23 ottobre 2025 – Notiziario Mondo

Scritto da in data Ottobre 23, 2025

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  • La Corte Internazionale di Giustizia ordina a Israele di garantire i bisogni essenziali a Gaza. Il World Food Programe dichiara che gli aiuti alimentari per Gaza restano ben al di sotto del necessario
  • Trump cancella l’incontro di Budapest con Putin
  • Operazione USA colpisce imbarcazione nel Pacifico. Il presidente colombiano accusa la politica estera di Trump
  • Ritorno in UK di un migrante deportato in Francia
  • Tempesta tropicale Melissa: Haiti e Repubblica Dominicana in stato d’allerta
  • In India, arresti per aver detto “I Love Muhammad”

Questo e molto altro nel notiziatio di Radio Bullets – a cura di Stefania Cingia

 

Guerra Palestina-Israele

Israele è obbligato a garantire aiuti umanitari

Recuerdos de Hebrón. Al-Jalīl, Palestina.

La Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja ha stabilito che Israele, in quanto potenza occupante, deve garantire i bisogni fondamentali della popolazione di Gaza ed è obbligato a collaborare con le Nazioni Unite, anche facilitando l’ingresso degli aiuti umanitari, compresi quelli dell’UNRWA, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi.

Il presidente della Corte, Yuji Iwasawa, ha ricordato che Israele ha “l’obbligo di non usare la fame come metodo di guerra” e di assicurare “le forniture essenziali per la sopravvivenza” dei civili.

Il verdetto, approvato con 10 voti a 1, non ha però valore vincolante, ma ha un forte valore legale e politico.

Gli esperti sottolineano che questi giudizi stanno costruendo un dossier internazionale sempre più solido sulla responsabilità di Israele nei Territori occupati.

Israele, che non ha partecipato alle udienze ma ha inviato una memoria scritta di 38 pagine, nega qualsiasi violazione del diritto internazionale e definisce il procedimento “di parte e vergognoso”.

La Corte ha inoltre stabilito che Israele non ha fornito prove concrete a sostegno delle accuse secondo cui molti dipendenti dell’UNRWA sarebbero membri di Hamas o di altre fazioni armate.

Nonostante l’accordo di cessate il fuoco mediato dagli Stati Uniti lo scorso 10 ottobre, le violazioni continuano: raid israeliani, morti tra i palestinesi e forti restrizioni agli aiuti umanitari.

Intanto, all’Aja cresce la pressione diplomatica: il verdetto della Corte è visto come un ulteriore passo verso un possibile futuro processo di responsabilità internazionale per le azioni di Israele nei confronti della popolazione di Gaza, ma il procedimento aperto contro Israele per presunto genocidio, avviato dal Sudafrica lo scorso anno, rimane ancora senza una sentenza definitiva.

WFP: gli aiuti alimentari per Gaza restano ben al di sotto del necessario

Il Programma Alimentare Mondiale (WFP) delle Nazioni Unite denuncia che, nonostante un aumento delle forniture dopo la tregua mediata dagli Stati Uniti, gli aiuti che entrano a Gaza restano ben al di sotto dell’obiettivo giornaliero di 2.000 tonnellate.

Attualmente entrano circa 750 tonnellate di cibo al giorno, ma solo due valichi controllati da Israele – Karem Abu Salem (Kerem Shalom) e al-Karara (Kissufim) – sono operativi.
Il WFP chiede l’apertura di tutti i punti di accesso per evitare una nuova carestia, soprattutto nel nord della Striscia.

“Per riuscire a salvare vite e prevenire la fame dobbiamo usare ogni punto di frontiera disponibile”, ha dichiarato la portavoce Abeer Etefa da Ginevra, sottolineando che la tenuta del cessate il fuoco è “vitale”.

Il WFP ha ora 26 punti di distribuzione aperti (contro 5 di pochi giorni fa), ma l’obiettivo è 145.
Le scorte attuali bastano a sfamare mezzo milione di persone per due settimane, mentre molte famiglie sono costrette a razionare il cibo per paura che gli aiuti si interrompano di nuovo.

Il premier israeliano Netanyahu ha annunciato che il valico di Rafah con l’Egitto resterà chiuso finché Hamas non consegnerà i corpi dei prigionieri israeliani.

Nel frattempo, il gruppo palestinese ha dichiarato di aver restituito altri due corpi, per un totale di 13 dei 28 promessi.

Vance incontra Netanyahu a Gerusalemme

Il vicepresidente statunitense Vance ha incontrato ieri a Gerusalemme il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, affermando che c’è ancora “molto lavoro da fare” per consolidare la fragile tregua nella Striscia di Gaza.

La visita di Vance si inserisce in una serie di incontri ad alto livello tra funzionari americani e israeliani, volti a mantenere in vita l’accordo di cessate il fuoco mediato dal presidente statunitense Donald Trump.

Durante l’incontro, Netanyahu ha elogiato la partnership con Washington, definendola “senza precedenti” e affermando che la cooperazione tra Stati Uniti e Israele “sta cambiando il Medio Oriente e il mondo”.

Vance, da parte sua, ha sottolineato che la sfida ora è duplice: disarmare Hamas e al tempo stesso ricostruire Gaza, migliorando la vita dei civili senza permettere che il gruppo armato torni a minacciare Israele.

Ma nonostante l’ottimismo mostrato davanti alle telecamere, sullo sfondo restano tensioni politiche. Secondo il New York Times, a Washington cresce la preoccupazione che Netanyahu stia cercando di sabotare l’accordo

Negli ultimi giorni sono arrivati in Israele diversi esponenti dell’amministrazione americana, tra cui l’inviato per il Medio Oriente Steve Witkoff, Jared Kushner, e il segretario di Stato Marco Rubio, atteso nelle prossime ore.

La tregua, in vigore da 12 giorni, rappresenta la prima fase del cosiddetto “piano Trump per Gaza”, che prevede il disarmo di Hamas e la creazione di un comitato palestinese supervisionato a livello internazionale per la gestione del territorio, con il supporto di una forza di sicurezza mista.

Netanyahu ha però espresso forte contrarietà all’ipotesi di una partecipazione turca alla missione di sicurezza, dichiarando di avere “opinioni molto chiare” in merito.

Al termine dell’incontro, Vance ha visto anche il presidente israeliano Isaac Herzog, che ha definito la sua presenza in Israele “un altro mattone nella costruzione del futuro della pace”.

Vance conclude questo giovedì la missione, dopo una visita nella Città Vecchia di Gerusalemme.

 

Giordania condanna il piano israeliano di annessione della Cisgiordania

La Giordania ha condannato duramente la decisione del governo israeliano di dare approvazione preliminare a due progetti di legge che prevedono l’annessione della Cisgiordania occupata e il riconoscimento della sovranità israeliana su un insediamento illegale.

In una nota diffusa sul social X, il ministero degli Esteri giordano Ayman Safani ha definito la mossa “una palese violazione del diritto internazionale” e un atto che mina la soluzione dei due Stati e il diritto inalienabile del popolo palestinese all’autodeterminazione.

Il portavoce del ministero, Fouad Al-Majali, ha ribadito la “totale e ferma opposizione” del Regno di Giordania a qualsiasi tentativo di Israele di imporre la propria sovranità sui territori occupati, denunciando le politiche unilaterali e illegittime che violano le risoluzioni delle Nazioni Unite.

Al-Majali ha inoltre messo in guardia contro le continue violazioni dei luoghi santi islamici e cristiani a Gerusalemme, giudicandole illegali, e ha esortato la comunità internazionale a “costringere Israele a fermare l’escalation e le misure illegittime nella Cisgiordania occupata”.

 

Libano, raid e droni

Da Elena Pasquini, in diretta dal Libano – I giorni de Libano si susseguono, uno dopo l’altro, sempre uguali. Costante il rumore dei droni, immancabili i bombardamenti del Sud del Paese. Ogni volta, l’esercito israeliano giustifica gli attacchi che violano l’accordo sul cessate il fuoco firmato un anno fa, con la caccia agli uomini di Hezbollah e la distruzione delle infrastrutture con cui il Partito di Dio starebbe ricostruendo il suo arsenale.

“L’obiettivo è spaventarci”, mi hanno detto tutti coloro con cui ho parlato nella fascia di terra che dal fiume Litani, scende verso la Line Blu. “Non farci tornare, non permetterci di ricostruire”, raccontano.  Il rumore dei droni è incessante, vicinissimo, non permette di riposare la testa neppure un momento. Improvvisi, lunedì, si sono alzati in volo i caccia mentre un gruppo di uomini raccoglieva le ultime olive, quelle nei villaggi meno a rischio. Le altre nei terreni lungo la linea, le hanno lasciate lì. In tutto 8 raids alle periferie delle cittadine di Mahmoudiyah e Jarmaq. Ieri un drone ha colpito un motociclista nella città di Ain Qana, accusato da Israele di essere coinvolto nel trasporto di armi e di pianificare attentati terroristici. Sempre ieri droni sonori a Tiro e Naqoura. Attacchi che tendono i nervi una popolazione che sa quante volte a finirci in mezzo sono stati i civili, uomini, donne e bambini.

Si viaggia, sulle strade interne e tortuose del Sud, sempre pensando che la macchina o lo scooter che camminano davanti a noi potrebbero essere un bersaglio. Si prova a mantenere le distanze, quando si può, a non stare mai troppo vicini. E non ci si sposta mai di notte.

Questo è il Sud, con i nervi tesi, e macerie che si aggiungono a macerie. Cantiere, ruspe, camion pieni di breccia, che tentano di rimettere in piedi un pezzo di Libano sapendo, anche loro, di poter diventare in qualunque momento un obiettivo.

La politica libanese e internazionale non aggiunge nulla di buono a questo scenario, alimenta, semmai, i timori della gente di una nuova prossima escalation.

Hanno il sapore di una minaccia capace di spargere benzina sul fuoco le parole pronunciate a d’inizio settimana da Tom Barrack l’inviato speciale degli Stati Uniti per la Siria e il Libano, vicino ormai alla fine del suo mandato: “Se Beirut dovesse continuare a esitare, Israele potrebbe agire unilateralmente, con gravi conseguenze”, ha scritto in un lungo post su X. “Se Beirut non interviene, il braccio militare di Hezbollah dovrà inevitabilmente affrontare un duro scontro con Israele”, ha aggiunto. Immediata la replica di Naim Qassem, leader del Partito di Dio. ” La stabilità del Libano può essere raggiunta tenendo a freno Israele … Le minacce non ci toccano. Applicate l’accordo, visto che il Libano lo ha già applicato, e tutte le manovre e le pressioni sono una perdita di tempo”, ha detto.

 

Trump cancella l’incontro di Budapest con Putin

Colpo di scena nella diplomazia internazionale: il presidente statunitense Donald Trump ha annullato il vertice previsto a Budapest con Vladimir Putin, spiegando che “non sembrava il momento giusto”.

La decisione arriva dopo una telefonata preparatoria tra il segretario di Stato americano Marco Rubio e il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov, che non avrebbe portato a progressi concreti. “Non mi è sembrato che saremmo arrivati dove dovevamo arrivare,” ha detto Trump, aggiungendo che “forse in futuro” l’incontro si terrà.

Il summit era atteso come un possibile tentativo di negoziare una tregua nel conflitto in Ucraina, ma il presidente americano si è detto frustrato dai pochi risultati ottenuti nei colloqui con Mosca.

L’annuncio è arrivato durante l’incontro alla Casa Bianca con il segretario generale della NATO, Mark Rutte, che ha invece lodato Trump per il suo impegno diplomatico, definendo la sua leadership “determinante per riaprire un canale con la Russia”.

Rutte ha ribadito che non esiste al momento un piano di pace articolato, ma un obiettivo immediato: “fermare i combattimenti, stop where you are”, fermarsi dove si è.

Sul fronte militare, Trump ha escluso in modo categorico l’invio dei missili da crociera Tomahawk all’Ucraina, spiegando che si tratta di armi “troppo complesse” e che richiedono “almeno un anno di addestramento intensivo”.
“L’unico modo in cui un Tomahawk può essere lanciato è se lo facciamo noi,” ha dichiarato.

Una delusione per Kiev, che sperava di poter colpire obiettivi strategici all’interno della Russia. Il presidente Volodymyr Zelensky ha definito la decisione “un freno alla diplomazia”, ma ha confermato che il dialogo con Washington resta aperto.

Infine, Rutte ha accolto con favore le nuove sanzioni americane contro le principali compagnie petrolifere russe, affermando che “solo una pressione economica costante può spingere Putin a negoziare”.

Ritorno nel Regno Unito di un migrante deportato in Francia

Un migrante, precedentemente rimpatriato in Francia nell’ambito del nuovo accordo “one in, one out”, è tornato nel Regno Unito a bordo di una piccola imbarcazione. L’uomo è stato detenuto dalle autorità britanniche e il Home Office ha annunciato che sarà rispedito in Francia.

Il migrante ha dichiarato di essere tornato perché non si sentiva sicuro a Parigi: “Non avrei mai fatto ritorno nel Regno Unito se la Francia fosse stata sicura per me. Non osavo uscire, ero minacciato da trafficanti armati.”

Sotto il nuovo accordo bilaterale con la Francia, chi arriva in UK via piccole imbarcazioni può essere rimandato indietro, mentre un numero equivalente di richiedenti asilo con diritto di permanenza viene accolto dall’altro lato. Il Governo spera così di ridurre i pagamenti ai trafficanti e scoraggiare viaggi pericolosi. Il 24 settembre una famiglia di tre persone, con un bambino piccolo, è stata la prima ad arrivare nel Regno Unito nell’ambito del nuovo accordo tra Regno Unito e Francia.

Finora, nel 2025, sono oltre 36.000 gli arrivi via piccola barca, vicino al totale dell’intero 2024. La Home Secretary Shabana Mahmood ha definito i numeri “vergognosi” e ha sottolineato gli sforzi del governo: oltre 35.000 persone senza permesso di soggiorno rimosse finora.

Mahmood ha dichiarato: “Dobbiamo fare di più e più velocemente – rimuovere chi è qui illegalmente e fermare i migranti prima che affrontino traversate pericolose.”

 

Operazione USA colpisce imbarcazione nel Pacifico

Nel Pacifico orientale, un’operazione militare statunitense ha colpito e distrutto un’imbarcazione sospettata di traffico di droga.
Due persone sono rimaste uccise.

L’attacco segna un nuovo passo — e un’espansione — nella campagna antidroga lanciata dall’amministrazione Trump, che finora aveva concentrato le operazioni nel Mar dei Caraibi.

Secondo il segretario alla Difesa Pete Hegseth, il natante “era noto ai servizi d’intelligence come coinvolto nel traffico di narcotici” e “trasportava droga lungo una rotta nota del narcotraffico”.
Lo ha detto mercoledì, pubblicando anche un video di 30 secondi su X, in cui si vede la barca navigare prima di esplodere.

Ma nessuna prova concreta è stata fornita.

Dall’inizio della campagna, almeno sette raid sono stati condotti tra Caraibi e America Latina, con oltre trentadue morti.
Finora, la Casa Bianca ha rivelato pochi dettagli sul tipo e la quantità di stupefacenti effettivamente trovati.

Trump, interrogato nello Studio Ovale, ha difeso la legittimità delle operazioni dichiarando che “Abbiamo l’autorità legale per farlo”, e che “Ogni raid salva vite americane.”

Il presidente ha poi rilanciato: possibili attacchi mirati a terra in Venezuela, un’ulteriore escalation del conflitto.
Ha aggiunto che, se ciò accadesse, informerà il Congresso, “non perché obbligato, ma perché lo ritiene giusto”.

Le critiche non mancano: diversi esperti legali si chiedono perché venga impiegato l’esercito invece della Guardia Costiera, che è l’agenzia normalmente responsabile delle operazioni marittime antidroga.

Molti si domandano anche perché non siano state tentate intercettazioni non letali.

Il raid, rivelato per primo da CBS News, arriva mentre gli Stati Uniti rafforzano la presenza militare nella regione: cacciatorpediniere, jet F-35, un sottomarino nucleare e 6.500 soldati schierati tra Caraibi e Pacifico.

Ucciso pescatore colombiano scambiato per un “narcoterrorista” venezuelano

Le accuse verso questo tipo di politica estera non si placano. Il presidente colombiano Gustavo Petro ha denunciato che uno dei presunti “narcoterroristi” uccisi dai raid americani nel Mar dei Caraibi sarebbe in realtà un pescatore colombiano innocente, di nome Alejandro Carranza, senza alcun legame con il traffico di droga.

Secondo Petro, l’attacco — ordinato dal presidente Donald Trump lo scorso 15 settembre — è avvenuto nelle acque territoriali colombiane, e ha colpito un’imbarcazione in panne che aveva lanciato un segnale di soccorso a causa di un guasto al motore.

Washington, invece, sostiene che si trattasse di una barca “in acque internazionali” usata per trasportare narcotici, e che a bordo vi fossero tre “narcoterroristi venezuelani”.

Di fronte alle accuse di Bogotá, Trump non ha negato l’errore di identificazione: ha invece reagito insultando Petro, definendolo “un leader della droga” e minacciando di sospendere gli aiuti economici alla Colombia.

Il caso riaccende le critiche contro la nuova strategia antidroga di Trump, che prevede attacchi diretti contro sospetti trafficanti senza processo, una politica che giuristi e parlamentari definiscono illegale e pericolosa.

Il senatore Rand Paul ha ricordato che un quarto delle operazioni della Guardia Costiera americana non trova alcuna traccia di droga, segno che molti innocenti rischiano di essere colpiti.

Anche il mondo accademico ha espresso forte preoccupazione: per Gabor Rona della Cardozo Law School, la linea americana è “senza precedenti nel diritto internazionale”, mentre Geoffrey Corn, ex consigliere dell’esercito USA, ha commentato che “non si stanno spingendo i limiti della legge, li stanno strappando”.

Secondo l’ex ministro degli Esteri ecuadoriano Guillaume Long, oggi ricercatore al Center for Economic and Policy Research, dietro questa offensiva militare ci sarebbero obiettivi politici: la volontà della Casa Bianca di favorire un cambio di regime in Venezuela e di punire la Colombia per le posizioni filopalestinesi del governo Petro.

Il medico e attivista colombiano Manuel Rozental aggiunge che la cosiddetta “guerra alla droga” serve in realtà a mantenere il controllo economico e geopolitico degli Stati Uniti sulla regione.

Con almeno 32 morti in operazioni simili nelle ultime settimane, la crisi tra Washington e l’America Latina si approfondisce, mentre cresce l’allarme per una politica che, secondo i critici, trasforma la lotta alla droga in una guerra contro i civili.

 

Tempesta tropicale Melissa: Haiti e Repubblica Dominicana in stato d’allerta

La Tempesta Melissa sui Caraibi

La tempesta tropicale Melissa sta colpendo duramente i Caraibi, portando piogge torrenziali e rischio di gravi inondazioni su Haiti e Repubblica Dominicana.

Il Centro nazionale uragani degli Stati Uniti ha emesso un allarme uragano per il sud di Haiti, mentre sull’isola si registrano già allagamenti, frane e interruzioni della corrente elettrica. La tempesta, che si muove lentamente nel Mar dei Caraibi centrale, ha venti che soffiano fino a 80 chilometri orari e potrebbe trasformarsi in uragano nelle prossime 24 ore.

Gli esperti meteo avvertono che le piogge potrebbero raggiungere i 25 centimetri, con conseguenze potenzialmente catastrofiche per le aree più vulnerabili.

In Repubblica Dominicana, il presidente Luis Abinader ha ordinato la chiusura di scuole e uffici pubblici in dieci province, invitando la popolazione a mettersi in sicurezza e a evitare le zone a rischio di allagamento.

Intanto, anche Giamaica e Cuba restano sotto sorveglianza: il percorso della tempesta è ancora incerto e potrebbe cambiare direzione nelle prossime ore.

Gli abitanti di Haiti, già duramente provati da anni di crisi politica e disastri naturali, guardano con timore all’arrivo di Melissa, consapevoli della fragilità del territorio e delle infrastrutture.

Le autorità hanno invitato tutti a prepararsi al peggio, mentre la tempesta continua ad avanzare verso ovest, minacciando di trasformarsi nel prossimo grande uragano della stagione caraibica.

 

Brasile, via libera per Petrobras in Amazzonia

Nelle acque profonde al largo della costa del Brasile settentrionale, nella zona conosciuta come Foz do Amazonas, la Petrobras ha ricevuto il via libera per iniziare una nuova fase di esplorazione petrolifera.

La decisione dell’Ibama, l’istituto brasiliano per l’ambiente, ha riacceso un acceso dibattito tra ambientalisti e sostenitori dell’industria energetica.

La licenza concessa non autorizza ancora l’estrazione di petrolio, ma permette alla compagnia di perforare un primo pozzo esplorativo, a circa 175 chilometri dalla costa dell’Amapá e 500 chilometri dalla foce del Rio delle Amazzoni.
L’obiettivo: capire se nel sottosuolo ci siano giacimenti con potenziale commerciale.

Secondo Petrobras, la perforazione comincerà subito e durerà circa cinque mesi.
Solo dopo quella fase si saprà se la regione nasconde davvero un tesoro energetico — o se i rischi ambientali avranno superato i benefici economici.

La Margem Equatorial, di cui la Foz do Amazonas fa parte, è considerata la nuova frontiera del petrolio brasiliano.

Il ministro dell’Energia, Alexandre Silveira, l’ha definita “il futuro della sovranità energetica nazionale”.

Le sue parole riflettono l’ambizione di trasformare questa fascia costiera, che si estende fino al Rio Grande do Norte, in un nuovo “pré-sal”, il gigantesco bacino che negli ultimi anni ha reso il Brasile un attore globale nel settore del greggio.

Ma le promesse di crescita si scontrano con la paura di una catastrofe ecologica.

Organizzazioni ambientali denunciano i rischi per uno degli ecosistemi marini più delicati del pianeta — un’area dove si incontrano l’oceano Atlantico e l’Amazzonia, ricca di coralli, specie migratorie e biodiversità unica.

Secondo gli esperti governativi, le potenziali riserve di 10 miliardi di barili potrebbero garantire al Paese autonomia energetica fino al 2030, e generare investimenti fino a 300 miliardi di reais, con un ritorno economico stimato in oltre un trilione nelle prossime decadi.

La perforazione nella Foz do Amazonas è appena all’inizio, ma il suo significato va ben oltre i confini del Brasile:
rappresenta una sfida globale tra futuro energetico e tutela ambientale, tra sovranità nazionale e responsabilità planetaria.

Ok all’estradizione della deputata brasiliana Zambellli

In Italia, il Pubblico Ministero ha espresso parere favorevole all’estradizione della deputata brasiliana Carla Zambelli, esponente del Partito Liberale, ricercata in Brasile dopo una condanna alla prigione da parte della Corte Suprema Federale.
Lo riferisce l’Avvocatura Generale dell’Unione (AGU).

Zambelli è detenuta dal 29 luglio in un carcere femminile nei pressi di Roma, dopo che la giustizia italiana ha ravvisato un “grave rischio di fuga”.
La decisione finale ora spetta ai giudici italiani, e successivamente al governo di Roma, che avrà l’ultima parola sull’estradizione.

In Brasile, la deputata è stata condannata dal Supremo Tribunale Federale per un’invasione ai sistemi informatici del Consiglio Nazionale di Giustizia (CNJ).
Poco prima che la sentenza diventasse definitiva, Zambelli era fuggita dal Paese, entrando così nella lista rossa dell’Interpol.

Secondo le autorità italiane, l’arresto è avvenuto a fine luglio nei dintorni di Roma, dove la parlamentare viveva da alcune settimane sotto falso nome.
Da allora, si trova nella carcere penitenziario femminile di Rebibbia, in attesa della decisione sull’estradizione.

Tragedia in Uganda: maxi-incidente sull’autostrada Kampala-Gulu

In Uganda, almeno 46 persone sono morte in un terribile incidente stradale avvenuto nelle prime ore del mattino lungo la Kampala–Gulu Highway, una delle arterie più trafficate del Paese.

Secondo la polizia ugandese, due autobus che viaggiavano in direzioni opposte si sarebbero scontrati durante un sorpasso azzardato, provocando un maxi-tamponamento che ha coinvolto anche un camion e un’auto.

Le immagini dal distretto di Kiryandongo, circa 200 chilometri a nord della capitale Kampala, mostrano mezzi completamente distrutti e squadre di soccorso impegnate a estrarre i corpi dalle lamiere.

La Croce Rossa ugandese ha riferito di aver salvato diverse persone grazie a un intervento rapido sul posto, mentre il presidente Yoweri Museveni ha espresso profondo cordoglio e annunciato aiuti economici alle famiglie delle vittime e ai feriti.

Le autorità stradali ricordano che la guida pericolosa e i sorpassi imprudenti restano tra le principali cause di incidenti nel Paese.

 

Mali, la miniera d’oro Loulo-Gounkoto riprende le attività sotto controllo statale

Miniera d’oro

Dopo oltre nove mesi di sospensione, la miniera d’oro Loulo-Gounkoto in Mali della Barrick Gold Corporation ha ripreso le operazioni. La chiusura, avvenuta a gennaio, era stata causata da tensioni con il governo militare del Mali e dispute su esportazioni e detenzioni di dipendenti.

Un tribunale maliano ha nominato a giugno Soumana Makadji, ex ministro della salute e contabile, come amministratore della miniera per sei mesi. L’obiettivo dichiarato: riavviare la produzione, pagare i lavoratori e produrre oro per l’economia nazionale.

La produzione della miniera lo scorso anno era stata di 723.000 once d’oro. La temporanea sospensione aveva impedito a Barrick di sfruttare il rally dei prezzi dell’oro del 2025.

Barrick ha avviato procedimenti arbitrali contro il Mali e fatto ricorso presso il tribunale di Bamako, contestando la detenzione di quattro dipendenti e negando le accuse di riciclaggio e finanziamento del terrorismo. Inoltre, agenti governativi hanno sequestrato una tonnellata di oro dal sito, mentre la società attende aggiornamenti sullo stato del metallo.

La disputa ruota attorno a presunte tasse arretrate e nuove leggi minerarie, con Barrick che sostiene di avere accordi vincolanti a tutela delle sue filiali locali.

La Barrick Gold Corporation è una delle più grandi compagnie minerarie al mondo, specializzata principalmente nell’estrazione dell’oro e in misura minore del rame. E’ stata fondata nel 1983 in Canada, con sede principale a Toronto. È quotata alla Borsa di Toronto (TSX) e a New York (NYSE).

In India, arresti per aver detto “I Love Muhammad”

Un numero crescente di musulmani in India sta affrontando accuse di sedizione semplicemente per aver espresso pubblicamente il proprio amore per il Profeta Muhammad. La misura, basata su una legge risalente al periodo coloniale, ha scatenato preoccupazioni internazionali sul rispetto della libertà religiosa e della libertà di parola.

Le autorità invocano la Sezione 124A del Codice Penale indiano, che punisce la sedizione, sostenendo che lo slogan potrebbe minacciare l’ordine pubblico. In alcuni casi, viene citata anche la Sezione 66A della legge informatica, formalmente abrogata dalla Corte Suprema, ma ancora usata per perseguire messaggi online considerati “offensivi”. Esperti legali denunciano un uso distorto delle norme, originariamente concepite per la sicurezza nazionale.

I leader musulmani riferiscono di un effetto intimidatorio diffuso, con molti cittadini che temono di esprimere la propria fede pubblicamente o online. Questa atmosfera di autocensura forzata minaccia di erodere il tessuto laico e pluralista del paese.

Il governo sostiene che le misure servono a mantenere l’ordine pubblico e prevenire potenziali scontri tra comunità. Secondo le autorità, lo slogan potrebbe essere interpretato in alcuni contesti come provocatorio, giustificando interventi preventivi.

Organizzazioni per i diritti umani e difensori delle libertà civili avvertono che questo trend ha implicazioni oltre la comunità musulmana, colpendo la libertà di espressione e mettendo a rischio il principio di laicità sancito dalla Costituzione indiana.

Mentre aumentano le accuse contro chi manifesta il proprio amore per il Profeta, l’India si trova a un crocevia delicato tra sicurezza dello Stato e libertà individuale, con la sua identità laica e i diritti fondamentali dei cittadini in gioco.

 

23 indiani salvati da una petroliera in fiamme al largo dello Yemen

In mezzo alle onde del Mar Rosso, al largo della costa dello Yemen, la tranquillità della navigazione è stata spezzata da un’esplosione. Era il MV Falcon, una petroliera camerunense completamente carica di GPL, che improvvisamente prendeva fuoco mentre procedeva verso Djibouti.

A bordo, 26 membri dell’equipaggio – tra cui 23 indiani – si sono trovati di colpo intrappolati in una situazione estrema. Il panico si è mescolato al fumo e al calore delle fiamme, mentre il rischio di una nuova esplosione rendeva ogni movimento pericoloso.

La chiamata d’emergenza è stata captata da EUNAVFOR ASPIDES, l’unità europea dedicata a proteggere i civili in transito nel Golfo di Aden e nel Mar Rosso. In poche ore, sotto la guida del Contrammiraglio Andrea Quondamatteo, la rete di soccorso si è mossa come un’orchestra sincronizzata: navi di supporto hanno individuato il Falcon e, con grande precisione, hanno tratto in salvo 24 membri dell’equipaggio – 23 indiani e un ucraino.

La petroliera, ancora pericolosamente carica di gas, è stata scortata fino al porto di Djibouti, dove i sopravvissuti sono stati consegnati alle autorità locali. Due membri dell’equipaggio, purtroppo, risultano ancora dispersi, mentre le autorità marittime avvertono: chiunque naviga in zona deve mantenere una distanza di sicurezza.

 

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