26 settembre 2024 – Notiziario Africa

Scritto da in data Settembre 26, 2024

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“I denti e la lingua sono vicini stretti, eppure a volte si mordono a vicenda”. Recita così un proverbio somalo. Ed è qui che vogliamo andare oggi, in Somalia o meglio nel Corno d’Africa, dove lo sbarco di un carico di armi egiziane a Mogadiscio fa salire la tensione con l’Etiopia, in questo pezzo di Africa dove i vicini “si mordono” a colpi di accordi, provocazioni, parole troppo dure e container di armamenti. In ballo, il controllo del mare, quello del Nilo, il petrolio e le rotte dove passa di tutto, cannoni ed esseri umani. Un gioco che non tiene in nessun conto che qui, in questo pezzo di Africa, il prezzo lo paga sempre chi non ha voce, chi non morde, chi vive la fame, la guerra e la miseria.

Ci sposteremo poi più a Nord, di nuovo in Sudan per un’inchiesta del New York Times che svela il ruolo degli Emirati nell’armare chi è accusato dei più atroci crimini.

E quindi, in Tanzania, in Sudafrica, in Botswana e infine in Kenya, con la storia di una donna che combatte per i diritti di altre donne che hanno perso il marito e, con lui, tutto.

Questo nel notiziario Africa di Radio Bullets, a cura di Elena Pasquini.

Corno d’Africa

Gli elicotteri sorvolano il porto di Mogadiscio. Una nave da guerra egiziana zeppa di armi ha attraccato, scarica cannoni antiaerei e pezzi di artiglieria pesante destinati a far salire la tensione in una delle più fragili e strategiche aree del globo, il Corno d’Africa. Quello di questa settimana è il secondo scarico.

Ad agosto la Somalia ha firmato un accordo militare con l’Egitto, i cui dettagli non sono noti, ma che prevede forniture di armamenti e truppe sul terreno. Accordo che sarebbe una risposta all’intesa raggiunta a gennaio tra Etiopia e Somaliland, l’ex Somalia britannica che nel 1960, sotto l’amministrazione fiduciaria italiana divenne parte della Repubblica somala per poi dichiararsi indipendente alla caduta del regime di Siad Barre senza ottenere il riconoscimento internazionale.

L’Etiopia vuole uno sbocco al mare e ha chiesto al Somaliland di affittare 20 km di costa per costruire un porto. In cambio potrebbe dare al Somaliland ciò che vuole: il riconoscimento alla sua indipendenza. La Somalia considera l’intesa una violazione della sua sovranità, ma anche l’Egitto non vuole l’Etiopia affacciata sul Golfo di Aden, su quella rotta che passa per il Mar Rosso e dove i traffici sono già in crisi per gli attacchi degli Houthi yemeniti alle navi cargo. Egitto, che ha anche un altro fronte aperto con Addis Abeba: la costruzione della grande diga idroelettrica sul Nilo Azzurro.

L’accordo tra Etiopia e Somaliland avrebbe, però, soltanto “accelerato la convergenza di interessi” tra Egitto e Somalia, sostiene nel podcast The Horn Omar Mahmood, analista dell’International Crisis Group.

Somalia, da una parte; Etiopia, dall’altra. Solo all’apparenza, però. Perché in mezzo c’è il mare, il Mar Rosso – sempre meno corridoio, sempre più trincea in un numero troppo grande di guerre. E ci sta, ancora una volta, gran parte del resto del mondo.

Una terra tra Asia e Africa

Siamo in una terra che è storicamente ponte tra Asia e Africa, e allo stesso tempo ponte tra crisi che si danno il cambio come in una tragica staffetta ben oltre il Corno. Non c’è pace in Somalia, dove la vita si misura nello spazio tra un attentato e l’altro, devastata dal terrorismo di matrice islamista. Non nell’Etiopia dei conflitti cosiddetti entici. Più a Nord, il Sudan è teatro di una guerra che sta costando decine di migliaia di morti e 10 milioni si sfollati. Dall’altra parte del mare, c’è il dolore infinito dello Yemen.

Una terra che fa gola a tutti – monarchie del Golfo, Russia, India, Cina, Stati Uniti, Iran, Israele, Turchia ed Egitto. Per metterci su basi militari, porti, controllare i commerci. Qui, dove passano container, ma anche esseri umani e armi, moltissime armi, e che oggi rischia di entrare in una spirale che risponde solo alla logica dell’escalation.

Ad inizio settembre, Aby Ahmed, primo ministro etiope, ha avvertito che “chiunque stia progettando di invadere il suo Paese dovrebbe «pensarci 10 volte» prima di farlo perché, ha detto, qualsiasi attacco verrebbe respinto. Abiy Ahmed non ha rivolto i suoi commenti a nessuna nazione in particolare, ma questi giungono in un momento di crescenti tensioni con la vicina Somalia e l’Egitto” si legge sulla BBC.

«Le forze di sicurezza hanno bloccato la banchina e le strade circostanti domenica e lunedì mentre i convogli trasportavano le armi verso un edificio del ministero della Difesa e vicine basi militari» hanno detto all’agenzia di stampa Reuters due lavoratori portuali e due ufficiali militari. La conferma che una spedizione di aiuti militari egiziani è giunta nel Paese, è arrivata anche da una nota del ministero degli Esteri egiziano. Solo a dicembre dello scorso anno il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite aveva revocato l’embargo sulle armi imposto alla Somalia, durato più di trent’anni.

Taye Atske Selassie, ministro degli Esteri etiope, ha dichiarato, come riporta sempre Reuters, che le armi provenienti da «forze esterne … finirebbero nelle mani dei terroristi in Somalia».

La replica del ministro degli Esteri somalo Ahmed Moalim Fiqi non si è fatta attendere: «La motivazione dell’Etiopia dietro queste dichiarazioni diffamatorie è il tentativo di nascondere il contrabbando illegale di armi attraverso i confini somali, che stanno cadendo nelle mani di civili e terroristi».

La Somalia era stata esplicita venerdì: con un post su X condannava la “spedizione non autorizzata di armi e munizioni attraverso il territorio etiope nella regione somala del Puntland”, lo stato semi-autonomo nel nord-est del Paese da dove il ramo dello Stato Islamico esercita una “sempre maggiore influenza nel continente”, come scrive Radio France Internationale.

Si accusano l’un l’altro, i due vicini e rivali, di armare i terroristi, che siano al-Shabab, il gruppo affiliato ad Al-Qaeda, o l’Isis. L’Etiopia non ha risposto alle accuse, riferisce la rivista Foreign Policy.

Che tutte queste armi finiscano nelle mani sbagliata è, però, un rischio reale: «Al Shabaab è uno dei principali beneficiari e nel 2023 ha raccolto enormi quantità di armi conducendo raid sulle (basi) nemiche» ha detto a Reuters, Rashid Abdi, un analista del think tank Sahan Research.

Accuse e controaccuse che arrivano in un momento molto complesso anche perchè si avvia a scadenza il mandato della missione di peacekeeping dell’Unione Africana in Somalia, l’AMIS, il cui scopo è quello di combattere proprio i ribelli islamisti e alla quale prendono parte almeno 3mila soldati etiopi. A questi, vanno aggiunte le truppe arrivate da Addis Abeba in Somalia in virtù di accordi bilaterali.

«Il governo della Somalia ha chiesto all’Unione Africana che le forze di peacekeeping etiopi presenti nel paese vengano sostituite con 5.000 soldati egiziani … Secondo le dichiarazioni dei funzionari del governo somalo, la missione che dovrebbe iniziare a gennaio 2025 non includerà più le forze etiopi» scrive Nosmot Gbadamosi su Foreign Policy.

A beneficiare di tutto questo sarebbe sempre il terrorismo, sostengono gli analisti di Crisis Group: «Al Shabab beneficia sempre quando quegli attori che dovrebbero combatterlo invece si fronteggiano l’un l’altro. Che siano interni alla politica somala o regionali, questo conduce a gap nella sicurezza che [il gruppo] può sfruttare». Il governo etiope non avrebbe riposto immediatamente a una richiesta di commento della Reuters, ma in passato ha affermato che non può restare inattivo mentre “altri attori” stanno adottando misure per destabilizzare la regione, scrive l’agenzia.

La mediazione turca

A tentare di comporre il dissidio tra Somalia ed Etiopia, ci sono stati due round di colloqui con la mediazione della Turchia, senza esito.

Turchia, però, che ha stretto sempre più i suoi legami con l’Egitto e che ha raggiunto un’intesa proprio con la Somalia che le consentirà “il dispiegamento di truppe [nel Paese], incluse nelle sue acque territoriali, per due anni”, scrive RFI.

Ad agosto, inoltre, Ankara ha ottenuto di poter esplorare i fondali somali alla ricerca di petrolio. “… Le riserve non sfruttate di gas e petrolio al largo delle coste della Somalia sono stimate a 30 miliardi di barili, una manna sulla quale Mogadiscio conta per finanziare il proprio sviluppo” si legge ancora.

Ma non c’è solo la Turchia: nel mese di marzo un accordo simile era stato firmato con la società americana Liberty Petroleum per lo stesso tipo di esplorazione petrolifera. A seguito delle accuse somale verso l’Etiopia di contrabbandare armi in Puntland, un terzo round di colloqui sarebbe stato posposto a tempo indefinito, riporta FP.

Tra le ragioni per cui l’Etiopia si oppone alla prospettiva di truppe egiziane ai sui confini c’è, secondo Gbadamosi, la questione della disputa sulla mega-diga sul Nilo, la Gerd, la Grand Ethiopian Renaissance Dam, che Addis Abeba ha iniziato a costruire nel 2011 sul Nilo Azzurro, fiume che contribuisce a oltre l’80% della piena del Nilo.

L’Egitto, il cui rifornimento idrico dipende quasi interamente dal Nilo, teme che la diga possa mettere a repentaglio la sua disponibilità di acqua – paura condivisa con il Sudan.

Nella prima settimana di settembre il Cairo aveva mandato una lettera al consiglio di sicurezza dell’Onu accusando l’Etiopia di “violare la legge internazionale continuando a riempire la diga senza un accordo con i paesi a valle del fiume” come riporta la BBC.

La risposta dell’Etiopia: l’Egitto deve “abbandonare il suo approccio aggressivo”.

La diga dovrebbe garantire energia a milioni di famiglie, ma secondo Susanne Stollreiter, che dirige l’ufficio etiopico della Fondazione Friedrich Ebert, «l’entusiasmo della popolazione per il progetto GERD è diminuito… Le speranze di circa il 60% della popolazione di allacciarsi alla rete elettrica non si sono ancora concretizzate, anzi l’operatore statale ha iniziato ad esportare elettricità» ha detto a Deutsche Welle. Nell’Etiopia dilaniata da conflitti, spinte separatistiche e insurrezioni jihadiste, il presidente con «la diga cerca di distrarre dai problemi interni del paese e a galvanizzare i suoi sostenitori» sostiene sempre su DW, Hagera Ali del think tank tedesco Institute for Global and Area Studies. Le tensioni con Somalia ed Egitto arriverebbero, dunque, in un momento di crescente pressione interna per Abiy Ahmed. La Stollreiter, però, non crede che, nonostante la “retorica aggressiva del primo ministro”, l’Etiopia possa davvero volere un intensificarsi ulteriore del conflitto.

Sudan

Sotto l’insegna della Mezzaluna Rossa, gli Emirati Arabi Uniti facevano entrare in Sudan armi e droni, destinati a finire nelle mani di uomini del gruppo paramilitare Rapid Support Forces, accusati di commettere sistematiche atrocità e crimini di guerra, ha rivelato il New York Times.

«Gli Emirati stanno giocando un doppio gioco mortale in Sudan, un paese devastato da una delle guerre civili più catastrofiche del mondo. Desideroso di consolidare il suo ruolo di kingmaker regionale, il ricco petrostato del Golfo Persico sta espandendo la sua campagna segreta per sostenere un vincitore in Sudan, destinando denaro, armi e, ora, potenti droni ai combattenti che imperversano in tutto il paese» scrivono Declan Walsh e Christoph Koettl, autori dell’inchiesta. Droni volerebbero da una base da dove gli Emirati sostengono di condurre interventi umanitari.

Diciotto mesi di guerra, carestia dichiarata nel campo di Zamzam, almeno 10 milioni di profughi, quello del Sudan è un conflitto in cui ogni tentativo di mediazione sembra fallire.

Gli Emirati affermano che non stanno armando o sostenendo “nessuna delle parti in guerra” in Sudan, scrive ancora il NYT, quegli stessi Emirati, stretti alleati degli Stati Uniti, che quest’estate sedevano al tavolo dei negoziati a Ginevra, voluti dagli Stati Uniti, ma disertati delle Forze armate sudanesi, che con le RSF stanno combattendo per il controllo del Paese.

Un’altra indagine del Times, lo scorso anno aveva rivelato operazioni di contrabbando di armi, poi confermate dalle investigazioni delle Nazioni Unite, che avevano parlato di “prove credibili che gli Emirati stessero violando il ventennale embargo di armi in Sudan”.

Questo, mentre si continua a morire. “Non è rimasto praticamente nessuno” a El-Fasher, titola Radio France Internationale. «La maggior parte delle nostre case nel sud della città è stata completamente distrutta» ha detto al telefono all’AFP Al-Tijani Othman, residente locale, dal suo quartiere bombardato. Quasi tutti se ne sono andati, dopo mesi di bombardamenti e fame.

El-Fasher è l’unica grande città del Darfur a non essere caduta sotto il controllo delle RSF ed è da maggio sotto assedio. Tutti, anche l’esercito sono stati accusati di commettere crimini di guerra, di colpire i civili e perpetrare atrocità, per RSF, però, l’accusa è anche di pulizia etnica. Secondo gli esperti dell’ONU, a El-Geneina lo scorso anno sono morte circa 15 milia persone, la maggior parte della comunità Massalit, non araba.

In Sudan, però, la guerra porto con sé non solo violenza, ma anche fame e malattia. Sarebbero più di 430 le persone morte di colera il mese scorso e oltre 14 mila i casi noti, secondo quanto dichiara il Ministero della salute sudanese e riporta la BBC. Difficile raggiungere chi ha bisogno a causa dei combattimenti.

Tanzania

Chadema è il principale partito di opposizione in Tanzania, il suo leader, Freeman Mbowe è stato arrestato lunedì scorso, per poi essere rilasciato su cauzione la sera stessa. Così, il suo vice, Tundo Lissu e altri 12 membri del partito, oltre a diversi giornalisti come riporta la stampa locale.

La polizia avrebbe tentato di bloccare una dimostrazione a Dar es Salaam, indetta per protestare contro le uccisioni e i rapimenti che si sono susseguiti negli ultimi mesi. Centinaia, anche, gli arresti.

Il 7 settembre, uno dei leader del partito, Ali Mohamed Kibao, era stato trovato morto dopo essere stato rapito.

La Tanzania, oggi guidata Samia Suluhu Hassan, la presidente che aveva inizialmente fatto cadere i divieti agli assembramenti dell’opposizione, sembra ripiombare negli anni oscuri del regime autoritario di John Magufuli.

“La scorsa settimana, la presidente Samia Suluhu Hassan aveva sconsigliato manifestazioni e qualsiasi atto simile, sottolineando che la sua amministrazione non avrebbe tollerato alcuna azione che potesse mettere in pericolo la legge e l’ordine” si legge su BBC. “Gruppi per i diritti umani e i critici [della presidente] sono preoccupati che l’obiettivo delle sue tattiche sia quello di intimidire gli avversari politici” all’avvicinarsi delle elezioni locali di novembre e di quelle generali nel 2025.

Poco prima del suo arresto, Mbowe aveva dichiarato ai giornalisti: «stiamo pagando l’intero prezzo della democrazia… come leader dell’opposizione dobbiamo indicare la strada».

Eswatini, Sudafrica

Mlungisi Makhanya sarebbe stato avvelenato, martedì nella sua casa di Pretoria.

“Il nostro presidente è stato stabilizzato ma è ancora in una situazione critica” ha dichiarato il partito di opposizione Pudemo, il People’s United Democratic Movement. Un tentativo di assassinio consumato in Sudafrica, dove il quarantaseienne Makhanya vive in esilio dopo che la sua casa venne data alle fiamme nel 2022 nel suo Paese, Eswatini.

Il Partito sostiene che la ragione è politica. L’attentato alla vita dal leader sarebbe arrivato poco prima di una manifestazione di protesta indetta per il prossimo mese per chiedere elezioni multipartitiche, in questo piccolo paese che una monarchia assoluta guidata dall’autoritario re Mswati III, sul trono dal 1986, e dove i partiti politici non possono correre alle elezioni, consentite solo a candidati indipendenti.

Makhanya sarebbe stato avvelenato con organofosfati, antiparassitario, riporta il sudafricano Sowetan Live. Secondo il vice presidente, «è un miracolo che sia sopravvissuto più di due ore a questo tipo di veleno» si legge ancora. Ad avvelenarlo, un ragazzo, usato come «agente per gli intenti malvagi del governo che cerca di minare la cause degli oppressi del nostro paese» dicono ancora dal partito.

Alpheous Nxumalo, portavoce di Eswatini, nega ogni coinvolgimento: “il governo non uccide o avvelena sospettati” scrive la BBC.

Un regime noto per la brutalità con cui ha represso ogni forma di dissenso. Durante una manifestazione nel 2021, nata per protestare contro la violenza della polizia e sfociata in una richiesta di cambiamento politico, ricorda la BBC, morirono 46 persone, secondo Human Rights Watch.

Il mercato degli elefanti

Sono 33 i Paesi che si sono riuniti in Botswana, coinvolti nel commercio degli elefanti vivi. Vogliono cercare un posizione comune, un punto d’incontro tra chi vede crescere le popolazioni di pachidermi nel proprio territorio e vorrebbe meno regole nel mercato degli animali, e chi le vede diminuire sempre di più.

Non ci sono riusciti nel 2022, a Panama, durante i lavori della Convezione sul commercio delle specie minacciate di estinzione, la CITES. “Le nazioni dell’Africa meridionale vogliono che Cites allenti le misure sul commercio di elefanti, ma in alcune parti del continente, in particolare quelle orientali e occidentali vogliono controlli più severi” si legge su Voice of America.

In Africa si conta una popolazione di circa 415 mila elefanti, quasi tutti in Africa meridionale.

Il rapporto tra uomo e animali può condurre a conflitti complessi, come accade, per esempio, in Tanzania.

“In tutta la Tanzania, un paese dell’Africa orientale ricco di giungle e fauna selvatica, le popolazioni umane in espansione stanno invadendo sempre più gli spazi naturali, mettendo le persone in rotta di collisione con animali in libertà in eventi sempre più fatali” scrive Al Jazeera.

“In molte comunità rurali come Ngulu Kwakoa, che si trova vicino a un corridoio naturale, i più comuni sono gli scontri con gli elefanti, animali che devono migrare in cerca di cibo e che possono trasformarsi in un istante da giganti buoni ad aggressori alla carica” si legge ancora.

Un problema che è di tutto il continente, dove la popolazione umana crescente entra in competizione con gli animali. Con il peggiorare delle condizioni climatiche, con la siccità, si sono ridotte le risorse “per gli elefanti in tutta l’Africa orientale”, il che li ha spinti “lontano dai parchi designati e dalle aree protette, verso insediamenti umani come Ngulu Kwakoa”.

All’incontro, riporta VoA, partecipano i governi, ma non la società civile.

«Abbiamo due blocchi opposti che si siederanno attorno allo stesso tavolo per esaminare le questioni relative alla gestione degli elefanti» ha detto Isaac Theophilus della Botswana Wildlife Producers Association, a VoA. «La mia speranza e il mio desiderio è che gli stati partecipanti abbiano l’opportunità di interagire con le persone nell’area (della fauna selvatica) e ottenere informazioni di prima mano relative ai problemi associati alla convivenza con una popolazione di elefanti in aumento».

Kenya, le donne

Se una donna perde suo marito, perde tutto, la terra, la casa, i diritti. In molti paesi africani accade ancora.

«Le vedove subiscono discriminazioni sociali ed ereditarie. I riti intesi a onorare i defunti spesso le emarginano, causando sofferenza. Devono sopportare [rituali] di purificazione sessuale forzata, affrontano lo stigma e sono spesso diseredate» scrive Roesline Orwa su AllAfrica.

Anche lei, come vedova, ha dovuto affrontare l’umiliazione e ha dovuto lottare per i suoi diritti. Aveva solo sedici anni quando ha perso su marito. «[Per questo] comprendo intimamente la miriade di problemi» che vivono le vedove ed «empatizzo con le radicate ingiustizie con cui si confrontano» si legge sul britannico The Guardian.

Per questo, Roesline dodici anni fa ha creato la Rona Foundation, un’organizzazione che in Kenya si occupa dei diritti delle vedove e lotta per il loro riconoscimento legale, ma che interviene anche in quella battaglia quotidiana che le donne comboattono per l’autonomia.

Roseline, insieme ad altre donne come Elida Anyango anche lei vedova, ha raggiunto un successo straordinario quando la contea di Siaya ha adottato il Siaya Widows Protecion Law, «una pietra miliare rivoluzionaria», una legge per la protezione delle vedove che è un passo avanti, spiega, ma che non è ancora abbastanza, non nel suo paese, come nell’intero continente, e nel mondo.

In Kenya ci sono più di 8 milioni di vedove. Secondo il World Widows Report della Loomba Foundation, nel mondo ci sono oltre 258 milioni di vedove a cui è affidata la cura di 585 milioni di bambini. Molte sono poverissime e l’aiuto, racconta Roseline, è sempre troppo poco e occasionale, in emergenza, nell’Africa attraversata da guerre che rendono le donne ancora più vulnerabili.

Foto in copertina: Avel Chuklanov – Unsplash

Musica: Stock Media provided by KING_DAVID / Pond5

 

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