20 giugno 2025 – Notiziario Africa

Scritto da in data Giugno 20, 2025

  • Nigeria, centinai di morti e migliaia di sfollati nell’ondati di violenza nella Middle Belt
  •  Nigeria, la musica Kamwe come strumento di pace
  • Repubblica Democratica del Congo: nuove speranze di un accordi di pace nell’Est
  • Miguel Masaisai, 7000 km in bici per la pace del Congo

Questo e molto altro nel notiziario Africa a cura di Elena L. Pasquini

“Se non fossi africana, forse non mi renderei conto che l’Africa non ha bisogno di pesci in regalo, ma di solide canne da pesca e di un equo accesso allo stagno.

Forse non capirei che sì, le nazioni africane hanno dei leader disastrosi, ma hanno anche persone dinamiche, capaci di agire e con tante cose da dire.

Forse non saprei che quell’Africa ha le sue divisioni di classe e che ci sono africani ricchi che non hanno derubato i loro paesi.

Forse non riuscirei a convincermi che i paesi africani corrotti sono anche pieni di persone furiosamente oneste e che i conflitti violenti riguardano il controllo di risorse (a volte per motivi del tutto artificiosi) molto scarse”.

Scriveva così nel 2006 l’autrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie sul Washington Post.

Le lenti con cui guardiamo all’Africa” era il titolo di quel contributo, lenti che ci mostrano un continente complesso e multiforme come fosse un solo Paese, fatto di natura immensa e animali selvaggi, “o come un luogo di persone disperatamente povere che si uccidono o vengono uccise a vicenda per un motivo qualsiasi”.

È provando a toglierci quelle lenti che andremo oggi, 20 giugno 2025, proprio nella Nigeria di Chimamanda e quindi nella Repubblica Democratica del Congo, dentro le guerre ma anche dentro le storie altre e la grande storia.

Nigeria, esplode la violenza

Il deserto che avanza, l’acqua che manca, la terra che diventa ragione di morte, la violenza nel Nord che spinge più a Sud verso altra violenza, e le armi che non conoscono frontiere. Non c’è una ragione soltanto per spiegare l’ondata di attacchi sempre più frequenti nel cuore della Nigeria.

L’ultimo, tra la notte del 13 e il 14, nella città di Yelewata, nello Stato di Benue: il numero di morti, come sempre, è solo una stima. Sono 150, secondo il Global Center for the Responsibility to Protect.

In migliaia sono dovuti scappare, di nuovo. Nessun gruppo avrebbe ancora rivendicato l’attacco. Uomini armati non identificati. Miliziani Fulani, musulmani, raccontano alcuni superstiti.

“Gli aggressori hanno preso di mira i cristiani che vivono come sfollati, incendiando gli edifici in cui le famiglie si erano rifugiate e aggredendo con i machete chiunque tentasse di fuggire”, secondo l’organizzazione Aid the Curch in Need.

“I militanti hanno usato del carburante per appiccare il fuoco alle porte degli alloggi degli sfollati prima di [attaccare] un’area dove dormivano più di 500 persone”, hanno aggiunto.

“I sopravvissuti raccontano di intere famiglie bruciate vive nelle loro case, e di molti altri feriti o dispersi. Molte delle vittime avevano cercato rifugio nel mercato del villaggio dopo essere fuggite dalle violenze in altre parti dello Stato”, racconta ancora il GCR2P.

Pastori musulmani che avrebbero attaccato i cristiani, in questa guerra che più che guerra tra le fedi, è guerra di miserie, che si racconta come lo scontro antico tra pastori e agricoltori, ma che ha le sue radici nella scarsità di risorse, nel cambiamento del clima che le rende ancora più scarse e fa della competizione per l’acqua e per la terra, una battaglia mortale.

“Il cambiamento climatico e la desertificazione nel nord hanno spinto i pastori Fulani, a maggioranza musulmana, a sud verso terreni agricoli occupati da comunità prevalentemente cristiane”, spiega il GCR2P.

A condurre i pastori Fulani nelle terre cristiane, verso quella che si chiama Middle Belt, però, c’è anche l’insurrezione di Boko Haram e di altri gruppi, la violenza scatenata dall’insorgenza islamista, l’altra guerra della Nigeria.

Nello Stato di Benue, “a maggio, almeno 42 persone sono state uccise in una serie di attacchi coordinati, durante i quali uomini armati hanno anche distrutto infrastrutture critiche, tra cui pozzi di trivellazione, cliniche, scuole, luoghi di culto e riserve di grano.

La violenza è aumentata anche nel vicino Stato di Plateau, dove oltre 100 persone sono state uccise negli ultimi mesi”, riporta ancora il GCR2P.

Uno stato di tensione che ha favorito la proliferazione di gruppi armati e bande criminali, “banditi”, che operano in condizioni di quasi totale impunità, con gli agricoltori che sono stati tra i più colpiti dagli ultimi attacchi.

I gruppi armati hanno occupato terreni, impedendo le attività agricole e contribuendo a quella che sta diventando sempre di più una grave crisi alimentare e umanitaria.

Il 15 giugno 2025, centinaia di giovani hanno manifestato. Non ne possono più di questo ciclo di morte senza fine. Joseph Ochogwu è un ricercatore, direttore generale dell’Istituto per la Pace e la Risoluzione dei Conflitti di Abuja.

Intervistato da Radio France Internationale ha spiegato quanto pesi in questa crisi multifattoriale l’assenza di un’amministrazione locale forte.

La Nigeria non può schierare l’esercito ovunque in questo immenso Paese: “Non può schierarsi simultaneamente in tutti i teatri operativi, in tutte le comunità. È quasi impossibile, data la vastità del territorio”, ha detto Ochogwu.

La speranza risiede solo nel rafforzare le autorità locali, quelle “che dovrebbero fornire istruzione di base, servizi sanitari, strade e infrastrutture di base, per garantire la presenza dello Stato in queste comunità”.

Sono loro le prime a dover gestire i conflitti, ed è in loro assenza, spiega Ochogwu, che “le popolazioni sono abbandonate a se stesse e attori esterni ne approfittano per cercare di prenderne il controllo”.

Nigeria, musica per la pace

Michika, la terra del popolo Kamwe. “Mwe-cika”, che significa “strisciare silenziosamente dalla collina” per cacciare. È una città niegeriana al confine con il Camerun dalla storia antica e travagliata.

Un tempo qui i tamburi Dumbori chiamavano la comunità a riunirsi per trovare soluzioni pacifiche ai conflitti, per appianare le divergenze.

La musica serviva anche a guarire le ferite dell’anima. È così, ancora, oggi, tra la gente devastata dall’insurrezione di Boko Haram che usa la musica e il canto per costruire ponti.

Musica per la pace, che rischia però di essere dimenticata e che, anche lei, ha bisogno di essere protetta e difesa.

Lo racconta Vashala Charles, una ricercatrice dell’Università nigeriana di Maiduguri. Vashala ha speso sei mesi nella comunità di Michika per studiare il potenziale della musica nella costruzione della pace e le sue funzioni nella società nigeriana contemporanea, grazie a un tirocinio del British Council e dell’Università di Siena, istituzioni impegnate in un più ampio progetto di analisi della musica come strumento di gestione dei conflitti nel mondo.

Ha incontrato “custodi culturali, musicisti, membri della comunità e anziani”.

“I leader della comunità mi hanno raccontato di quando, prima dell’insurrezione, la musica Kamwe veniva eseguita in occasione di importanti eventi pubblici come cerimonie nuziali e festival, nonché cerimonie di pace.

Queste esibizioni erano pensate specificamente per mantenere l’unità, preservare una memoria collettiva condivisa e promuovere valori condivisi”, scrive. Si cantava per comunicare messaggi, per incontrarsi, per raccontare la speranza.

Lo studio di Vashala ha dimostrato come la musica tradizionale rappresenti quel fondamento culturale capace di sviluppare la resilienza della comunità e “promuovere la solidarietà tra i diversi gruppi etnici e religiosi della comunità”. Un ruolo che continua a svolgere ancora oggi.

“Ad esempio, le attività musicali permettono ai giovani di trovare la propria identità e i propri legami sociali, il che può portarli ad astenersi dall’associarsi a gruppi violenti o radicalizzati”, scrive.

Gran parte della musica tradizionale, però, racconta Vashala, è andata perduta in seguito agli attacchi di Boko Haram a Michika e all’impatto della modernizzazione.

“Permangono rischi sostanziali per la sua sopravvivenza”, mette in guardia la studiosa. “La mia esperienza di ricerca durante il tirocinio mi ha dimostrato che la sostenibilità culturale gioca un ruolo fondamentale nelle aree colpite da conflitti e instabilità.

Mantenere viva la musica Kamwe persegue un duplice scopo: proteggere le nostre tradizioni culturali e, al contempo, stabilire metodi solidi per costruire una più forte unità sociale”.

Repubblica Democratica del Congo

Per tre giorni i diplomatici della Repubblica Democratica del Congo e del Ruanda hanno cercato un compromesso che avvicini l’Est della RDC alla pace.

Alla fine, è stato raggiunto un accordo su un documento, o meglio una bozza che dovrebbe essere firmata dai rispettivi Ministri degli Esteri, il 27 giugno, alla presenza di Marco Rubio, Segretario di Stato degli Stati Uniti, secondo una dichiarazione congiunta pubblicata sul sito web del governo statunitense.

Il testo prevede disposizioni che dovrebbero garantire la cessazione delle ostilità, il disimpegno delle truppe, il rispetto dell’integrità territoriale, il disarmo e la reintegrazione dei gruppi armati, la creazione di un sistema congiunto per la sicurezza della regione e un meccanismo di integrazione economica.

La firma di questo documento preliminare, che potrebbe rappresentare un punto di svolta nel decennale conflitto armato che si è riacceso a gennaio con l’occupazione dell’Est del Congo da parte del gruppo armato M23, sostenuto dal Ruanda, è stato “un gesto simbolico, ma anche politico, dato che queste discussioni hanno un impatto diretto su un altro processo in corso: i negoziati tra il governo congolese e i rappresentanti dell’AFC/M23, attualmente a Doha”, scrive Radio France Internationale.

“L’anno scorso, esperti ruandesi e congolesi hanno raggiunto due volte un accordo, sotto la mediazione dell’Angola”, ricorda Reuters, che si sono tradotti però sempre in un nulla di fatto.

A marzo, l’Angola ha abbandonato il ruolo di mediatore, mentre i combattimenti si sono fatti sempre più intensi e “i ribelli M23 hanno messo in atto un’avanzata che ha portato alla conquista delle due città più grandi della regione, alimentando il timore di un conflitto più ampio”, si legge ancora su Reuters.

Mentre a Washington si negozia, in Congo un’indagine dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani ha rivelato la scala delle violazioni commesse tanto dai ribelli sostenuti dal Ruanda, quanto dalle truppe congolesi e dalle milizie alleate. Di “un apparente totale disprezzo per la protezione dei civili durante e dopo le operazioni militari”, ha riferito Volker Türk al Consiglio per i Diritti Umani.

La missione ha documentato la detenzione di testimoni e prigionieri in condizioni disumane, reclutamenti forzati, esecuzioni sommarie, un uso “orribile” della violenza sessuale da parte di tutte le parti come mezzo di ritorsione contro le comunità, i parenti di coloro che si ritiene siano oppositori e persone di altri gruppi etnici.

L’UNICEF ha stimato che, nel momento di maggiore intensità del conflitto, “un bambino veniva stuprato ogni 30 minuti”.

Attraversare l’Africa per la pace nel Congo

Miguel Masaisai è partito da Goma, da solo, con la sua bicicletta, a maggio. Si è fermato a Lusaka, in Zambia, per riposare un attimo. Solo un attimo prima di riprendere a pedalare per la pace. Vuole percorrere 7000 km e raggiungere Cape Town, in Sudafrica.

Triatleta, 23 anni, Miguel attraverserà sei Paesi, senza alcuna assistenza, percorrendo 150 km al giorno, su strade dure, in terre dal clima incerto e in contesti volatili e fragilissimi.

“Vengo da Goma, una città che ha sofferto per anni a causa di conflitti, insicurezza e instabilità. Eppure, in mezzo a tutto questo, ci sono giovani pieni di sogni, talento e coraggio.

Il mio obiettivo è mostrare al mondo un’altra immagine del Congo e dell’Africa: quella di un popolo retto, resiliente, creativo e pacifico”, ha detto a Radio Okapi.

Il suo viaggio, “Pedals for Peace”, vuole essere un grido e un messaggio, una chiamata alla mobilitazione. “Andrò in bicicletta per i bambini sfollati, per le madri senza voce, per i giovani che pensano che la loro vita non valga nulla.

Intraprendendo questo viaggio estremo, voglio dire loro: ‘Potete sognare in grande, potete risorgere, anche quando tutto intorno a voi crolla’”, aveva detto.

La prima tappa l’ha portato ad attraversare il Ruanda in due giorni, lo Stato vicino coinvolto nella guerra che sta devastando l’Est del Congo. Con i colori del suo paese, la tuta da ciclista, gli occhiali da sole e il casco in testa, Miguel è arrivato in Zambia accompagnato da tanti giovani.

“Prima del mio arrivo qui a Lusaka, a 55 chilometri di distanza, alcuni giovani mi hanno chiamato”, racconta a Radio France International. “Mi hanno chiesto se fossi Miguel Masaisai. Erano venuti dalla capitale apposta per me e per accompagnarmi a Lusaka”.

È un’odissea non priva di rischi, come quando ha bucato una gomma dove sarebbe potuto diventare preda di animali ed esseri umani, che Miguel racconta ogni giorno sui social.

Un’odissea che costa tanta fatica, come racconta all’agenzia congolese Ouragan: “Le gambe mi fanno male, la stanchezza è costante. Le strade sono in pessime condizioni, il vento è spesso contrario.

A volte devo affrontare la solitudine, l’insicurezza o persino gli animali selvatici. Ma ogni istante ricordo perché ho iniziato: per Goma, per la pace, per tutti coloro che non hanno voce”.

Patrice Lumumba

Cento anni dalla nascita Patrice Lumumba, il 2 luglio di quest’anno, cento anni dalla nascita di un uomo che fece risorgere il sogno di un continente libero da ogni oppressione.

L’uomo dell’indipendenza dal dominio coloniale, il primo Primo Ministro del Congo liberato, che immaginò la democrazia e la fine dello sfruttamento delle ricchezze minerarie, fu ucciso nel 1961, solo sei mesi dopo la sua elezione dai separatisti del Katanga. Dietro, belgi e americani.

Ma oggi, forse, la ricerca delle verità di quella morte che spezzò il futuro del Congo,  potrebbe finalmente arrivare sui banchi della giustizia belga.

“Il 17 giugno, la procura federale belga ha annunciato di aver richiesto il rinvio del caso relativo all’assassinio [di Lumumba] a un tribunale penale di Bruxelles. Ciò è avvenuto dopo oltre un decennio di indagini.

Lo Stato belga è in parte responsabile dell’omicidio. Un’inchiesta parlamentare del 2001 ha stabilito che Re Baldovino, allora monarca del Belgio, era a conoscenza del piano di assassinio, ma non fece nulla per fermarlo.

Francois, il figlio, querelante in una denuncia del 2011, ha accusato lo Stato belga di crimini di guerra e tortura e di aver preso parte a una cospirazione volta all’eliminazione politica e fisica del padre”, spiega France 24.

Lumumba fu fucilato nella foresta, il suo corpo fatto a pezzi e sciolto nell’acido. Rimasero solo due denti, macabri trofei: uno fu restituito alla famiglia nel 2022. L’allora primo ministro Alexander de Croo si scusò; Re Filippo, discendente diretto di Re Baldovino, non pronunciò la parola “scusa”.

La sua storia la racconta oggi un libro a fumetti, “Lumumba, eroe africano”, uscito a fine maggio per i tipi di Becco Giallo e di Luca Catalano e Michele De Santis, che ne ricostruisce la vita, da giornalista a capo di Stato, a martire per la libertà.

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