Una mattina a Jenin

Scritto da in data Novembre 18, 2023

di Angelo Calianno

JENIN – E’ venerdì, giorno di festa nei paesi musulmani, nel campo di Jenin in Cisgiordania si cerca di sistemare quello che si può: si sgombrano le strade dalle macerie, si buttano giù i muri pericolanti. Il silenzio, surreale, è rotto solo dal muezzin e dalle maledizioni, lanciate da alcuni ragazzi, contro quello che è successo la  notte precedente. Il 16 novembre, nel pieno della notte, le forze armate israeliane dell’IDF (Israel Defence Forces) hanno perpetrato l’ennesimo raid nel campo profughi.

Intorno alle 23:00, i soldati israeliani sono arrivati con camion e jeep blindate. Hanno circondato il campo chiudendone tutti gli accessi principali. Hanno piazzato dei posti di blocco nel raggio di diversi km, nessuno poteva entrare o uscire ed è cominciata l’offensiva. Accompagnati da droni, i militari sono entrati con i bulldozer, hanno distrutto le strade principali insieme alle abitazioni che le costeggiavano. Sono cominciati così, i primi scontri a fuoco con i combattenti della resistenza, quasi tutti ragazzi molto giovani. I raid sono andati avanti fino alle 7 del mattino. Alla fine degli scontri, erano 3 i palestinesi uccisi, 15 i feriti di cui 4 in condizioni molto gravi.

Camminando per il campo, poche ore dopo l’assedio, si vedono le strade completamente rivoltate dalle ruspe. I muri delle case sono ricoperti da fori di proiettili. All’ interno delle abitazioni, con i vetri rotti, ci sono decine di involucri di granate a gas lacrimogeno esplose poche ore prima.

Dopo Gaza, il campo di Jenin è il più bersagliato da Israele. La ragione sta nel fatto che qui, dall’ inizio dell’occupazione, risiedono i combattenti più resilienti. Nessuno dei “fighters” di Jenin è affiliato con Hamas. Chi combatte in questa zona fa parte della Jihad Islamica, gruppo che, rispetto ad Hamas, non sposa particolari ideologie politiche, ma è focalizzato sulla lotta armata e la resistenza all’ avanzare dell’occupazione israeliana.

Il campo è un agglomerato di case e viottoli, nato nel 1953 nella periferia della città di Jenin. La maggior parte delle famiglie è arrivata qui da Haifa quando, il 23 aprile 1948, 5.000 soldati israeliani hanno deportato 80.000 palestinesi occupandone i territori. Questo luogo è oggi una piccola, poverissima, cittadina che conta circa 20.000 abitanti. Centinaia sono i poster e le fotografie appesi sui muri, fuori dai negozi di barbieri e caffè: sono i “martiri”, uomini e donne uccisi durante i raid israeliani.

Per loro, un nuovo piccolo cimitero è nato in questi giorni. È stato sistemato accanto a una delle piazze principali distrutte una settimana fa. In particolare, qui sono sepolti i combattenti rimasti uccisi negli ultimi mesi. Un ragazzino, seduto di fronte ad una delle tombe, ci racconta: “Sono venuto a salutare il mio amico. È stato ucciso la scorsa settimana in uno dei tanti attacchi dei militari”. Aveva appena 18 anni quando è morto.
Incastrato, tra i blocchi di cemento che delimitano l’area della sepoltura, c’è un diario dove gli amici scrivono i propri pensieri quando vengono qui. Un altro bambino ci mostra il buco lasciato da una delle granate sulla strada: “Un’esplosione ha fatto saltare le finestre di casa mia mentre guardavamo la televisione. Siamo stati tutti feriti da schegge e pezzi di vetro”.

Il campo ha anche un piccolo teatro, diventato famoso nel mondo come baluardo della cultura anche in situazioni così complicate: è il Freedom Theater. Mustafa Sheta, il coordinatore del teatro, racconta: “Gli attacchi sono diventati più aggressivi negli ultimi due anni e, in particolare, ancora più violenti dopo gli eventi del 7 ottobre. Ci chiamano la “piccola Gaza” perché questo è un luogo di resistenza. Non solo di resistenza armata, ognuno resiste con le armi che ha. Noi resistiamo con la cultura, portando spettacoli teatrali dove non si immaginerebbe mai. In scena portiamo classici come: Alice nel Paese delle Meraviglie o La Fattoria degli Animali. I testi vengono riadattati cercando di raccontare quello che accade in Palestina negli ultimi 70 anni. Anche noi siamo stati attaccati e pensa, durante uno spettacolo.  I soldati hanno cominciato a sparare e lanciare lacrimogeni –  dice mentre mi mostra i bossoli e quello che rimane delle granate – Durante l’attacco però, abbiamo continuato a recitare. All’ inizio siamo rimasti paralizzati, poi, ci siamo guardati tutti negli occhi, attori e pubblico e, abbiamo deciso di continuare. In quell’ istante, in quel momento, abbiamo fatto un atto di resistenza“.

Questo pomeriggio si terranno i funerali dei tre ragazzi uccisi la scorsa notte. Una ragazza porta una medaglietta con la foto di uno dei suoi fratelli, morto una settimana fa. “A volte i raid arrivano anche durante i funerali. Non ci lasciano nemmeno onorare i morti in pace. Gli attacchi ormai, sono quotidiani. Tutti i giorni i cieli sono sorvolati da droni. Tutti pensiamo che, quando avranno finito con Gaza, toccherà a noi. Ma la gente qui non si piegherà e non andrà via. Per noi, la dignità vale più della vita“.

Foto credits: Angelo Calianno

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