21 novembre 2024 – Notiziario Africa

Scritto da in data Novembre 21, 2024

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  • Tunisia: arresti e detenzioni nel centro antiterrorismo per le associazioni che aiutano i migranti
  • Somaliland: Irro, del partito di opposizione Waddani, eletto presidente
  • Sudan: niente risoluzione ONU a favore della popolazione per il veto della Russia
  • Mozambico: la Procura generale chiede i danni a Mondlane, candidato dell’opposizione alle presidenziali
  • RDC: profanata la “reliquia” di Patrice Lumumba, eroe del Congo democratico
  • Arte: una mostra a Roma che parla del Sudafrica, tra storie di guerra, fame e miseria

Questo nel notiziario Africa di Radio Bullets, a cura di Elena Pasquini.

«Il viaggiare per profitto viene incoraggiato; il viaggiare per sopravvivenza viene condannato, con grande gioia dei trafficanti di “immigrati illegali” e a dispetto di occasionali ed effimere ondate di orrore e indignazione provocate dalla vista di “emigranti economici” finiti soffocati o annegati nel vano tentativo di raggiungere la terra in grado di sfamarli» scrive Zygmunt Bauman in “La società sotto assedio”.

Migranti economici, tra virgolette nel testo.
Spesso in fugga da guerra e persecuzioni.
Ombre, senza nome, senza storia.
Si fermano a poche centinai di chilometri da noi, in Tunisia per tentare di attraversare il Mediterraneo.
Ed è da lì che cominciamo oggi, da dove chi prova ad alleviarne fatica e sofferenza finisce agli arresti.

Poi, torneremo in Somaliland, in Sudan, in Mozambico e nella Repubblica democratica del Congo dove un atto “sacrilego” racconta un passato mai davvero archiviato.

E infine, a Roma, per una mostra che parla di tutta un’altra Africa, quella che resta ancora più ai margini di quanto non resti già tutto il continente, schiacciata tra storie di guerra, fame e miseria.

Ma oggi, 21 novembre 2024, l’Africa è anche la sua arte.

Tunisia

È il deserto, al confine con la Libia.
Arrivavano qui, a Médenine, nel Sud della Tunisia, le antiche vie carovaniere verso mercati di ricchezze.
Arrivano qui, oggi, quelle che dall’Africa subsahariana portano solo carichi di dolore e ciò che resta della speranza.

Lavorava a Médenine, Abdallah El Saïd, con la sua organizzazione, i Figli della Luna.
Assisteva i migranti in quell’ultimo tratto di sfinimento prima del mare.
È stato arrestato insieme al segretario e al tesoriere della ONG.
Fermati, anche due impiegati della banca dove erano depositati i soldi dell’organizzazione.
Si trova, mentre scriviamo, nel centro antiterrorismo del Governo.

La Tunisia è diventato principale punto di partenza per chi cerca di raggiungere l’Europa.
Dall’Unione Europea riceve fondi proprio per la gestione delle frontiere.

Nel 2023, un’inchiesta del quotidiano britannico The Guardian aveva rivelato come migliaia di persone fossero state respinte da funzionari tunisini verso le regioni desertiche, dove alcuni sono morti di sete.

Il mese scorso, sempre The Guardian, aveva documentato “abusi commessi dalle forze di sicurezza tunisine finanziate dall’Unione Europa, incluse accuse di stupro di donne migranti e bambini percossi”.

Romdhane Ben Amor, portavoce del Forum tunisino per i diritti economici e sociali, denuncia “una nuova ondata di repressione più dura” contro gli attivisti.

Quello di El Saïd sarebbe “un messaggio a tutti coloro che lavorano in solidarietà con i migranti”, si legge su Radio France Internationale.

Il trasferimento nel Centro antiterrorismo è “un segnale pericoloso, perché è la prima volta che le autorità lo utilizzano per associazioni specializzate nella questione migratoria” ha detto Ben Amor, all’Agence France Presse.

Secondo quanto riporta il quotidiano La Press, vicino al governo, “tra il 2019 e il 2023, questa associazione avrebbe ricevuto fondi dall’estero per aiutare i migranti subsahariani a entrare illegalmente in territorio tunisino” riporta RFI.

“Fino all’inizio di quest’anno, la Tunisia era uno spazio relativamente sicuro per le organizzazioni della società civile che sostengono i migranti” scrive su OpenDemocracy Chiara Loschi, ricercatrice dell’Università di Bologna, che lavora per il progetto “SHUT-MED: Securitising human transit across the central Mediterranean migratory corridor” e che ha recentemente incontrato diversi attori della società civile.
“Le persone con cui ho parlato mi hanno raccontato di colleghi che erano stati incarcerati con l’accusa di “riciclaggio di denaro” e di altri reati finanziari, di come le loro organizzazioni sono state costrette a cessare le attività” scrive.

Secondo il Forum per i diritti economici e sociali, il potere politico sta usando “le istituzioni statali per criminalizzare i movimenti pacifici e le proteste.
Stanno limitando il lavoro degli attori della società civile, così come le attività politiche e sindacali, prendendo di mira gli attivisti”.

Venerdì scorso è stato invece liberato, dopo un mese di detenzione, Victor Dupont, uno studente francese di 27 anni con un dottorato di ricerca all’Institute of Research and Study on the Arab and Islamic World dell’Università di Aix-Marseille.
Stava studiando i movimenti sociali, la disoccupazione giovanile e la rivoluzione tunisina del 2011.

A febbraio del 2023, il presidente tunisino Kais Saied, aveva usato parole dalla durissima retorica anti-migranti, sostenendo vi fosse un “piano criminale volto a modificare la composizione demografica”del Paese.

A luglio di quello stesso anno, però, la UE si era comunque impegnata a fornire 1 miliardo di aiuti, di cui 105 milioni per la gestione delle frontiere.

All’inizio di quest’anno, poi, Giorgia Meloni aveva parlato di 50 milioni di euro “come parte di un progetto sempre più costoso per reprimere l’immigrazione irregolare in Italia” ricorda Chiara Loschi.

“Solo un mese dopo, nel maggio 2024, le autorità tunisine hanno condotto una “repressione senza precedenti” contro migranti, rifugiati, difensori dei diritti umani e giornalisti.
Ciò è avvenuto dopo mesi di violenza razziale contro gli stranieri nel Paese”.
Arresti e indagini su leader, staff ed ex membri di almeno 12 organizzazioni con “vaghe accuse di crimini finanziari relative agli aiuti ai migranti o richiedenti asilo” aggiunge.

“Le organizzazioni locali … sono state cruciali per la sopravvivenza e il sostegno dei gruppi vulnerabili in Tunisia” prosegue Loschi.
“Hanno svolto un ruolo chiave nel fornire assistenza principalmente alle comunità di migranti africani neri, agendo come intermediari tra i donatori umanitari internazionali, le autorità locali e la comunità locale e fornendo aiuti e risorse essenziali” sostiene la ricercatrice italiana.

Un’ondata repressiva in una politica, quella del Presidente Kais Saied, sempre più autoritaria.
Eletto nel 2019, nel 2022 ha di fatto dissolto il Parlamento e adottato una Costituzione che sembra porre una pietra tombale sulle conquiste democratiche raggiunte dalla Tunisia dopo la rivoluzione del 2011 che ha portato alla caduta del dittatore Zine al-Abidine Ben Ali.

Rieletto questo autunno per un secondo mandato con un’affluenza alle urne che non ha raggiunto neppure il 30 percento, Saied ha di fronte enormi sfide:

  • l’economia in crisi
  • le proteste
  • la crescita del debito pubblico.

“In un contesto del genere, i migranti che viaggiano verso e attraverso il Paese costituiscono un facile capro espiatorio, nonostante la loro presenza non abbia nulla a che fare con l’aumento del debito e della povertà” scrive ancora Loschi.

Somaliland

Cambio al vertice del Somaliland.
Abdirahman Mohamed Abdullahi, detto Irro, candidato del partito di opposizione Waddani, ha sconfitto Muse Bihi Abdi, il presidente in carica.
I risultati delle elezioni che si sono tenute la scorsa settimana, sono arrivati martedì.
Irro ha ottenuto il 64% delle preferenze.

“Questa elezione non è una vittoria o una sconfitta per i candidati.
È stata una elezione di unità e fraternità, e una spinta in avanti per il Somaliland come nazione” ha dichiarato Irro.

Voto su una terra di neppure 140.000 chilometri quadrati e con circa 3,5 milioni di abitanti, soprattutto voto in un Paese che da solo si dichiara tale perché non ha il riconoscimento internazionale.

Eppure, questa è una partita che il mondo guarda con attenzione perché il Somaliland – ovvero l’ex Somalia britannica che si è unita nel 1960 ai territori sotto amministrazione fiduciaria italiana per separarsene poi nel 1991 alla caduta del regime di Siad Barre – è in cerca proprio di questo: il riconoscimento della sua indipendenza.

Ed è, il Somaliland, in una posizione strategica, affacciato sul golfo di Aden, dove Mar Rosso e Oceano indiano s’incontrano, in una delle più importanti rotte commerciali del mondo ed in una delle sue regioni più fragili: corridoio per le merci, ma anche per uomini, armi e per il virus della guerra.

A gennaio, il Somaliland ha firmato un’intesa, tutta ancora da implementare, con l’Etiopia, concedendo ad Addis Abeba, 20 chilometri di costa su cui costruire un porto commerciale e una base militare.
In cambio chiede il riconoscimento.

Una mossa che ha fatto salire la tensione con la Somalia, che in tutta riposta ha stretto un patto di cooperazione con l’Egitto che ha già consegnato a Mogadiscio carichi di armi.

Quale sarà la posizione di Irro sul futuro dell’accordo ancora non è chiaro.
Sebbene si sia espresso a favore della sua implementazione, “alcuni analisti sospettano che potrebbe essere più aperto al dialogo con il governo somalo, che si oppone all’accordo” scrive l’agenzia Reuters.

Il Somaliland di Irro guarderebbe con favore alla nuova amministrazione statunitense: “Diversi importanti funzionari politici africani del primo mandato di Trump hanno espresso sostegno al suo riconoscimento” scrive sempre Reuters.

“I critici sostengono che Bihi abbia perso sostegno a causa di uno stile paternalistico, sostenendo che fosse stato sprezzante nei confronti dell’opinione pubblica in un momento in cui le difficoltà economiche hanno minato il valore della valuta locale … [Irro] sarebbe una figura più unificante” scrive la BBC.

Il nuovo presidente, che si insedierà ufficialmente a metà dicembre, ha studiato negli Stati Uniti, ha prestato servizio presso l’ambasciata somala a Mosca, restando come ambasciatore facente funzione durante al guerra civile, ed è cittadino finlandese, perché è lì che la sua famiglia è fuggita negli anni del conflitto.

Sudan

La Russia ha posto il suo veto al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.
La risoluzione in cui si chiede la fine degli attacchi ai civili e di rendere più facile l’accesso agli aiuti umanitari in Sudan non è passata.
Hanno votato a favore tutti gli altri quattordici membri.

A presentarla, la Gran Bretagna con la Sierra Leone.
Gran Bretagna che la Russia ha accusato di intromissione “negli affari sudanesi”, riporta la BBC.
Il ministro degli Esteri britannico David Lammy ha definito il veto una “vergogna”.
“Vergogna a te, Uk!”, ha scritto su X, Dmitry Polyanskiy, il rappresentante della Russia alle Nazioni Unite, “per aver tentato di far approvare una risoluzione che getta benzina sulla crisi del Sudan, lasciando le acque fangose affinché i Paesi occidentali, che le amano così tanto nelle ex colonie, possano spingere avanti la loro agenda”.

Un acceso e violento botta e risposta, mentre in Sudan si continua a morire.

Un veto “vergognoso”, anche secondo Amnesty International, che chiede a tutti i Paesi che stanno alimentando il conflitto di “di interrompere immediatamente la fornitura diretta e indiretta di armi ad entrambe le parti”.

“Il Sudan è la più grande crisi di sfollati del mondo. La facilitazione dell’assistenza umanitaria, come richiesto nel progetto di risoluzione, avrebbe offerto un sollievo temporaneo a milioni di sfollati interni che necessitano urgentemente di assistenza” ha detto Tigere Chagutah, direttore regionale per l’Africa dell’est e meridionale di Amnesty international.

Da aprile, in Sudan, si combattono le Forze armate sudanesi e il gruppo paramilitare delle Forze di supporto rapido: circa 150.000 morti, secondo il quotidiano francese Le Monde, e 13 milioni di sfollati.
L’organizzazione per i diritti umani chiede che venga rispettato l’embargo sulle armi in Darfur ed esteso al resto del Paese.

La risoluzione invitava anche le RSF a rispettare gli accordi precedenti per la protezione dei civili, facendo menzione specifica degli attacchi nella regione occidentale del Darfur.
“Il rappresentante del Sudan all’ONU ha affermato che le clausole che il Sudan avrebbe voluto inserire nel testo non sono state incluse” riferisce ancora la BBC.

Gli attivisti sudanese sono stati molti critici con le Nazioni Unite, accusandole di lentezza nel rispondere alla crisi.

Il Consiglio di Sicurezza ha invece imposto, all’inizio di novembre, un divieto di viaggio internazionale e il congelamento dei beni a due persone: il capo delle operazioni di RSF, il maggiore generale Osman Mohamed Hamid Mohamed, e il comandante di RSF nel Darfur occidentale, il generale Abdel Rahman Joma ‘a Barakallah.

“La RSF e le milizie alleate hanno massacrato e terrorizzato intere comunità nel Darfur occidentale” scrive Andrew Stroehlein, di Human Rights Watch.
Saccheggi e incendi dolosi vanno di pari passo con omicidi e stupri. Hanno attaccato infrastrutture civili essenziali, come ospedali e mercati. Raso al suolo interi quartieri.
Questi attacchi RSF non sono stati effettuati in modo casuale. Sono stati presi di mira lungo linee etniche e principalmente le comunità non arabe” scrive.

Le RSF sono in buona parte gli ex Janjaweed, la milizia nota per i suoi terribili crimini contro gruppi non arabi in Darfur vent’anni fa.
A macchiarsi di crimini, però anche, l’esercito.
Una buona notizia, le sanzioni comminate dall’ONU, “ma è chiaro che non è sufficiente data la portata del massacro in Sudan” conclude Stroehlein.

Mozambico

Circa 480.000 euro.
È questa la cifra che la Procura generale del Mozambico chiede a Venancio Mondlane.

Lunedì, riporta Radio France Internationale, è stata presentata una denuncia civile nei confronti del candidato dell’opposizione alle presidenziali per i danni causati dalle proteste che contestano i risultati delle elezioni che si sono tenute il 9 di ottobre, e che hanno visto la vittoria di Daniel Chapo, candidato con la Frelimo, il partito che guida il Paese dalla sua indipendenza.

Almeno 30 morti, secondo le Nazioni Unite; oltre 60, invece, secondo le organizzazioni della società civile.
Mondlane, che è all’estero, avrebbe “istigato le persone a commettere atti gravi contro lo Stato mozambicano” è l’accusa.

Un caos, quello in cui è disceso il Mozambico, dopo un voto le cui irregolarità sono state documentate da diverse inchieste, inclusa quella condotta dell’Unione Europea.

Brutale è stata la repressione delle proteste che non ha risparmiato i giornalisti.
“Resoconti di stampa e dichiarazioni delle organizzazioni per i diritti umani, mostrano come i giornalisti che coprivano [tale] repressione post-elettorale non siano stati risparmiati dalla violenza” scrive il Comitato per la protezione dei giornalisti.

Li hanno arrestati, gli hanno sparato, li hanno attaccati con violenza, li hanno cacciati o gli hanno confiscato le attrezzature.
Almeno in nove sarebbero stati attaccati o arrestati; almeno due i corrispondenti stranieri espulsi dal Paese.

“Il giornalismo è diventato troppo rischioso e spesso impossibile” ha detto al CPJ Gervásio Nhampulo, un giornalista della provincia settentrionale di Niassa. “Dobbiamo considerare le nostre famiglie, se ci succede qualcosa”.

Filimão Swaze, portavoce del Consiglio dei ministri mozambicano, in una conferenza stampa del 22 ottobre, aveva negato che polizia prendesse di mira i giornalisti e che sarebbero stati invece attaccati mentre seguivano le proteste del 21 ottobre perché si trovavano “in un luogo dove c’erano anche manifestanti” scrive ancora CPJ.

Il CPJ non ha ricevuto risposte alle chiamate e ai messaggi indirizzati al portavoce della polizia di Maputo Leonel Muchina, al comandante generale della polizia del Mozambico Bernardino Rafael e a Swaze.
“Negli ultimi anni – scrive ancora il comitato – le autorità mozambicane hanno molestato, picchiato e incriminato diversi giornalisti. Le autorità devono ancora rendere conto in modo credibile della scomparsa del giornalista radiofonico Ibraimo Mbaruco nel 2020”.

Repubblica Democratica del Congo

Un dente è ciò che resta del corpo di Patrice Lumumba.
Molto più grande l’eredità dell’uomo celebrato oggi come un eroe, ammazzato nel 1961 per spezzare il sogno di un Congo democratico.
Il luogo dove la “reliquia” è conservata, il mausoleo nella capitale a Kinshasa, è stato vandalizzato.

Di quel dente coperto d’oro non si sa se sia stato danneggiato o rubato.
“Una fonte vicina alla famiglia Lumumba sostiene che non si trova nel mausoleo da diversi mesi, a causa della mancanza di sicurezza e manutenzione, e che attualmente è custodito in un luogo sicuro e segreto.
La stessa fonte spiega che la cattiva gestione del sito non consente l’esposizione della reliquia” scrive Radio France internationale.

Un curatore del mausoleo avrebbe riferito all’agenzia di stampa nazionale che la bara contenente il dente è stata rotta, riporta l’Associated Press.

Un’inchiesta è ora in corso per capire chi e perché ha compiuto quest’atto considerato “sacrilego” nella notte tra domenica e lunedì.
Finestre rotte, la bara scaraventata a terra.
“Un atto odioso, volto a dissacrare” la figura di Lumumba, ha dichiarato il Ministero della cultura.

Il dente era stato restituito alla famiglia di Lumumba nel 2022 dalla giustizia di Bruxelles ed è tutto ciò che rimane del primo premier dell’ex colonia belga.

Un’icona della lotta contro il colonialismo, incarcerato, torturato e poi trucidato “dai separatisti del Katanga e da mercenari belgi.
I suoi assassini sciolsero i suoi resti nell’acido, anche se alcuni conservarono i suoi denti come macabro ricordo” raccontava il The Guardian.

Nel 2022, il primo ministro belga, Alxeander de Croo, nel restituire il dente ai familiari, aveva riconosciuto la “responsabilità morale” del Belgio per l’omicidio di Lumumba.

Panafricanista, primo leader democraticamente eletto in Congo, non voleva la secessione di quelle ricche province minerarie.
“I funzionari occidentali temevano che Lumumba avrebbe favorito l’Unione sovietica e avrebbe consentito a Mosca l’accesso a risorse strategicamente critiche come l’uranio” scrive ancora il quotidiano britannico.
La stessa Cia aveva piani per eliminare questa figura rivoluzionaria e scomoda.

Interessi internazionali, guerra di risorse, lotte di potere interne: per questo è stato ucciso.
Una verità che per essere raccontata ha avuto bisogno di decenni.
Oggi, ancora, è in quelle logiche che il Congo affoga.

Roma e Sudafrica

Forme geometriche e simmetriche, moduli, triangoli, colori, sfondi bianchi e spesse linee nere. Forse vi sarà capitato di vederle su una BMW 525i o sulle code degli aeroplani della British Airways o su una Fiat 500 o in un museo.

È cosi che Esther Mahlangu mantiene viva la cultura Ndebele, raccontandola nella contemporaneità.
Ultima settimana per vedere le sue opere a Roma, alla Black Liquid Gallery.

Galleria specializzata in arte africana che inaugura una nuova sede, fino al 30 di novembre ospita una mostra dedicata a questa iconica artista di 89 anni nata in un villaggio del Sudafrica.
E che oggi, è ovunque nel mondo.

Scoperta nel 1989 da un gruppo di ricercatori che la invitano ed esporre al Centre Pompidou di Parigi, Esther ha imparato l’antica arte Ndebele da sua madre e da sua nonna.

Un’arte che era soltanto delle donne e che ora, invece, lei insegna anche ai ragazzi.
Usata, un tempo, per decorare le case, nei riti di passaggio degli uomini, nei matrimoni, per preservare i valori culturali.

“Per centinaia di anni il popolo Ndebele ha utilizzato l’architettura, la pittura murale e le decorazioni con perline per esprimere la propria appartenenza a un’identità distintiva.
Questa cultura materiale divenne particolarmente importante quando iniziarono a disperdersi, a partire dal 1800 con la guerra contro i boeri coloniali e intensificandosi negli anni Quaranta con l’inizio dell’apartheid e del dominio della minoranza bianca in Sud Africa” scrive Sifiso Ndlovu, docente di scienze politiche all’Università di Mpumalanga, in Sudafrica, su The Conversation.

“Mentre perdevano la loro terra e si disperdevano, gli Ndebele mantennero la pittura, l’architettura e gli abiti decorati con perline per preservare il loro senso di appartenenza e identità … La loro cultura materiale si è evoluta per esprimere resistenza e continuità culturale” prosegue.

Un ruolo chiave quello delle donne, spiega Sifiso Ndlovu: “Attraverso i loro dipinti le donne furono rese socialmente visibili e vennero viste come guardiane attraverso le quali l’identità Ndebele veniva mantenuta attraverso le generazioni”.

La mostra è aperta dal mercoledì al sabato, dalle 12:00 alle 19:30 e si tiene nella sede di Via Piemonte 69.

Foto di copertina: Charly Gutmann – Pixabay
Musica: Stock Media provided by KING_DAVID / Pond5

 

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