30 ottobre 2025 – Notiziario Mondo

Scritto da in data Ottobre 30, 2025

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  • Gaza, la tregua che non è una tregua
  • Sudan, massacro a El Fasher: oltre 2.000 civili uccisi in due giorni
  • Iran, un nuovo impianto segreto in costruzione
  • Pakistan-Afghanistan: falliti i colloqui di pace. Ma il vero motivo non è l’India
  • Brasile, trovato il più grande cimitero di schiavi
  • Myanmar, raid contro hub del cybercrimine

Questo e molto altro nel notiziario di Radio Bullets – a cura di Stefania Cingia

 

Gaza, la tregua che non è una tregua

In una sola notte, Israele ha ucciso oltre 100 palestinesi nella Striscia di Gaza, nel bombardamento più letale dall’inizio del fragile cessate il fuoco.
Un accordo che, secondo nuove rivelazioni, Israele non avrebbe mai avuto intenzione di rispettare.

L’esercito israeliano ha dichiarato di aver colpito 30 obiettivi, che ha descritto come “terroristi in posizioni di comando”. Ha accusato Hamas di aver violato la tregua, ma diversi media – anche israeliani – mettono in dubbio questa versione.

Secondo il Ministero della Sanità di Gaza, più della metà delle vittime sono donne e bambini.
Nel centro della Striscia, un’intera famiglia è stata sterminata: 18 persone uccise, appartenenti a tre generazioni diverse.

Il governo israeliano e parte della stampa locale hanno presentato l’attacco come una risposta a una presunta violazione da parte di Hamas.
Secondo Israele, il gruppo non avrebbe rispettato le regole relative alla restituzione dei corpi degli ostaggi e avrebbe ucciso un soldato israeliano in un’imboscata a Rafah — un’azione che Hamas nega di aver compiuto.

Ma gli stessi militari israeliani hanno ammesso ai media locali di non sapere se l’attacco fosse stato autorizzato dai vertici di Hamas o deciso autonomamente da miliziani rimasti intrappolati nei tunnel.

Il giornalista e analista politico palestinese Muhammad Shehada ha ricordato che alcuni combattenti di Hamas potrebbero trovarsi da mesi sottoterra, senza comunicazioni e ignari della tregua, continuando a credere che la guerra sia ancora in corso.

“Quando finiscono i viveri e sanno che moriranno comunque,” ha spiegato Shehada, “alcuni possono scontrarsi con le truppe israeliane. Questo era stato chiarito a Israele già durante i negoziati per il cessate il fuoco. Ma Netanyahu sta usando questa scusa per riaccendere il genocidio nella sua forma più estrema.”

https://twitter.com/muhammadshehad2/status/1983448843623764221

Shehada ha anche accusato Israele di sfruttare le difficoltà logistiche nel recupero dei corpi degli ostaggi, un compito reso quasi impossibile dalle macerie causate da due anni di bombardamenti.

Mercoledì mattina, l’esercito israeliano ha annunciato su X di voler tornare a rispettare la tregua, nonostante — secondo le autorità di Gaza — l’abbia già violata più di cento volte.

Intanto, da Washington, Donald Trump ha difeso l’attacco, sostenendo che Israele “deve reagire” quando i suoi soldati vengono colpiti.
Al contrario, la deputata Marjorie Taylor Greene, una delle figure più vicine all’ala trumpiana, ha denunciato apertamente il bombardamento. In un post su X ha scritto: “46 bambini! Non sono forse crimini di guerra?”

Hamas ha chiesto ai Paesi mediatori — Egitto, Qatar, Turchia e Stati Uniti — di esercitare pressione immediata su Israele per fermare quelli che definisce “massacri” contro i civili palestinesi.

Anche l’ONU ha reagito con fermezza.

Il segretario generale Antonio Guterres ha condannato duramente i bombardamenti israeliani, che martedì hanno causato oltre cento morti, tra cui 46 bambini.
Il portavoce delle Nazioni Unite ha ricordato che “ogni atto che metta a rischio i civili o ostacoli gli aiuti umanitari deve essere evitato”, chiedendo alle parti di rispettare pienamente gli impegni del cessate il fuoco.

Dal canto suo, il premier del Qatar, Mohammed Al Thani, ha definito l’attacco “deludente e frustrante”, spiegando che Doha si è mossa immediatamente e in pieno coordinamento con gli Stati Uniti per contenere la crisi.

Albanese: 63 paesi alimentano la macchina genocida

Alle Nazioni Unite è scoppiato un nuovo caso diplomatico dopo le parole di Francesca Albanese, relatrice speciale dell’ONU sui diritti nei Territori palestinesi occupati.
Nel suo ultimo rapporto, Albanese accusa 63 Paesi, tra cui l’Italia, di essere complici del genocidio israeliano a Gaza.

Un’accusa pesantissima, che ha scatenato reazioni durissime: Israele l’ha definita “una strega fallita”, mentre Roma e Budapest hanno respinto con forza ogni addebito, denunciando la mancanza di imparzialità del documento.

Il rapporto, di 24 pagine e datato 20 ottobre, è stato presentato alla Terza Commissione dell’Assemblea Generale ONU.
Secondo Albanese, “attraverso azioni illecite e omissioni deliberate, troppi Stati hanno armato, finanziato e protetto l’apartheid militarizzato di Israele, permettendo alla sua impresa coloniale di metastatizzare in genocidio, il crimine ultimo contro il popolo indigeno della Palestina.”

Nel documento, Albanese punta il dito soprattutto contro gli Stati Uniti, accusati di offrire “copertura diplomatica” a Israele, ma cita anche l’Unione Europea, che — dice — “ha sanzionato la Russia per l’Ucraina, ma continua a fare affari con Israele.”

La complicità, secondo il rapporto, passa anche attraverso la fornitura di armi, gli addestramenti militari congiunti e la militarizzazione degli aiuti umanitari.
Molti Paesi, scrive Albanese, avrebbero consentito il transito di armamenti attraverso porti e aeroporti diretti in Israele, contribuendo così, di fatto, a sostenere quella che definisce una “macchina genocida”.

 

Sudan, massacro a El Fasher

El Fasher, immagini stallitari, Yale

Satellite e immagini aeree mostrano corpi e terreni insanguinati nella città di El Fasher, nel Darfur, dopo un attacco dei paramilitari delle Rapid Support Forces (RSF). Gli analisti della Yale School of Public Health stimano più di 2.000 vittime, tra cui donne e bambini, in seguito al ritiro dell’esercito sudanese dalla città.

Le foto satellitari mostrano corpi allineati vicino a camion e barricate, con macchie rosse sul terreno probabilmente sangue. Testimoni riferiscono di esecuzioni sommarie, persone uccise mentre cercavano di fuggire e catturate in operazioni porta a porta. Video condivisi sui social mostrano membri delle RSF che celebrano tra i cadaveri, gridando insulti razzisti contro le comunità africane locali.

Secondo l’esercito sudanese, le truppe si sono ritirate per proteggere i civili, ma denunciano che la RSF ha trasformato la città in un campo di sterminio. Organizzazioni per i diritti umani e sindacati locali parlano di pulizia etnica, torture e violenze sessuali, chiedendo alla comunità internazionale di classificare le RSF come organizzazione terroristica.

Il Sudan si trova così di fronte a una nuova catastrofe umanitaria, con oltre 250.000 persone sotto il controllo dei paramilitari, metà dei quali bambini, mentre le autorità e i medici denunciano un attacco sistematico alla popolazione civile.

Il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, ha esortato la comunità internazionale a fermare qualsiasi interferenza esterna nel conflitto tra l’esercito sudanese e le Rapid Support Forces (RSF).

Secondo Guterres, paesi esterni che forniscono armi e supporto militare compromettono la possibilità di un cessate il fuoco e di una soluzione politica. Ha definito la situazione in Sudan “insopportabile” e ha chiesto a tutti gli stati coinvolti di interrompere immediatamente il sostegno al conflitto

I principali attori internazionali che supportano le fazioni in guerra in Sudan includono gli Emirati Arabi Uniti, che supportano le Forze di Supporto Rapido (RSF), e la Turchia, che fornisce supporto militare alle Forze Armate sudanesi (SAF). La guerra civile è influenzata anche da altre potenze regionali come l’Egitto, gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita, che si sono attivamente coinvolti nei tentativi di mediazione. 

Le Rapid Support Forces

Le Rapid Support Forces, o RSF, sono un gruppo ombrello di milizie tribali arabe, conosciute anche con il nome di Janjaweed. Furono armate e finanziate negli anni Duemila dall’allora dittatore Omar al-Bashir, come parte della brutale campagna di controinsurrezione nel Darfur.

Nel 2013, queste milizie vennero formalmente integrate nello Stato come forza paramilitare con compiti di sicurezza nazionale. Ma dieci anni dopo, nel 2023, si ribellarono contro l’esercito regolare sudanese, dando inizio all’attuale guerra civile.

Le RSF avrebbero ricevuto sostegno dagli Emirati Arabi Uniti, contrari al governo militare di Khartoum per i suoi legami con partiti islamisti, eredi del Fronte Islamico Nazionale di Bashir, poi ribattezzato Partito del Congresso Nazionale.

Durante il primo conflitto del Darfur, tra il 2003 e il 2005, le milizie che oggi compongono le RSF si resero responsabili di stragi etniche e violenze sessuali sistematiche. Oggi, gli stessi combattenti – e spesso i loro figli – sono accusati di nuovi massacri e atrocità, in un conflitto che si è ormai esteso a tutto il Paese.

L’esercito sudanese, le Forze Armate del Sudan (SAF), ha dichiarato di non voler negoziare con le RSF e ha promesso di eliminarle militarmente. Dopo una serie di vittorie iniziali, però, la sua offensiva si è arrestata.

La caduta di El Fasher, avvenuta questa settimana, rappresenta la più grave sconfitta militare del governo sudanese da oltre un anno, e una tragedia umanitaria di proporzioni enormi.

Già più di un anno fa, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU aveva chiesto alle RSF di sospendere l’assedio della città, garantire il passaggio sicuro dei civili e consentire gli aiuti umanitari. Quell’appello è rimasto inascoltato.

 

Iran, un nuovo impianto segreto in costruzione

Il rapporto del Center for Strategic and International Studies di Washington, basato su nuove immagini satellitari pubblicate questa settimana, mostrerebbe un nuovo impianto nucleare segreto in costruzione.

Secondo gli analisti, l’Iran avrebbe fatto pochissimo per ricostruire gli impianti di Fordo, Natanz e Isfahan, devastati quattro mesi fa dai bombardamenti congiunti di Stati Uniti e Israele, ma avrebbe invece intensificato i lavori su un sito nascosto, soprannominato “Pickaxe Mountain”, poco a nord di Isfahan.

Il nuovo complesso, iniziato nel 2020 come sala sotterranea per l’assemblaggio di centrifughe, potrebbe essere stato riconvertito in un impianto di arricchimento segreto. Una mossa che, se confermata, rappresenterebbe una seria preoccupazione per l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, che chiede più trasparenza sulle attività nucleari di Teheran.

Il direttore dell’Agenzia, Rafael Grossi, ha ricordato che l’Iran conserva ancora circa 400 chili di uranio arricchito al 60%, quantità che, se ulteriormente potenziata, potrebbe avvicinare il Paese alla soglia necessaria per un’arma nucleare.
Grossi ha sottolineato che gli ispettori internazionali non hanno accesso regolare ai siti iraniani, e che questo aumenta i rischi di deviazioni non dichiarate del materiale fissile.

Se l’Iran dovesse proseguire l’arricchimento senza controlli, potrebbe violare il Trattato di non proliferazione nucleare, dal quale ha più volte minacciato di ritirarsi. Una decisione che Washington e Tel Aviv considererebbero un atto ostile, con la possibilità di nuovi raid militari.

Dopo la guerra di giugno, Teheran ha promesso di ricostruire il proprio programma atomico, ribadendo che si tratta di un diritto sovrano e rifiutando le richieste occidentali di smantellarlo in cambio della fine delle sanzioni.

 

Pakistan-Afghanistan: falliti i colloqui di pace

I colloqui di pace tra Pakistan e Afghanistan, mediati da Qatar e Turchia a Istanbul, sono falliti dopo quattro giorni di trattative.
Ufficialmente, Islamabad ha accusato l’India di aver influenzato i talebani e fatto deragliare le negoziazioni. 

Ma, secondo più fonti giornalistiche, la vera causa del fallimento è un’altra: i droni statunitensi che continuano a colpire l’Afghanistan decollando da basi in territorio pakistano.

Le trattative puntavano a consolidare una tregua fragile dopo le violenze di settembre e ottobre, che avevano causato centinaia di morti lungo la linea Durand, il confine contestato tra i due Paesi.

Secondo quanto riportato da TOLO News, il governo talebano era disposto a impegnarsi per evitare attacchi contro il Pakistan solo se Islamabad avesse smesso di violare lo spazio aereo afghano e avesse interrotto i voli dei droni americani.
Una condizione che il Pakistan ha rifiutato di accettare, ammettendo di non poter controllare le operazioni statunitensi.

Durante i colloqui è emerso infatti che una potenza straniera — poi identificata come gli Stati Uniti — utilizza basi pakistane per condurre raid in Afghanistan.
Secondo fonti interne, i negoziatori pakistani avevano inizialmente mostrato apertura, ma avrebbero cambiato posizione dopo una telefonata da Islamabad, in cui sarebbe stato ricordato loro che il governo non può annullare l’accordo segreto con Washington.

La notizia ha sorpreso anche i mediatori di Doha e Ankara, lasciando i colloqui in una situazione di stallo.

Ciononostante, il ministro della Difesa pakistano Khwaja Asif ha preferito puntare il dito contro l’India, accusandola di “tirare i fili” del governo di Kabul.

Sullo sfondo, il legame sempre più stretto tra Pakistan e Stati Uniti sotto la presidenza di Donald Trump: incontri ad alto livello, cooperazione militare e perfino la proposta — da parte del premier pakistano Shehbaz Sharif — di candidare Trump al Premio Nobel per la Pace.

Eppure, la linea di confine tra Afghanistan e Pakistan resta una polveriera.
I talebani non riconoscono la Durand Line, tracciata dal Regno Unito coloniale, e gli scontri di settembre hanno già causato oltre 200 vittime, tra militari e civili.

Intanto, emerge un paradosso: il Pakistan, da sempre vittima dei droni americani durante la guerra al terrore, oggi li ospita sul proprio territorio.
Come ha scritto il giornalista di Kabul Ali M. Latifi,

“È un’ammissione clamorosa: un Paese devastato dai droni di Obama, ora ne permette l’uso contro i vicini.”

Un’ammissione che, secondo gli analisti, spiega più di ogni altra cosa il naufragio dei colloqui di pace tra Islamabad e Kabul.

 

Brasile, trovato il più grande cimitero di schiavi

Mappa antica – foto di Silvana Olivieri

A Salvador, sotto l’asfalto della Pupileira, sede della Santa Casa di Misericórdia, gli archeologi hanno scoperto quello che potrebbe essere il più grande cimitero di persone schiavizzate dell’America Latina.

Secondo una ricerca presentata dal Ministero Pubblico dello Stato di Bahia, oltre centomila corpi sarebbero sepolti in quell’area, oggi ancora usata come parcheggio.

La scoperta è il risultato di un’indagine archeologica coordinata dalla ricercatrice e architetta urbanista Silvana Olivieri, dell’Università Federale di Bahia.
Analizzando mappe del XVIII secolo e immagini satellitari moderne, Olivieri ha individuato la posizione esatta dell’antico cimitero.

I primi scavi sono iniziati a maggio di quest’anno, e già al terzo giorno i ricercatori hanno trovato frammenti di oggetti e porcellane del XIX secolo. Dieci giorni dopo, sono emerse le prime ossa.

Gli studi storici raccontano che il cimitero fu attivo per circa 150 anni, fino al 1844.
All’inizio era gestito dal Comune di Salvador, poi passò alla Santa Casa di Misericórdia.
In quel luogo venivano sepolti, senza cerimonie religiose, schiavi africani, indigeni, membri della comunità rom e persone povere che non potevano permettersi un funerale.

Alcuni storici ritengono che lì possano trovarsi anche i resti di ribelli delle rivolte dei Malê, dei Búzios e della Rivoluzione Pernambucana.

Nonostante la portata storica della scoperta, il terreno continua ad essere usato come parcheggio.
Il Ministero Pubblico e l’Istituto per il Patrimonio Storico e Artistico Nazionale hanno raccomandato alla Santa Casa di sospendere immediatamente le attività sul sito.

Nel frattempo, la ricercatrice Silvana Olivieri ha chiesto che l’area venga ufficialmente riconosciuta come “Sito Archeologico Cimitero degli Africani”.

Una memoria sommersa, riemersa per ricordare che Salvador — cuore della cultura afro-brasiliana — è la città con la più alta concentrazione di persone afrodiscedenti fuori dall’Africa.

 

Myanmar, raid contro hub del cybercrimine

Negli ultimi giorni, l’esercito del Myanmar ha lanciato una serie di raid contro il complesso di KK Park, un vero e proprio hub del cybercrimine internazionale.
L’operazione ha spinto oltre 1.500 persone di 28 paesi diversi a fuggire verso Mae Sot, una città in Thailandia a ridosso del confine.

Le zone di confine tra Thailandia, Myanmar, Laos e Cambogia sono diventate, dalla pandemia in poi, centri nevralgici per le truffe online e il traffico di esseri umani.
Secondo le Nazioni Unite, miliardi di dollari sono stati guadagnati grazie allo sfruttamento di centinaia di migliaia di persone, costrette a lavorare nei compound controllati da bande criminali cinesi e milizie locali legate all’esercito birmano.

Il complesso di KK Park è uno dei più noti e temuti: una città nella città, protetta da uomini armati, dove centinaia di lavoratori vengono ingannati con promesse di impiego e poi trattenuti con la forza.

Il premier thailandese Anutin ha spiegato che l’ambasciatore indiano incontrerà le autorità di immigrazione per accelerare le procedure di verifica dei cittadini, prima del volo di rimpatrio.

L’India non vuole che questa crisi pesi su di noi”, ha detto il premier. “Manderanno un aereo speciale direttamente a Mae Sot per riportare a casa queste persone.”

Il ministero degli Esteri indiano ha confermato la notizia, assicurando che l’ambasciata sta lavorando con le autorità thailandesi per completare le formalità legali necessarie per rimpatriare circa 500 indiani.

Non è la prima volta che accade: già all’inizio dell’anno, l’India aveva inviato un aereo per riportare indietro centinaia di connazionali liberati da altri centri di truffe digitali lungo il confine tra Thailandia e Myanmar.

 

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