14 maggio 2025 – Notiziario Mondo

Scritto da in data Maggio 14, 2025

  • Trump a Riad tra armi e miliardi: annuncia la revoca delle sanzioni alla Siria.
  • Gaza: bombardato un altro ospedale.
  • Panama: il governo sfida gli insegnanti in sciopero.
  • Germania: smantellata la rete dell’estrema destra del “Regno di Germania”.
  • Uruguay: addio a Pepe Mujica, il presidente che scelse la povertà per onestà.

Questo e molto altro nel notiziario di Radio Bullets, a cura di Barbara Schiavulli.

Israele e Palestina

■ GAZA: Ieri mattina attacco aereo israeliano nella città di Khan Yunis, nella Gaza meridionale, ha preso di mira il leader di Hamas a Gaza, Mohammed Sinwar , fratello del leader di Hamas assassinato Yahya Sinwar.

Il Ministero della Salute di Gaza, guidato da Hamas, ha dichiarato che almeno sei persone sono state uccise e 40 ferite.

In precedenza, il ministero aveva dichiarato che 31 palestinesi erano stati uccisi e 73 feriti a causa degli attacchi israeliani nelle precedenti 24 ore, portando il bilancio delle vittime a Gaza a 52.908, con migliaia di persone ancora considerate disperse.

Poi stanotte, colpita la zona di Jabalia, sono almeno 45 i morti e decine i feriti.

Il direttore generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, Tedros Adhanom Ghebreyesus, ha denunciato l’attacco condotto martedì contro l’ospedale Nasser nella Striscia di Gaza, definendolo “un duro colpo a un sistema sanitario già sopraffatto”.

L’attacco ha causato 2 morti e 12 feriti, tra cui almeno una persona in condizioni critiche, sottoposta a interventi chirurgici multipli.
Colpiti anche i reparti ospedalieri:

  • distrutti 18 posti letto nel reparto chirurgico,
  • 8 in terapia intensiva,
  • e 10 nel reparto degenti.
    Anche il reparto ustionati è stato danneggiato gravemente.

Su X, Tedros ha lanciato l’ennesimo appello: “Gli attacchi agli ospedali devono cessare.”
Ha anche esortato Israele a revocare il blocco degli aiuti, in vigore dal 2 marzo, che impedisce l’accesso a cibo, medicine e attrezzature vitali per curare i feriti e ricostruire le strutture sanitarie.

Intanto, Netanyahu ha affermato che il governo israeliano ha istituito un’agenzia per supervisionare l’uscita e il reinsediamento della popolazione di Gaza, ma si trova di fronte a un problema: hanno bisogno di paesi che li accolgano.

Netanyahu ha affermato che il governo sta “lavorando” sulla questione e ha aggiunto che oltre metà della popolazione della Striscia se ne andrebbe se ne avesse la possibilità – “molto di più, secondo me”.

Un fotoreporter palestinese di Gaza, entrato in Israele il 7 ottobre 2023 e che aveva documentato l’attacco di Hamas, è stato ucciso in un attacco aereo israeliano, secondo quanto riferito da fonti palestinesi.

Hassan Eslaiah era sopravvissuto a diversi precedenti attacchi delle IDF. Secondo una causa intentata alla fine del 2023, Eslaiah ha ammesso di essere tornato a Gaza con i militanti di Hamas, ma ha negato di essere a conoscenza in anticipo dei piani di attacco o di legami con il gruppo.

■ OSTAGGI/CESSATE IL FUOCO: Il Primo Ministro Netanyahu ha affermato che Israele si è impegnato a espandere le operazioni di combattimento a Gaza “nei prossimi giorni” per “sottomettere Hamas”.

Ha affermato che anche se Hamas annunciasse la sua disponibilità a rilasciare altri ostaggi, Israele “li riceverebbe e poi entrerebbe”.

Ha escluso un cessate il fuoco, affermando: “Non ci sarà una situazione in cui fermeremo la guerra”.

Segnalo l’anomalia del rilascio dell’ostaggio americano israeliano Edan Alexander due giorni fa: Trump per la prima volta negozia apertamente con Hamas scavalcando Netanyahu.

Hamas ha dichiarato che il rilascio di Alexander è stato ” il risultato di seri contatti con l’amministrazione americana e degli sforzi dei mediatori “, respingendo le affermazioni israeliane secondo cui la pressione militare sarebbe stata un fattore determinante.

Il Ministro israeliano per la Cooperazione Regionale, David Amsalem, ha affermato che il rilascio di Alexander è stato “effettuato in modo quantomeno improprio” e ha criticato gli Stati Uniti, definendo Trump “imprevedibile”.

Ha aggiunto: “Sono giunto alla conclusione molto tempo fa che non dovremmo fidarci di nessuno, nemmeno dei nostri amici più cari.  “.

■ YEMEN/HOUTHI: Le IDF hanno dichiarato che un missile lanciato dagli Houthi in Yemen è stato intercettato dopo che le sirene hanno suonato nel centro di Israele e nell’area di Gerusalemme.

■ LIBANO/HEZBOLLAH: Le IDF hanno dichiarato di aver lanciato un attacco aereo sulla cresta di Beaufort, nel Libano meridionale , prendendo di mira un agente di Hezbollah. Hanno affermato che l’attività di Hezbollah nella zona costituisce una palese violazione degli accordi tra Israele e Libano.

Arabia Saudita

In un’annunciata coreografia di business e diplomazia, Donald Trump ha aperto la sua visita nel Golfo con due notizie bomba: la revoca delle sanzioni statunitensi contro la Siria — un Paese ancora in macerie dopo oltre un decennio di guerra — e un pacchetto di investimenti sauditi da 600 miliardi di dollari negli USA, accompagnato da una vendita record di armi da 142 miliardi.

Colpo di scena geopolitico:
La decisione di revocare le sanzioni arriva dopo la caduta di Bashar al-Assad lo scorso dicembre e il potere passato al leader ribelle Ahmed al-Sharaa. Per la Siria, un possibile inizio di ricostruzione; per Washington, un ribaltamento di decenni di politica estera.

Oggi Trump dovrebbe incontrare sempre a Riad il presidente Ahmed al Shaara per un saluto informale. L’annuncio della revoca delle sanzioni ha addirittura provocato un’ovazione da parte del leader de facto dell’arabia Saudita Mohammad Bin Salman, mentre a Damasco la gente è scesa in piazza manifestando scende di giubilo.

Affari e riabilitazioni:
Proprio con lui ha firmato un mega-accordo che spazia da difesa a energia e miniere, e ha definito il principe saudita “un uomo incredibile”. Nessun accenno all’omicidio nell’ambasciata di Ankara del giornalista saudita americano Jamal Khashoggi.

Nel frattempo, la Casa Bianca punta alla normalizzazione tra Arabia Saudita e Israele, ma lo scetticismo regna: la posizione di Netanyahu contro lo Stato palestinese frena ogni passo avanti.

L’ombra dell’Iran:
Trump ha definito Teheran “la forza più distruttiva della regione” e ha rilanciato: vuole un nuovo accordo, ma è pronto a far scattare “la massima pressione” se l’Iran rifiuterà il “ramoscello d’ulivo”.

Nel frattempo, nessuna visita a Tel Aviv. E proprio questo silenzio rischia di urlare più di mille dichiarazioni.

Sotto i riflettori luccicano miliardi, ma sullo sfondo restano guerre irrisolte, alleanze traballanti e milioni di vite dimenticate. La geopolitica di Trump è uno show: a pagamento, in prima fila siedono i ricchi, ma il conto — come sempre — lo pagano i civili.

Iraq

Oltre 19.000 prigionieri sono stati rilasciati in Iraq nei primi quattro mesi del 2025 grazie a una nuova legge di amnistia generale che mira a ridurre il sovraffollamento delle carceri e, in alcuni casi, rivedere vecchie condanne.

Il provvedimento, approvato a gennaio, è stato discusso martedì a Baghdad durante una riunione guidata dal capo del Consiglio Supremo della Magistratura, Faeq Zeidan.
Secondo i dati ufficiali, 93.597 persone avrebbero finora beneficiato della legge, includendo non solo i detenuti liberati, ma anche condannati in contumacia, rilasciati su cauzione o con mandati di arresto pendenti.

Le carceri irachene, progettate per ospitare circa 30.000 persone, al momento ne contengono oltre 65.000. E migliaia di altri detenuti sono ancora sotto la custodia delle forze di sicurezza, senza spazio disponibile per il trasferimento nelle strutture ufficiali del Ministero della Giustizia.

Chi viene liberato?
L’amnistia copre reati come:

  • furto,
  • corruzione,
  • uso di droghe,
  • e in alcuni casi appartenenza allo Stato Islamico, se non accompagnata da omicidi o atti violenti.

È anche prevista la possibilità di un nuovo processo per coloro che dichiarano di aver confessato sotto coercizione o tortura. Una misura fortemente sostenuta dai parlamentari sunniti, che ritengono che la loro comunità sia stata colpita in modo sproporzionato dalle accuse di terrorismo.

Turchia

Una dichiarazione che potrebbe segnare la fine di uno dei conflitti più lunghi e sanguinosi del Medio Oriente: il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) ha annunciato lo scioglimento e la rinuncia alla lotta armata contro lo Stato turco.

Il gruppo, considerato organizzazione terroristica da Turchia, UE e Stati Uniti, ha risposto a un appello del suo leader Abdullah Öcalan, detenuto dal 1999, che ha chiesto di abbandonare la violenza e perseguire i diritti dei curdi attraverso la negoziazione.

Il governo turco, da parte sua, sta monitorando con attenzione eventuali tentativi di sabotaggio del processo.
Il responsabile della comunicazione presidenziale, Fahrettin Altun, ha ribadito che Ankara non permetterà “a nessuno di mettere alla prova la determinazione dello Stato”.

Cosa accadrà ora?

Secondo i media vicini al governo, il disarmo del PKK potrebbe avvenire entro 3 o 4 mesi, con la raccolta delle armi in località designate nel nord dell’Iraq, sotto supervisione ufficiale. Si discute anche della possibilità di esilio per i leader del gruppo e di reintegrazione per i militanti minori.

Il governo turco non ha però rilasciato dettagli ufficiali. In parallelo, ci si attende anche un possibile alleggerimento delle condizioni carcerarie per Öcalan.

Nel frattempo, il presidente Erdoğan ha chiarito che la decisione del PKK dovrebbe estendersi anche ai gruppi curdi affiliati in Siria, legati alle Forze Democratiche Siriane (SDF), sostenute dagli Stati Uniti.

Tuttavia, questi gruppi non si ritengono vincolati dalla dichiarazione di Öcalan. Alcuni hanno firmato accordi con Damasco, mentre altri puntano alla creazione di uno stato federale curdo, alimentando nuove tensioni con il governo siriano.

Dopo decenni di sangue, repressioni, attentati e sogni infranti, la parola pace ricompare, cauta, nel lessico turco-curdo.

Ma è una pace condizionata, fragile, forse usata come leva politica per garantire al presidente Erdoğan l’appoggio necessario a riscrivere la Costituzione — e restare al potere oltre il 2028.

Il PKK depone le armi, ma la questione curda non si disarma.
La sua radice è profonda: negazione culturale, assenza di diritti, persecuzioni.

Se questa è davvero la fine del conflitto, sarà solo l’inizio di un altro campo di battaglia: quello della memoria, dell’autonomia, della giustizia.

Mediterraneo

Dall’inizio del 2025 al 10 maggio, almeno 145 persone hanno perso la vita e 233 risultano disperse lungo la rotta del Mediterraneo centrale. A comunicarlo è l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) in Libia, attraverso il suo ultimo rapporto pubblicato su X.

Nel medesimo periodo, oltre 8.200 migranti sono stati intercettati in mare e riportati in Libia, Paese dove i centri di detenzione sono notoriamente luoghi di abusi, torture e sparizioni.

Il profilo delle persone intercettate:

  • 7.038 uomini
  • 822 donne
  • 290 minori
  • 105 persone di cui non si conoscono i dati anagrafici.

Numeri. Sempre numeri. Ma dietro quei numeri ci sono madri che stringono i figli prima di sparire tra le onde, ragazzi che sognavano Parigi e trovano le sbarre a Tripoli, vite che non faranno mai notizia, se non come statistiche aggiornate ogni mese.

E intanto, l’Europa si gira dall’altra parte. Anzi, paga per rimandare indietro chi cerca salvezza.
Nel Mediterraneo, il mare si è fatto frontiera. Ma non per difendere. Per respingere. E per dimenticare.

Grecia

Una scossa di terremoto di magnitudo 5.9 è stata registrata la notte scorsa al largo dell’isola greca di Creta, nel Mar Egeo meridionale.

Il sisma, avvenuto all’1:51 ora locale (00:51 in Italia), è stato avvertito distintamente non solo in Grecia, ma anche in Israele — da Tel Aviv a Gerusalemme fino a Haifa — oltre che in Giordania, Libano ed Egitto.

Secondo le autorità sismologiche greche, italiane (Ingv) e statunitensi (Usgs), non si registrano danni né feriti al momento.

Germania

Il governo tedesco ha annunciato l’arresto di quattro leader dell’organizzazione estremista di destra “Regno di Germania” (Königreich Deutschland), accusata di voler minare l’ordine democratico e fondare un contro-Stato.

La notizia è stata confermata dal Ministero dell’Interno tedesco e rilanciata dalla stampa nazionale.

L’organizzazione è stata messa al bando e nelle scorse ore centinaia di agenti hanno perquisito abitazioni e sedi del gruppo in sette diverse regioni del Paese.

Il movimento, che conta circa 6.000 sostenitori, nega l’esistenza della Repubblica Federale Tedesca e rifiuta l’attuale ordinamento giuridico.
Il ministro dell’Interno Alexander Dobrindt ha dichiarato che “non si tratta di nostalgici inoffensivi, ma di vere e proprie strutture criminali”.

Russia e Ucraina

Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha chiesto al presidente Trump di incontrarlo domani per colloqui di pace in Turchia , dopo che il presidente statunitense aveva annunciato lunedì la sua possibile presenza.

Zelensky ha affermato di credere che, se Trump avesse confermato la sua presenza, avrebbe esercitato pressioni sul presidente russo Vladimir Putin affinché facesse lo stesso.

Il Cremlino non ha voluto dire se il leader russo sarà presente all’incontro. “Non appena il presidente lo riterrà opportuno, lo annunceremo”, ha detto un portavoce.

Panama

A Panama, il ministero dell’Istruzione ha annunciato il blocco degli stipendi per i docenti in sciopero dal 23 aprile, colpevoli – secondo l’autorità – di “non aver adempiuto ai propri doveri”.

Lo sciopero è stato indetto per protestare contro la legge 462, approvata a marzo, che riforma il sistema di previdenza sociale del Paese.

Secondo i sindacati, la legge rappresenta una privatizzazione mascherata del fondo pensionistico.

Il governo, nella sua dichiarazione ufficiale, ha fatto un “sincero e rispettoso appello” agli insegnanti affinché tornino in classe, ricordando che gli studenti “hanno bisogno di loro”.

Ma la risposta dal fronte sindacale è chiara: la mobilitazione continua finché il presidente José Raúl Mulino non revocherà la riforma.
Il capo dello Stato, però, ha già fatto sapere che non ci sarà alcun passo indietro.

Quando un governo dice agli insegnanti che i loro stipendi dipendono dall’obbedienza, non sta parlando di educazione. Sta parlando di controllo.

E quando una riforma delle pensioni genera proteste così diffuse e dure, forse bisognerebbe ascoltare chi educa, non punirlo.
A Panama, il futuro si gioca tra le aule vuote e un decreto che sembra scritto senza ascoltare chi dovrà subirne le conseguenze.

Gli studenti hanno bisogno dei loro insegnanti, sì. Ma anche di un governo che non li usi come scudo retorico.

Uruguay

Ha chiuso gli occhi a 89 anni José “Pepe” Mujica, ex presidente dell’Uruguay e icona globale della sinistra. Malato di cancro all’esofago, Mujica si è spento dopo una vita che è stata una lezione di coerenza, resistenza e umanità.

“Appartengo a una generazione che si congeda. Ma la lotta continua e deve sopravvivere”, aveva detto di recente, lasciando in eredità parole che pesano come pietre.

Nato a Montevideo nel 1935, combattente nel movimento guerrigliero Tupamaros, Mujica trascorse oltre dieci anni in carcere durante la dittatura, spesso in isolamento.

Uscì senza odio. E quando fu eletto presidente nel 2010, trasformò l’Uruguay in un laboratorio progressista: legalizzazione dell’aborto, del matrimonio egualitario e della cannabis, per sottrarla al narcotraffico.

Viveva in una casa rurale, guidava un vecchio Maggiolino e donava il 90% dello stipendio a cause sociali.

Per questo fu chiamato “il presidente più povero del mondo”, anche se per molti era semplicemente il più giusto.

Il presidente Yamandú Orsi, suo delfino politico, ha annunciato la sua morte con parole colme di affetto: “Ci mancherai tanto, caro Pepe. Grazie per tutto ciò che ci hai dato e per il tuo profondo amore per il tuo popolo”.

In un’epoca di leader avidi, José Mujica è stato il raro esempio di chi non ha mai venduto l’anima al potere. Non cercava consenso, ma coscienza. E oggi, a volerlo commemorare, non basta un minuto di silenzio. Servirebbe una vita intera di dignità.

Cina

Una tregua di 90 giorni per abbassare i dazi e dare fiato a un’economia globale sempre più ingolfata: è questo l’accordo raggiunto nel fine settimana tra Stati Uniti e Cina a Ginevra, dopo mesi di scontro commerciale brutale che ha fatto tremare mercati e catene di approvvigionamento internazionali.

Cosa cambia?
Da oggi, Washington ridurrà le tariffe sui beni cinesi al 30%, mentre Pechino abbasserà i propri al 10% — un netto calo rispetto ai picchi che avevano raggiunto anche il 245%. L’intesa segna una significativa de-escalation, almeno temporanea.

Il presidente Donald Trump, intervistato da Fox News, ha definito l’accordo “molto, molto forte”, sottolineando l’opportunità di “aprire la Cina” alle imprese americane. Ma i dettagli restano vaghi, e la sospensione resta fragile.

I nodi irrisolti:

  • Washington mantiene una tariffa extra del 20% legata all’export cinese di sostanze chimiche usate per produrre il fentanyl.
  • La Cina, dal canto suo, accusa gli USA di “scaricare colpe” e di seguire “la legge del più forte”.

Intanto, i mercati si riprendono, ma gli analisti avvertono: tra 90 giorni tutto potrebbe tornare come prima. O peggio.

Una guerra commerciale senza vincitori, solo vinti: lavoratori, consumatori, imprese. Trump e Xi giocano a Risiko con l’economia mondiale. Ma fuori dal tabellone, la crisi è reale. E non dura 90 giorni: dura da anni.

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