quello che conta.
Foto di copertina: Andy Marin
In questo momento Radio Bullets si trova a Cucuta, in Colombia sul confine con il Venezuela, perché come a molte altre testate giornalistiche non ci è stato concesso il visto.
Abbiamo deciso di raccontare queste elezioni dal posto più vicino e in mezzo a migliaia di venezuelani che vivono qui.
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