Palestina: quando l’arte diventa resistenza
Scritto da Radio Bullets in data Ottobre 17, 2023
di Elena L. Pasquini
MILANO – La frontiera si è chiusa alle loro spalle con un colpo secco, come se si serrasse un pesante catenaccio, come una punizione più che un’insperata fortuna. Rawand è di Jenin, nel nord della Cisgiordania, in Palestina. Ilaria è italiana, ma vive a Betlemme. Entrambe vogliono tornare in quella terra da cui oggi non si può uscire.
Rawand sorride senza accenno d’incertezza, nell’autunno troppo caldo di Milano: “L’arte è la lingua del mondo… L’arte cambia le cose”. Bisogna tornare, perché creare è resistere mentre la violenza conduce solo ad altra violenza. Bisogna che la Palestina narri se stessa.
A Base, il complesso industriale dell’ex-Ansaldo, Rawand e Ilaria sono tra i “Pionieri della creatività” arrivati da ogni lembo del pianeta per incontrarsi nell’evento “A Creativity Revival”. Donne e uomini, sostenuti dalla Molenskine Foundation, convinti che l’immaginazione abbia il potere di trasformare un’arida sterpaglia in un giardino, esattamente come Rawand Arqawi, insieme ad altri artisti, ha mutato uno spazio vuoto e senza arredi nel Fragments Theatre, teatro e centro culturale nella città vecchia di Jenin.
L’arrivo in Italia
“Quando ho prenotato i biglietti [per l’Italia] ero spaventata che potesse accadere qualcosa, di perdere il volo. E cosi ho deciso di mettermi in viaggio due giorni prima”, racconta Rawand.
Come tutti i palestinesi, anche lei non può partire da Tel Aviv, deve passare dalla Giordania. È lì che aspetta il suo aereo. “Quando sono arrivata a Venezia, mi ha chiamato la mia famiglia, hai visto le notizie? … O mio Dio! Ho messo la mano sul cuore. Oh mio Dio, hanno invaso Jenin!”, [ho pensato]. Non le avevo ancora viste, le notizie. Mia madre mi stava chiamando e mi stava dicendo delle cose folli …”.
Rawand aveva avuto la sensazione che qualcosa stesse per accadere, ma nella sua città dove la tensione era sempre più alta dopo l’assedio di luglio, la più massiccia operazione militare israeliana degli ultimi vent’anni, caccia agli autori di atti terroristici che si cercavano nel campo profughi, quel monumento alla sofferenza che dagli anni ‘50 ci ricorda che qui l’occupazione e la guerra non è un fatto di oggi. Un’operazione che avrebbe lasciato, invece, una scia di sangue innocente ad alimentare il desiderio di riparazione o di vendetta. “È questo che mi ha dato la sensazione che la gente della Palestina non sarebbe rimasta in silenzio, che avrebbero reagito”, spiega. Mai, però, Rawand avrebbe immaginato ciò che stava avvenendo a Gaza.
Anche Ilaria Speri, direttrice esecutiva di The Wonder Cabinet, un centro di produzione artistica e culturale multidisciplinare fondato dagli architetti Elias e Yousef Anastas a Betlemme, è arrivata qualche giorno prima. Non è palestinese, lei può muoversi con più libertà, lei può volare da Tel Aviv. Quasi tutto il team del progetto è partito tra il 5 e il 6 di ottobre per diverse destinazioni di lavoro, una fortuna, che lei non vorrebbe si chiamasse fortuna. Con Ilaria però doveva esserci una collega palestinese: “Sarebbe dovuta andare ad Amman il giorno dopo la mia partenza, ma il giorno dopo era il 7 ottobre”. Ora è chiusa in Cisgiordania.
La polveriera Palestina
“Chiaramente la Cisgiordania è una polveriera in questo momento”, spiega Ilaria, anche se raccontano “di una situazione di quiete, di silenzio assoluto”. Impossibile per lei, surreale, immaginare Betlemme senza il traffico caotico. Una polveriera, come Jenin, dove da sempre la vita è scandita dalla violenza e dalle sue tregue, dove lavorare è un percorso pieno di incognite. “Un attacco dell’esercito israeliano, s’inizia a sparare e tutto viene cancellato”, spiega Rawand. Vittime, troppo spesso, i bambini.
“Chi è responsabile di questo?”, si chiede. “[I palestinesi] non vogliono la violenza, vogliono lo stesso diritto di camminare per strada delle persone normali, gli stessi diritti dei coloni. Dicono che vogliono proteggere i residenti, ok? Ma i residenti di Jenin?”. Spinti ad imbracciare le armi, forzati alla guerra, sostiene Rawand.
Tra Gaza e Cisgiordania
In linea d’aria, la distanza che separa Gaza dal nord della Palestina è poco più di centotrenta chilometri, eppure non c’è percorso possibile per gli esseri umani, l’unica cosa che si muove tra questi due lembi di terra è la paura. “Tutti hanno paura di cosa sta avvenendo a Gaza, nessuno sa cosa accadrà”, dice Rawand, che non accetta l’equazione che fa di ogni palestinese un terrorista: “Hamas è un gruppo armato che combatte con Israele, perché allora punire i bambini?”.
Paura che corre veloce come una valanga, esito di decenni di segregazione, violenza e miseria: “Io sono palestinese e sento le persone, sento cosa dicono, di cosa parlano: “Dobbiamo morire, ma almeno stiamo facendo qualcosa …”. Ci si arriva a combattere, in una città sempre sotto attacco, una città povera, come povera è tutta la Palestina. “Quando non hai niente e pensi che non ci sia niente nella vita … la vita significa solo soldati israeliani, sparatorie, bombe …”, aggiunge. “A luglio a Jenin la gente combatteva, le donne, i bambini … Che siamo sopra la terra o sotto terra, noi siamo gente morta”, dicevano”, mormora Rawand.
Ne è convinta anche Ilaria, in Palestina da un anno e mezzo, unica straniera nel progetto, ll’unica che può muoversi liberamente e arrivare a Gerusalemme che è solo a pochi chilometri di distanza: è da questo contesto che a Gaza è nata Hamas. “Non piace a nessuno in Palestina, però resta un gruppo di resistenza armata”, spiega.
Quando la resistenza non è violenta
Eppure c’è chi, come loro, ha scelto di percorrere un’altra via, un’altra forma di resistenza. “Questo è il nostro compito”, sostiene Rawand. “Io non sono una combattente… Noi abbiamo trovato il nostro modo di resistere attraverso l’arte. Stare a Jenin, continuare il nostro lavoro nella più difficile delle situazioni, questa è resistenza … O venire qui: sono venuta, ero preoccupata, ero spaventata e sono partita due giorni prima. È più difficile per noi fare cose che per gli altri sono semplici e anche passare dalla Giordania è orribile”.
È una resistenza non violenta, “molto importate, come quello che stiamo facendo. È molto importante [per esempio] far parlare i bambini di ciò che sta accadendo. È un tipo di resistenza anche questa e questo è il nostro ruolo”, sottolinea più volte. “Mostra la parte giusta della vita, dà loro speranza, fai dell’arte un’avventura!”, a questo serve la creatività. E soprattutto a dare voce a chi ha imparato a soffocarla.
“Non c’è niente a Jenin, nessun luogo di intrattenimento, le voci sono silenti, nessuno può levare la sua per parlare di ciò che accade [lì] o in Palestina”, racconta. “Noi diamo loro lo spazio dove possono esprimersi”. Rabbia, dolore, sentimenti: “Attraverso lo spettacolo puoi criticare la comunità, parlare dei tuoi problemi […] Attraverso il teatro, attraverso l’arte, i giovani possono mandare messaggi. E i bambini che non hanno nulla da fare – a parte giocare a calcio per strada – possono imparare, divertirsi e noi possiamo portare loro la speranza”.
Il teatro come cura
Hanno iniziato per questo, con il teatro, con lo spettacolo di Peter Pan, e ora usano le arti visive e il cinema con le donne, i bambini, i giovani, e si occupano anche di salute mentale, in uno spazio dove gli artisti – in particolare i giovani, ma tutta la comunità – possono presentare il loro lavoro. Non è facile fare arte a Jenin, è “un combattimento, come una guerra, come se avessi passato una battaglia”, senza denaro, sfidando una società conservatrice.
“Quando abbiamo iniziato, la gente non accettava l’idea del teatro, ci attaccavano, alcuni protestavano, dicevano che non lo volevano nel loro quartiere”. Ancor peggio se sei donna: “Alcune persone vogliono fermare me e il mio lavoro, non accettano che le donne gestiscano un teatro”. Racconta delle minacce e della paura, Rawand: “Ero veramente terrorizzata all’inizio e poi mi son detta: “Perché devo essere spaventata, so cosa sto facendo, credo in me. Combattiamo… Alla fine ho potuto dimostrare che avevo ragione”. Ma serve pazienza, fare un passo alla volta, ed “essere gentili”, spiega. Serve mostrare come nasce la bellezza.
Frammenti
Fragments Theater, frammenti: si chiama cosi perché tutti loro si sono sparpagliati per il mondo dopo l’assassinio di Juliano Mer-Khamis nel 2011, artista arabo-israeliano con cui lavoravano e che il teatro lo ha portato nel campo profughi. A lui si sono ispirati quando hanno deciso di tornare. Frammenti, come sono gli artisti palestinesi costretti a lasciare la loro terra, come in “frammenti” è tutta la Palestina, che non la si può percorrere a piacimento, tra check point, zone A, B, C, controllate dall’’autorità palestinese o dall’esercito israeliano.
A Betlemme, The Wonder Cabinet, prova a rimettere insieme questi “frammenti” in un edificio nuovo, un’opera aperta a maggio, uno spazio fatto di vuoti tra vetro e cemento, vuoti da riempiere con le forme di un’identità, quella palestinese, troppo spesso scritta dagli altri o altrove.
Artigianato, design, architettura, arti visive, musica e cibo, The Wonder Cabinet, che porta il nome dei gabinetti delle meraviglie, è nato anche “per connettere un territorio che è fortemente, chiaramente frammentato da un punto di vista proprio fisico, di architettura del controllo che è imposto su tutta la Cisgiordania, che di fatto disgiunge una città dall’altra”, spiega Ilaria. È cosi che Betlemme diventa un ponte di connessione con Ramallah, con le altre città, e anche con Haifa che invece non è nei territori occupati.
Ricucire con l’arte
“Riportare insieme la comunità creativa palestinese laddove tutto il territorio è completamente esploso, frammentato e difficilmente percorribile da una parte all’altra. Creare un motivo di connessione”, aggiunge. Un luogo, però, dove provare anche a ritessere una società in pezzi. È uno spazio dove la scena creativa si può sviluppare, dove i palestinesi possono avere a disposizione strumenti fisici, macchinari e competenze che qui non si riescono a trovare, spingendo gli artisti a lasciare il Paese. Uno spazio dove si possono generare occasioni di lavoro, scambiare cultura, conoscenza, dove ospitare chi viene dall’estero, e dove ogni volta c’è qualcosa di nuovo: “Quasi su base quotidiana, abbiamo musicisti locali che vengono a fare [per esempio], una selezione di vinili dai nostri archivi o un progetto … adesso ne stiamo attivando uno legato a un archivio di cassette degli anni ’60, ‘70 che raccontano di fatto la storia palestinese, anche la musica della resistenza. In particolare, stiamo lavorando con Mo’min Swaitat, che negli anni ha dato vita al Majazz Project, accumulando un crescente archivio di rare cassette e vinili – molte acquisite da una ex etichetta discografica di Jenin -, contenenti da brani tradizionali da matrimonio a canzoni della resistenza, alle più diverse sperimentazioni sonore del secondo Novecento in e attorno alla Palestina.”.
Quando il Wonder Cabinet ha aperto, per tre giorni sono arrivate centinaia di persone da tutta la Palestina, tranne Gaza: “C’era tutta la comunità creativa, c’erano gli studenti, gli insegnanti, le organizzazioni internazionali tanto quanto i nostri vicini di casa con cui lavoriamo a stretto contatto”, racconta Ilaria, tradendo l’emozione per quell’apertura che è una scommessa perché qui si vive in “modalità di sopravvivenza” e si è perso il valore della creatività come “parte organica dell’individuo”. È un lusso, o al massimo intrattenimento. Ma c’è una cosa a cui serve l’arte: narrare se stessi, e nel narrare, affermare la propria identità.
Rawand è convinta la Palestina non sia rappresentata per ciò che realmente è. Ilaria crede che l’identità palestinese “sia in mano a chiunque, ma non ai palestinesi”, definita dall’essere altro, sempre nel rapporto con Israele. “La stessa interpretazione dell’artigianato, per esempio, è spesso folcloristica, nostalgica, impostata in maniera tale da soddisfare un pubblico occidentale. Ci si occupa poco di quello che è realmente a livello locale. Il punto è creare uno spazio perché la voce locale possa esprimersi, raccontare la propria storia e abbia una piattaforma che l’aiuti a far avanzare questa voce”, spiega. Uno spazio sicuro dove potersi esprimere liberamente, in una terra “sempre sotto scrutinio”.
Ora ogni cosa è serrata, in West Bank (Cisgiordania ndr.), chiusi i check point, blindato il campo profughi da cui viene chi lavora al centro di Betlemme. Ilaria potrebbe arrivare a Tel Aviv, mai poi la fermerebbe il muro che divide Israele dalla Palestina, da cui ancora non si può passare. “In questo momento non possiamo fisicamente essere presenti”, ma “non stiamo aspettando altro che di rientrare. Ho avuto ieri sera la notizia della cancellazione: sapevo sarebbe arrivata, ma ancora stavo sperando non arrivasse”. Ilaria è disposta a passare anche per Amman pur di tornare e riaprire.
Una fortuna, direbbe qualcuno, essere qui: “Il fatto di essere stata fortunata mi dà fastidio, perché già godo di un privilegio notevole da quelle parti, come avere un passaporto che mi ha consentito e mi consente di viaggiare, anche di poter rientrare quando la gente è fisicamente bloccata, o aver avuto l’occasione di venire qui, parlare della situazione, condividere questa esperienza quando avrebbe dovuto esserci anche la mia collega”.
Sospesi, tutti, attendono solo di tornare al lavoro. “Certo che voglio tornare”, afferma Rawand . “Continueremo il nostro lavoro … dobbiamo continuare”. C’è un nuovo progetto da portare avanti, una raccolta di brevi film in stop-motion. “È ora il momento per parlare”. Parlare del desiderio di restare vivi, di continuare a vivere “come ogni persona normale nel mondo”, in un spazio sicuro, dove poter esprimere la propria opinione, o andare a Nablus se si vuole, o a pregare nella moschea di al-Aqsa, o solo dormire tranquilli di notte.
“Il risultato della violenza è solo altra violenza”, sostiene Rawand. “L’arte è un linguaggio molto forte … L’arte può cambiare [le cose] … Noi resistiamo attraverso l’arte”.
Foto di copertina: Foto di Rob Laughter su Unsplash
Elena L. Pasquini
Giornalista, esperta di Africa, ma specializza nelle politiche di sviluppo internazionali e in quelle agricole globali. Ha pubblicato La meccanica della pace, il racconto di chi è riuscito a negoziare un accordo, a far cessare la violenza o a contribuire alla riconciliazione di due comunità in lotta.
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