26 maggio 2025 – Notiziario Mondo

Scritto da in data Maggio 26, 2025

  • Gaza:  Israele controlla oltre il 77% del territorio
  • Venezuela al voto, ma l’astensione rischia di svuotare le urne.
  • L’Arabia Saudita apre (un po’) all’alcol per i turisti: rivoluzione o facciata?
  • Zambia: il presidente Hichilema invoca unità africana e riforme globali nel giorno della Libertà.
  • Iraq senz’acqua: le riserve idriche al minimo da 80 anni

Questo e molto altro nel notiziario di Radio Bullets a cura di Barbara Schiavulli

Israele e Palestina

Le forze armate israeliane hanno preso il controllo di oltre 77% della Striscia di Gaza, secondo quanto dichiarato domenica dall’Ufficio stampa del governo di Gaza. Il dato è frutto di “analisi verificate e dati di campo”, e rappresenta l’occupazione più estesa dall’inizio dell’offensiva nell’ottobre 2023.

Il controllo sarebbe stato ottenuto tramite offensive di terra, presidi in aree residenziali e l’imposizione di evacuazioni forzate o il blocco dell’accesso ai territori palestinesi con il fuoco dei tank e dei droni.

Le autorità di Gaza hanno denunciato apertamente il piano israeliano come un progetto di “pulizia etnica, genocidio sistematico e colonialismo di insediamento forzato”, sostenuto da un assedio totale e da una guerra che colpisce civili e infrastrutture. L’ufficio accusa apertamente Israele e i suoi alleati occidentali — tra cui Stati Uniti, Regno Unito, Germania e Francia — di complicità nel crimine di genocidio.

Secondo il quotidiano israeliano Israel Hayom, l’esercito prevede di consolidare il controllo sul 70-75% della Striscia entro tre mesi, come parte di una campagna militare intensificata.

A oggi, secondo fonti palestinesi, oltre 53.900 persone sono state uccise a Gaza, la maggior parte donne e bambini.

■ GAZA: La protezione civile palestinese afferma che 13 persone sono state uccise e 21 ferite nel bombardamento stanotte di una scuola della città di Gaza da parte dell’esercito israeliano.

Si tratta dell’istituto ‘Fahmi Aljarjaoui’, nel quartiere di Aldaraj.

Il Ministero della Salute di Gaza, controllato da Hamas, ha riferito che 38 palestinesi sono stati uccisi domenica negli attacchi israeliani .

Tra loro ci sono anche due membri dello staff del Comitato Internazionale della Croce Rossa sono stati uccisi ieri in un attacco alla loro abitazione a Khan Yunis: lo ha dichiarato il CICR su X.

Venerdì nove fratelli di età inferiore ai 12 anni figli di una pediatra sono stati uccisi in un attacco israeliano alla loro casa a Khan Yunis.

La casa bombardata si trovava al di fuori dell’area interessata dall’ultimo ordine di evacuazione delle IDF, ma rientra in un precedente ordine del 13 aprile.

Poiché gli ordini di evacuazione non scadono, le IDF la consideravano ancora una zona evacuata.

La scorsa settimana, le Nazioni Unite hanno dichiarato che oltre l’80% della striscia di Gaza è soggetto a un ordine di evacuazione o è sotto diretto controllo militare .

Le autorità svizzere hanno dichiarato di stare valutando l’opportunità di aprire un’indagine legale sulle attività della Gaza Humanitarian Foundation , un’organizzazione no-profit recentemente istituita e sostenuta dagli Stati Uniti che si occupa di supervisionare la distribuzione degli aiuti nella Striscia.

 La decisione arriva dopo che una ONG svizzera ha richiesto un’indagine sul piano di aiuti della GHF, a cui l’ONU si è opposta, affermando che non è imparziale né neutrale e che costringe a ulteriori sfollamenti ed espone migliaia di persone a pericoli.

Il GHF, che ha affermato di sperare di iniziare a lavorare a Gaza entro la fine di maggio, ha dichiarato alla Reuters di ” aderire rigorosamente ” ai principi umanitari e che non avrebbe sostenuto alcuna forma di trasferimento forzato di civili.

La Gaza Humanitarian Foundation raccoglie fondi per SRS , un’oscura società incaricata dal segretario militare di Netanyahu di coordinare le operazioni umanitarie a Gaza.

L’ufficio del Primo Ministro Netanyahu ha scelto SRS senza una gara d’appalto o una procedura adeguata e all’insaputa dell’establishment della difesa israeliano , secondo quanto appreso da Haaretz .

SRS non ha esperienza in aiuti umanitari e, pur presentandosi come americana, è sostenuta da personalità israeliane, tra cui imprenditori e riservisti delle IDF.

E ieri sera, il direttore della nuova fondazione umanitaria si è dimesso con effetto immediato.

Jake Wood, direttore esecutivo della Gaza Humanitarian Foundation (Ghf), ha spiegato di ritenere che non fosse possibile attuare il piano dell’organizzazione “rispettando rigorosamente i principi umanitari di umanità, neutralità, imparzialità e indipendenza”.

■ OSTAGGI/CESSATE IL FUOCO: Yehuda Cohen, padre dell’ostaggio Nimrod, è intervenuto sabato a una manifestazione a Tel Aviv per chiedere un accordo sulla liberazione degli ostaggi , affermando che “il fatto che le famiglie degli ostaggi abbiano bisogno del presidente Trump e lo considerino l’unico in grado di riportare indietro i loro cari è una vergogna “.

Cohen, che la scorsa settimana ha incontrato l’inviato speciale degli Stati Uniti per il Medio Oriente Steve Witkoff e l’inviato speciale per gli ostaggi Adam Boehler, ha affermato che ” questa è una guerra che serve solo a Netanyahu e ai suoi partner “.

■ ISRAELE: Il Capitano Ron Feiner (in convalescenza) ha iniziato a scontare la sua pena detentiva di 20 giorni dopo essersi rifiutato di partecipare all’offensiva delle IDF a Gaza.

Feiner, 26 anni, comandante di plotone di fanteria che ha completato 270 giorni di servizio di riserva dal 7 ottobre 2023, ha dichiarato di essere “sconvolto dalla guerra senza fine a Gaza, dall’abbandono degli ostaggi e dalla morte incessante di innocenti.

Non posso eticamente continuare a prestare servizio se non ci sarà un cambiamento. La prigione non metterà a tacere né scoraggerà né me né i miei commilitoni”.

Venerdì, nel cuore della notte, gli agenti della polizia israeliana hanno fatto visita alle abitazioni di tre manifestanti contro la guerra e hanno chiesto loro se avevano intenzione di partecipare a un’altra protesta il giorno seguente , nonostante i loro arresti domiciliari fossero già scaduti.

Gli avvocati degli attivisti hanno affermato che queste visite sono una forma di intimidazione volta a scoraggiare il dissenso in tempo di guerra.

SPAGNA: Domenica, a Madrid, si è riunito il cosiddetto Gruppo di Madrid (G5+), un’alleanza di 20 Paesi europei e arabi, con un obiettivo chiaro: esercitare pressione su Israele per fermare l’offensiva su Gaza e rilanciare la soluzione dei due Stati.

“Un’intera popolazione sotto assedio”, ha detto il ministro degli Esteri spagnolo José Manuel Albares, parlando di Gaza come di una “ferita aperta dell’umanità”.

Albares ha anche definito il silenzio internazionale “complice del massacro” e ha annunciato una proposta formale per il riconoscimento dello Stato di Palestina: “Non contro Israele, ma a favore della pace”.

Il ministro ha inoltre suggerito che l’Unione Europea sospenda l’accordo con Israele se l’offensiva a Gaza non si fermerà. Il blocco degli aiuti — che dura da quasi tre mesi — ha sollevato allarmi globali per il rischio concreto di carestia.

Il contesto:
Questo è il quinto incontro del gruppo diplomatico, in preparazione alla conferenza ONU sulla soluzione a due Stati prevista a New York a metà giugno, promossa da Francia e Arabia Saudita. Interessante notare che la presenza dei paesi europei, è raddoppiata rispetto all’incontro precedente.

Il primo ministro palestinese Mohammad Mustafa ha auspicato un ruolo più incisivo degli Stati Uniti: “Apprezziamo i tentativi di cessate il fuoco, ma serve un impegno più forte per portare stabilità nella regione”.

 MALESIA: Il ministro degli Esteri malese, Mohamad Hasan, ha condannato con fermezza le “atrocità” in corso nella Striscia di Gaza, accusando la comunità internazionale di indifferenza e doppi standard verso il popolo palestinese.

Le sue parole arrivano durante l’incontro con gli omologhi dell’Associazione delle Nazioni del Sudest asiatico (Asean), alla vigilia del vertice previsto a Kuala Lumpur.

“Queste atrocità – ha dichiarato Mohamad – sono il risultato diretto dell’erosione del sacro diritto internazionale. L’Asean non può rimanere in silenzio.”

La Malesia, che attualmente detiene la presidenza di turno dell’Asean, non intrattiene relazioni diplomatiche con Israele ed è uno dei Paesi del Sudest asiatico più attivi nel sostegno alla causa palestinese: dal 7 ottobre ha fornito oltre 10 milioni di dollari in aiuti umanitari a Gaza.

Iran

L’Iran ha convocato l’incaricato d’affari francese a Teheran in risposta a dichiarazioni ritenute “offensive” da parte del ministro degli Esteri francese, Jean-Noël Barrot. Il motivo dello scontro? Gli onori tributati al regista dissidente iraniano Jafar Panahi al Festival di Cannes.

Barrot, in un messaggio pubblicato su X, ha elogiato la Palma d’Oro come “un grido contro l’oppressione del regime iraniano”. Parole che hanno fatto infuriare le autorità iraniane, che le hanno bollate come “accuse infondate” e hanno convocato il rappresentante francese per esprimere la loro protesta formale.

La libertà artistica è ancora una linea del fronte. Che un premio cinematografico possa scatenare una crisi diplomatica la dice lunga su quanto un’immagine, un film, una voce dissidente possano fare paura.

Se la cultura irrita un regime, significa che sta colpendo nel segno.

Iraq

Le riserve d’acqua in Iraq sono scese al livello più basso degli ultimi 80 anni. A dirlo è il portavoce del Ministero delle Risorse Idriche, Khaled Shamal, che ha lanciato l’allarme: “Dovremmo iniziare l’estate con almeno 18 miliardi di metri cubi d’acqua, ne abbiamo appena 10.”

Il motivo? Un mix letale: cambiamento climatico, stagioni piovose sempre più deboli, temperature in aumento e, soprattutto, la drastica riduzione del flusso dei fiumi Tigri ed Eufrate, causata anche dalle dighe costruite a monte da Turchia e Iran. Oggi l’Iraq riceve meno del 40% della sua quota fluviale storica.

Il Paese, che conta 46 milioni di abitanti, è già tra i cinque più vulnerabili al cambiamento climatico secondo le Nazioni Unite.

La siccità sta costringendo migliaia di agricoltori ad abbandonare le terre e le autorità sono state costrette a ridurre drasticamente le coltivazioni per garantire acqua potabile.

Nel 2023 si coltivavano 2,5 milioni di dunam (625.000 ettari). Quest’anno si punterà a salvare solo 1,5 milioni di dunam (375.000 ettari) tra zone verdi e produttive.

Non mancano le tensioni diplomatiche: la Turchia ha spinto Baghdad ad adottare un piano più efficiente di gestione delle acque. Un accordo decennale tra i due Paesi è stato firmato nel 2024 per affrontare insieme la crisi idrica.

L’Iraq, culla della civiltà mesopotamica, oggi rischia di diventare una terra sterile. I suoi fiumi millenari, un tempo fonte di vita, stanno morendo di sete. Il futuro si gioca tra diplomazia, gestione sostenibile e una corsa contro il tempo. Ma senza acqua, anche la pace evapora.

Arabia Saudita

A partire dal 2026, i turisti stranieri potranno bere vino, birra e sidro in 600 destinazioni turistiche selezionate in Arabia Saudita, in quella che sarà la prima legalizzazione limitata dell’alcol dal 1950.

Restano vietati i superalcolici sopra i 20 gradi e, ovviamente, resta il divieto totale per i cittadini sauditi musulmani, con pene severe.

L’annuncio segna un nuovo passo del piano Vision 2030 del principe ereditario Mohammad bin Salman, che punta a trasformare il regno in un hub globale del turismo e a diversificare l’economia, troppo dipendente dal petrolio.

La piattaforma TOURISE, lanciata la scorsa settimana, ne è l’emblema: promuove innovazione, sostenibilità e apertura al mondo, con nomi di peso nel settore come Cirque du Soleil e Heathrow.

Nel 2023 l’Arabia Saudita ha superato il suo obiettivo turistico decennale in soli quattro anni, con oltre 100 milioni di visite, soprattutto interne. Nel 2024 i visitatori stranieri sono stati 30 milioni. Con attrazioni come Six Flags, Formula 1, la lega di golf LIV, e in vista del Mondiale FIFA 2034, il regno sta puntando tutto sullo “spettacolo”.

Ma attenzione alla regia: lo stesso governo ha già chiarito che durante i Mondiali l’alcol resterà vietato negli stadi, e molte delle riforme, come l’apertura alle donne o la libertà economica, non toccano i nodi centrali dei diritti umani.

La Freedom House colloca l’Arabia Saudita all’ottavo posto tra i Paesi più repressivi al mondo, con nessuna elezione a livello nazionale, scarsa libertà di espressione e tassi di esecuzioni elevatissimi.

Sullo sfondo, si rafforzano i legami con gli Stati Uniti: relazioni riallacciate dopo la visita di Trump, cooperazione militare nel Golfo, intese con la NASA e condanna ufficiale dell’omicidio di due dipendenti dell’ambasciata israeliana a Washington.

Zambia

Nel giorno in cui l’Africa celebra il 62° anniversario della fondazione dell’Organizzazione dell’Unità Africana, il presidente zambiano Hakainde Hichilema rilancia un appello chiaro: “Dobbiamo zittire le armi e investire nella pace. L’instabilità ovunque in Africa è instabilità per tutti.”

In un messaggio pubblicato su Facebook, Hichilema ha ricordato i padri fondatori del panafricanismo: da Kenneth Kaunda a Julius Nyerere, da Kwame Nkrumah. Leader che hanno sognato un continente indipendente, unito e solidale. E oggi, dice, quel sogno tocca a noi portarlo avanti.

Serve una nuova stagione di crescita economica inclusiva, basata sulla trasparenza, sulla buona gestione delle risorse pubbliche e su politiche che diano davvero spazio ai giovani e alle donne — “la spina dorsale del futuro africano”, li ha definiti.

Ma non basta guardarsi dentro: Hichilema chiede anche un cambiamento globale. Riforme profonde nei sistemi finanziari internazionali, che oggi ancora penalizzano l’Africa e ne bloccano lo sviluppo.

“È tempo che il continente definisca da sé il proprio cammino verso uno sviluppo sostenibile, senza più subire disuguaglianze imposte dall’esterno.”

Unione Europea

Il presidente Donald Trump ha dichiarato domenica che gli Stati Uniti rinvieranno l’applicazione di una tariffa del 50% sui beni provenienti dall’Unione Europea dal 1° giugno al 9 luglio per guadagnare tempo nei negoziati con l’Unione.

L’accordo è stato raggiunto dopo una telefonata avvenuta domenica con Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, che aveva dichiarato a Trump di “voler avviare negoziati seri”, stando a quanto riferito dal presidente degli Stati Uniti.

Russia e Ucraina

Istanbul potrebbe ospitare il prossimo round di colloqui diretti tra Russia e Ucraina. Lo riferisce una fonte anonima all’agenzia russa Tass, secondo cui la città turca è al momento “l’opzione più probabile”.

Scartata invece l’ipotesi del Vaticano, escluso per “diversi motivi, inclusi quelli logistici”. La fonte ha aggiunto che i dettagli saranno annunciati a breve.

La diplomazia cerca casa. E ancora una volta guarda a Istanbul, snodo geopolitico dove Oriente e Occidente si incrociano. Non è solo una questione di logistica: è simbolica. Ma la vera domanda resta un’altra — se oltre al luogo, esiste anche la volontà.

Duro messaggio del presidente ucraino Volodymyr Zelensky dopo l’attacco russo della scorsa notte, che ha causato 12 vittime. In un post su Telegram, Zelensky ha chiesto nuove sanzioni contro Mosca e una maggiore pressione internazionale.

“Ogni attacco terroristico russo di questo tipo è motivo sufficiente per nuove sanzioni”, ha scritto, accusando la Russia di voler “prolungare la guerra” e di “uccidere ogni giorno”.

Poi un affondo contro l’inazione globale: “Il mondo può anche essere in vacanza, ma la guerra continua, indipendentemente dai fine settimana e dai giorni feriali.

Questo non può essere ignorato. Il silenzio dell’America e di altri Paesi non fa che incoraggiare Putin.”

Nella notte tra sabato e domenica, la Russia ha lanciato un massiccio attacco aereo sull’Ucraina, nonostante la conclusione del più ampio scambio di prigionieri dall’inizio dell’invasione.

Secondo l’aeronautica ucraina, Mosca ha impiegato 367 “veicoli d’attacco aereo”, inclusi 9 missili balistici Iskander, 56 missili da crociera e 298 droni kamikaze. Le difese ucraine sono riuscite a intercettare 45 missili da crociera e 266 droni.

Le esplosioni hanno colpito 22 località in tutto il Paese. Il bilancio ufficiale è di 18 morti, tra cui tre bambini, e 85 feriti. Oltre 80 edifici residenziali danneggiati, incendi, distruzione. A Kyiv, è stato colpito anche il dormitorio della facoltà di storia dell’università.

“Oggi i soccorritori hanno lavorato in più di 30 città e villaggi,” ha scritto il presidente ucraino Volodymyr Zelensky su Telegram. “Questi attacchi sono deliberati, contro città ordinarie, contro persone innocenti. E continuano ogni giorno.”

La Russia ha rivendicato gli attacchi definendoli “colpi di precisione su obiettivi militari”, ma la realtà sul campo mostra vittime civili e strutture civili distrutte. Anche la Polonia ha fatto decollare i suoi jet per monitorare l’attività aerea russa ai confini della NATO.

Nel frattempo, si è concluso con successo lo scambio di circa 1.000 prigionieri tra Kiev e Mosca, il più ampio in tre anni di guerra. Ma nemmeno questo gesto umanitario è bastato a frenare la violenza.

“Il mondo può prendersi una pausa, ma la guerra continua. Ogni attacco è una ragione in più per nuove sanzioni. Il silenzio degli Stati Uniti e di altri Paesi incoraggia Putin. Serve pressione, serve forza, serve determinazione.”

I negoziati di pace mediati dagli USA sotto la presidenza Trump non hanno portato risultati.

Kiev insiste su un cessate il fuoco di 30 giorni come base per il dialogo, ma rifiuta qualunque concessione territoriale, mentre Mosca continua a chiedere l’annessione di quattro regioni ucraine, la Crimea, la “denazificazione” del Paese e l’esclusione permanente dalla NATO.

Donald Trump torna a parlare della guerra in Ucraina, e lo fa — come sempre — a modo suo. Sul suo social Truth, il presidente USA spara a zero: “Putin è impazzito. Sta uccidendo molte persone. Missili e droni contro le città per nessuna ragione”. Poi precisa: “Ho sempre avuto un buon rapporto con lui, ma qualcosa è cambiato”.
Secondo Trump, il tentativo di conquistare tutta l’Ucraina porterà alla “caduta della Russia”.

Non risparmia neanche Volodymyr Zelensky: “Quello che esce dalla sua bocca crea solo problemi. Non mi piace, è meglio che smetta”, ha dichiarato. E, ovviamente, assolve sé stesso: “Questa è la guerra di Zelensky, Putin e Biden. Se fossi stato presidente, non sarebbe mai iniziata. Io sto solo cercando di porvi fine”.

Venezuela

Domenica i cittadini venezuelani sono stati chiamati alle urne per eleggere parlamentari, governatori e funzionari locali, ma l’aria nelle strade era tutt’altro che da “festa democratica”. A Caracas, in molte sezioni elettorali i soldati erano più numerosi dei votanti. Nessuna fila, nessuna attesa. Solo il silenzio e la disillusione.

Le elezioni – le prime con ampia partecipazione consentita dal contestato voto presidenziale del 2023, che Maduro ha rivendicato nonostante prove credibili di brogli – sono avvenute in un clima di forti tensioni: appena due giorni prima, il governo ha arrestato decine di oppositori, tra cui un leader di rilievo, accusandoli di voler sabotare il voto.

Si sono tenute elezioni anche in un territorio che non gli appartiene: l’Essequibo, una vasta e ricchissima area contesa, ma internazionalmente riconosciuta come parte della Guyana.

Il presidente Nicolás Maduro, in pieno stile autocratico, sembra voler usare il voto per rafforzare la sua immagine all’estero e recuperare consenso interno in una nazione logorata dalla crisi — e da un esercito sempre meno leale.

Il contenzioso risale al 1899, quando un tribunale arbitrale di Parigi assegnò la regione alla Guyana britannica. Per molti venezuelani, però, quella decisione fu “viziata da accordi segreti” e mai accettata.

Una mossa ad alto rischio:
La Corte Internazionale di Giustizia aveva chiesto a Caracas di astenersi dal procedere con le elezioni nell’Essequibo. Ma Maduro ha ignorato l’ordine e dichiarato la Corte “priva di giurisdizione”.

La Guyana, dal canto suo, ha avvertito che chiunque parteciperà alle elezioni sul suo territorio sarà arrestato.

Secondo un sondaggio Delphos, solo il 15,9% degli aventi diritto aveva intenzione di votare. La stragrande maggioranza di loro ha dichiarato che avrebbe scelto candidati del partito di governo, il PSUV.

Molti venezuelani, come Carlos León, un camionista di Caracas, hanno scelto il boicottaggio: “Non credo nell’autorità elettorale. Non rispetteranno il voto. Nessuno dimentica cosa è successo alle presidenziali.”

Altri sono andati alle urne per obbligo, per paura di perdere lavoro o sussidi statali: “Dobbiamo mandare la foto per dimostrare che abbiamo votato,” racconta Miguel Otero, dipendente statale.

Il voto in Venezuela si apre sotto il segno della sfiducia. In un Paese segnato da crisi economica, repressione politica e istituzioni delegittimate, l’urna non è più simbolo di partecipazione, ma riflesso del disincanto.

Bangladesh

Dopo due settimane di agitazione, i dipendenti dell’autorità fiscale del Bangladesh hanno sospeso lo sciopero parziale domenica, dopo che l’attuale governo di transizione ha promesso di ascoltare le loro richieste.

L’annunciata riforma del National Board of Revenue (NBR), che prevedeva l’assegnazione di posizioni chiave a funzionari esterni, aveva suscitato una dura reazione tra i dipendenti, sfociata in proteste e nel blocco della riscossione delle entrate, con perdite stimate tra i 122 e i 163 milioni di dollari al giorno (dati non verificabili).

Nella mattinata di domenica, la situazione si era intensificata: forze di sicurezza avevano circondato la sede dell’NBR a Dhaka, mentre i funzionari minacciavano un blocco totale. Ma poche ore dopo, il funzionario senior Abdur Rouf ha annunciato la fine dello sciopero: “Il governo ha garantito che prenderà in carico le nostre richieste. Ora inizieremo la fase di negoziazione.”

Il caso riflette le forti tensioni interne al Bangladesh dopo il rovesciamento, nell’agosto 2024, dell’ex premier Sheikh Hasina, al potere da 15 anni. Alla guida del governo ad interim c’è ora Muhammad Yunus, Nobel per la pace ed ex pioniere del microcredito, che ha promesso riforme profonde.

 Ma i suoi sforzi stanno incontrando resistenze diffuse, come dimostrano anche le proteste parallele di domenica da parte di centinaia di dipendenti pubblici contro un nuovo decreto che darebbe al governo più potere per licenziare i funzionari.

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