Bagamoyo: il regalo che non ti aspetti
Scritto da Eleonora Viganò in data Marzo 7, 2019
Viaggio in Tanzania. Ci sono mete che scegli senza dargli troppo peso: andiamoci, ti ripeti, quasi come a voler perdere un giorno. Ci sono mete a cui non pensi, non ci rifletti e magari ti ritagli giusto quella mezza giornata per visitarle: sono villaggi piccoli, con qualche elemento storico che leggi in una guida scorrendo pigramente il dito prima di addormentarti in ostello. Chi incontri ti consiglia di tenerla per ultimo: non ne vale così la pena, se hai tempo, magari l’ultimo giorno. Queste stesse mete sono spesso piccoli gioielli inattesi. Regali che non ti aspetti, scoperte semplici ma allo stesso tempo ricche e piacevoli.
Eleonora Viganò per Radio Bullets.
A Bagamoyo arrivo con calma, dopo qualche bus il cui numero era scritto su un foglietto spiegazzato, chiedendo più volte e ottenendo risposte differenti. La città appare inizialmente vuota, anonima, senza nemmeno il fascino della decadenza. Cerco una mano per trovare una guida, un ente del turismo: qualsiasi cosa per capire come spostarmi e qualche accenno di storia. Secondo le informazioni raccolte siamo in una delle città più determinati nella tratta degli schiavi. Inoltre, ci sono stati i primi accenni di islam e Bagamoyo stesso è diventata una colonia tedesca. Un ragazzo mi indica, senza parlare, una strada fangosa per raggiungere la via principale, asfaltata. Mi accompagna e mi mostra un negozietto di souvenir un po’ alla buona, dal soffitto basso, accanto a un ufficio che dovrebbe essere quello del responsabile delle guide. Lui non c’è. Mi fanno cenno di aspettare, arriverà. È molto tardi ma aspetto.
L’uomo che mi accoglie è chiassoso: divaga, vuole vendere, mi ascolta. Una miscela di elementi contrastanti che mi inebetiscono. Mi propone pacchetti, visite, giri differenti. Ammetto di avere solo un pomeriggio e scelgo una visita – credo – abbastanza standard: scelgo di vistare le rovine di Kaole, poco più a sud della città. Sono ciò che rimane di due moschee e moltissime tombe, a testimonianza della prima presenza islamica in Tanzania.
A Bagamoyo ho noleggiato una bicicletta. La mia guida era un uomo di circa quarant’anni, con una famiglia. Chiacchierava molto e, come è normale, mi chiedeva con stupore come vivessi. Non voleva addentrarsi in discussioni complesse. Dice di avere origini cristiane ma di essere neutrale. Le domande erano sempre le stesse: se ho figli, se ho un marito e quanti anni ho. Al massimo per quale squadra di calcio faccio il tifo. Alcune volte mi chiedevano che lavoro facessi, ma era di poca importanza. Perché non avessi figli era invece ciò che gli interessava davvero.
Non era facile spiegarlo e dire che semplicemente non ne volevo non li rassicurava: «è il modo per lasciare un segno di te su questa terra» mi dice.
Durante il tragitto in bicicletta, attraversiamo piccoli paesi semplici e per nulla dimessi: erano solo pigri e lenti. Qualcuno sta fuori dalla porta, qualcuno saluta. Arrivati al sito archeologico, incontriamo un gruppo in preghiera con alcune telecamere, parlano in francese. La guida con la sua verve mi spiega le moschee come se fossero ancora in piedi, integre e funzionanti. Ho tolto le scarpe per entrare in un rudere senza porte, per varcare un muro. Fuori c’è un pozzo d’acqua che secondo il miracolo e la leggenda non si esaurisce mai, nemmeno nei periodi di siccità. È un’acqua benedetta, santa, mi ripete. Mi fa provare a tirarne su un po’ con un secchio in plastica giallo, ricavato da una tanica tagliata in modo da renderla adatta per lo scopo. Camminiamo tra le tombe con un senso di sacralità che avvolge ogni cosa, anche grazie alla luce che vi arriva di sbieco. Era – Kaole – un villaggio di epoca Shirazi: ovvero l’epoca compresa tra il XIII e il XV secolo d.C. in cui in Africa orientale – e in particolare in Tanzania – si insediarono popolazioni arabe e persiane, dando origine a quella che oggi è la lingua swahili attraverso lo scambio con le popolazioni locali già presenti.
Le tombe sono differenti a seconda del sesso della persona defunta, le decorazioni ricordano l’organo sessuale: c’è una tomba costruita con una grande colonna, di un uomo importante, e di fronte trovano posto le sue due mogli, con una decorazione che dovrebbe ricordare il loro sesso. Ci sono le tombe di una coppia: i due sono morti insieme affondando con la nave nell’oceano e – per non separarsi – prima di morire si sono legati con un nastro. Una tomba ancora più particolare è quella nella quale si può proprio entrare attraverso una piccola porticina e – se ricordo bene – uscire rigorosamente dal retro o viceversa. La tomba appartiene a una bambina, Sharifa, morta a 12-13 anni e capace di prevedere il futuro. All’interno della tomba ricordo una ciotola e l’invito a non invertire il percorso tra ingresso e uscita: ricordo di aver provato una lieve ansia, come un brivido, all’idea di poter chiedere e conoscere il mio futuro.
La visita si conclude con un altro giro tra le tombe, in una bella luce, dopo aver visto le mangrovie oltre alle quali si trovava il porto antico, il baobab con tante leggende: lui mi aveva detto di esprimere un desiderio e di girarci intorno, e un piccolo museo.
Al rientro – sempre ridendo e chiacchierando – la guida mi accompagna senza chiedermi di pagargli anche questo giro supplementare per la città, mostrandomi qualche elemento storico del colonialismo tedesco, la chiesa dove è arrivato il corpo del dottor Livingstone, ma soprattutto – per me una meraviglia punteggiata di colori, odori, rifiuti, acqua e donne, e di suoni – il mercato del pesce. O meglio la spiaggia dalla quale vanno e vengono – ormai era tardi e stanno tutti pulendo il pesce o cucinandolo – i pescatori sulle loro imbarcazioni tipiche, costruite proprio qui. Sono tutti seduti o accovacciati con i loro secchielli di plastica che ormai conosco, a pulire il pesce, a fare andare le mani per mettere a posto qualcosa: una bici, una barca – il dhow – una rete da pesca troppo grande e malconcia, un attrezzo. Poco distanti vedo delle specie di gazebo con le piastre e i fumi del pesce cotto che salgono, annebbiando l’aria. E finalmente vedo l’Oceano!
In ogni viaggio c’è quella tappa per cui dici: «ma sì, andiamoci, non sarà nulla di che».
Bagamoyo è un gioiellino di storia: di arabi, di tedeschi e di inglesi. Qui – come già detto – partivano gli schiavi per Zanzibar e qui è arrivato il corpo di Livingstone: non sono riuscita ad arrivare a Kigoma per declamare Doctor Livingstone, suppongo – sembra che sia un falso, ma sarebbe stato comunque interessante – ma sono stata felice di aver visto Bagamoyo.
Concludo con gli ultimi passi attraverso la città vecchia con le case di pietra e la capacità di emanare calma, prendo il dala dala del ritorno, mettendoci molto più tempo del previsto per via del traffico congestionato sulle vie interne di Dar es Salaam. Chiacchiero piacevolmente con gli altri passeggeri, pur con una lieve ansia all’idea di rientrare in ostello con il buio – che è sempre molto intenso – da sola. Ricevo un messaggio: gli amici di Daniel, l’uomo di Ukerewe, mi hanno vista noleggiare una bici. «Eri a Bagamoyo, vero? Ti avevo suggerito di lasciarla per ultimo». Sorrido, pensando che nemmeno nel paesino dove sono nata mi avrebbero spiato così. Stranamente non mi sconforta, ma mi fa sentire parte di un mondo. Ritorno con la mente alla calma delle case decadenti di Bagamoyo e già penso alla prossima meta.
Il viaggio in Tanzania è ricco e intenso, scoprite le altre tappe.
Prima della Tanzania, la nostra Eleonora Viganò ci ha raccontato la sua esperienza in Etiopia.
Se invece siete alla ricerca di ispirazioni di viaggio…