Global Sumud Flotilla: il porto – Ep.1

Scritto da in data Ottobre 29, 2025

Il piazzale del silenzio

Ricostruzione con l’intelligenza artificiale

ASHDOD – Il poliziotto cammina avanti e indietro facendo roteare un ciondolo di metallo come se fosse una fionda. Il suono fende l’aria, un sibilo di minaccia. Gira tra noi con lo sguardo truce, la mascella serrata, e urla a chiunque osi alzare lo sguardo.

Ha gli occhi neri, spenti, cattivi. Uno sguardo che non contiene niente di umano. Come se godesse a stare lì, in piedi intorno a noi, a esercitare il potere del terrore. Non è alto, è tarchiato, compatto, un corpo costruito per colpire.

Non ricorda per niente i militari delle forze speciali che ci hanno attaccato in mezzo al mare: loro erano freddi, precisi, professionisti delle armi.

Lui invece è il male grezzo, un personaggio uscito da un film di guerra dove le vittime sono sempre innocenti. Come noi. Certo, per loro non siamo innocenti. Siamo dissidenti. Persone normali che hanno osato sfidare la loro onnipotenza. Colpevoli senza diritto di replica di un crimine chiamato umanità.

Nel mio mondo – che oggi non è neanche il mio governo, appiccicato come una pianta parassita al suo complice – siamo persone perbene, che fanno cose in cui credono, dove aiutare e pensare agli altri non è reato.

Nessuno di noi, seduto in quello spiazzo male asfaltato, con il freddo che passa attraverso i pantaloni e risale fino alla schiena, cerca riconoscimenti.

Siamo qui per sfidare l’indifferenza. Perché ogni minuto che passiamo seduti, uno accanto all’altro, è una dichiarazione al mondo: qualcosa può ancora essere fatto per fermare i poteri che ci governano, ci opprimono, ci uccidono, ci inquinano.

Siamo qui per dire basta. Basta al genocidio. Basta all’impunità. Basta alla menzogna. Per dire che la nostra vita vale quanto quella di chi è imprigionato, ucciso, fatto a pezzi, nella Striscia di Gaza martoriata.

A parte qualche attivista noto, siamo nessuno. Quel nessuno che quando parla non viene ascoltato, che quando scende in piazza viene deriso, ma che ha avuto il coraggio di trascinare un popolo intero fuori dall’indifferenza. Quel nessuno che ha fatto saltare sulle poltrone politici convinti che il silenzio fosse eterno. Quel nessuno a cui hanno dato dei tossici, degli affiliati di Hamas.

Nessuno siamo noi. Nel buio non so più neanche dire se fa freddo. Vorrei mettere la felpa che ho legata in vita, ma mi fanno cenno di restare immobile. Non un gesto, non un respiro di troppo.

Il controllo perduto

Ho trascorso la mia vita professionale a non farmi prendere. Ovunque sia stata a raccontare la guerra, l’obiettivo era sempre lo stesso: tornare con l’articolo e con la pelle. Non dovevo essere rapita, rapinata, molestata. Figuriamoci uccisa.

Avevo imparato le tecniche per evitare il peggio. Ma ora, in questa terra per molti santa e per me maledetta, dove inizia e finisce la storia di un popolo condannato e violato da decenni, tutto quello che avevo imparato, non serve più.

E mi ci sono messa da sola, in questo macello. Sapevamo tutti dove saremmo finiti. Ci siamo preparati e ci siamo andati incontro come animali al macello che sorridono fino all’ultimo minuto.

Provo ad alzare lo sguardo. Dopo diciotto giorni in barca tutto quello che vorrei è sgranchirmi le gambe, ma sono tenuta a terra. Chi viene sorpreso a parlare o a guardare viene costretto a mettersi in ginocchio sull’asfalto rovinato. Intorno, decine di poliziotti armati. Cani d’assalto guidati da uomini col volto coperto.

Sono seduta in uno spiazzo circondato da separatori neri che mi impediscono di vedere oltre. Le gambe incrociate, le mani visibili, la testa bassa. Il passaporto davanti a me, come un pezzo d’identità inutile. Accanto, una marea umana: i compagni di un’avventura che si sta trasformando in incubo.

Anche nei momenti più critici del mio lavoro ho sempre avuto tutto sotto controllo. Ma da quando sono salita sulla Morgana, non controllo più niente. La mia possibilità di scelta è stata annientata. E ora, in questo posto, potremmo scomparire e nessuno lo saprebbe.

Paura? No. Rabbia. Furia pura. Perché abbiamo dovuto fare tutto questo per mostrare cosa accade in una piccola striscia di terra. Siamo dovuti diventare scudi umani, per accendere un riflettore sulla verità. Perché la voce di chi resiste in quella piccola parte di mondo potesse passare attraverso la nostra.

Mi sento in balia di persone che mi odiano. Che non sanno chi siamo e non gliene importa niente. Alzo lentamente gli occhi, sperando che le guardie non mi vedano: osservo i compagni in silenzio, le sagome conosciute sulle altre barche. Cerco quelli che erano con me. Siamo legati da un filo invisibile, creato dal mare.

Li guardo e spero stiano bene. Semanur, la giornalista turca che dormiva con me in cabina sulla barca, è lì. Stretta nel suo velo, lo sguardo rivolto al cielo, le mani giunte come in preghiera.

Vorrei dirle qualcosa, una delle mie battute che avrebbero alleggerito tutto. Ma non posso. Siamo in trappola. Siamo con le gambe incrociate, quando sarebbe umano scappare. Ma non sono i cani o i poliziotti a tenerci fermi. Lo scoprirò dopo. È la nostra coscienza. La scelta di non piegarci, di restare testimoni.

L’umiliazione

Siamo tanti nel piazzale, l’equipaggio di un’intera flotta, ma in realtà, in quel momento, cerco solo i miei otto. E penso a quello che abbiamo voluto per tutti questi giorni: provare a fare la differenza, fermare il delirio dei potenti anche mettendo a rischio i nostri corpi.

Vedo una ragazzina con una maglietta arancione trascinata da due energumeni. Le infilano una bandiera israeliana sotto il braccio, la costringono a portarla mentre la spingono davanti a noi. Poi la sbattono a terra.

È Greta Thunberg – minuscola, quasi fragile. Nei video sembrava alta, forse per la forza della sua voce o forse per il pregiudizio che mi fa pensare che tutte le svedesi siano alte. Invece è uno scricciolo. Uno scricciolo che fa tremare i potenti.
Cavoli, tutti insieme, siamo riusciti a far incazzare un intero sistema. Stiamo di merda, ma siamo fieri. Chissà che sta succedendo in Italia. Siamo al buio e nel silenzio.

Passo un dito sulla scritta dorata del mio passaporto. Uno di quelli “buoni”, che dovevano proteggere gli altri che avevano passaporti difficili come quelli arabi o malesi ma, mentre le gambe cominciano a dolere, non sembra più un privilegio. Mi tiro giù la manica sinistra della maglietta per nascondere il tatuaggio arabo sull’avambraccio. Non voglio provocare, non voglio dargli la soddisfazione.

Guardo uno skipper costretto in ginocchio. Un poliziotto gli spinge la testa a terra con forza. Il suo sibilo di dolore si confonde con il rumore del vento. Semanur mi lancia un sorriso tirato, ci capiamo con un’occhiata: che cazzo ci facciamo qui?!

Allungo la mano per stirare il braccio, allungo un dito a toccare il mio passaporto.
Tutto ciò che mi ha portato qui scorre come un film nella mente. Tutti i miei anni di lavoro, le volte che ho evitato la morte, le storie che ho raccontato. Le persone che ho incontrato. La loro forza mi circonda.

Ora sono seduta su un asfalto straniero, con il fiato dei poliziotti sulla nuca. È come se avessero venduto il cuore all’odio. Come se fossimo diventati trasparenti, animali da scacciare.

Siamo un fastidio. Un bubbone nel corpo del loro genocidio. Una zanzara intrappolata che non puoi uccidere per non sporcarti l’immagine, ma che puoi torturare finché non smette di muoversi.

Governi complici

Per due anni i governi non hanno detto nulla di quello che accadeva ai palestinesi. Senza contare i 75 anni precedenti di occupazione. Figuriamoci quanto possiamo valere noi, una banda di idealisti partiti per portare aiuti a Gaza. Non contiamo niente.
E siamo soli. Almeno così sembra. Scopriremo solo al ritorno quanto ci siamo sbagliati. Senza saperlo eravamo probabilmente, in quel momento, i meno soli della Terra. Dovevamo immaginarlo. Ma loro ce lo impedivano.

Sono passate ore, forse due. Forse di più. Da quando ho buttato il telefono in mare, non ho più contezza del tempo. So solo che ora mi fa male tutto. Ogni tanto portano via dei gruppi. Spariscono dietro i separé. Altri vengono schiacciati a terra, presi a calci, umiliati. Urlano sempre. Sempre. Come se l’urlo potesse dare autorità a chi non ha più dignità.

Ho visto tanta stupidità umana nella mia vita. Nei fanatici, negli estremisti, in chi alza le mani e spegne il cervello. L’ho vista spesso negli uomini, perché le donne sono portate fisicamente alla protezione e all’apertura verso gli altri.

Ma in questi contesti, come in quelli estremisti, le donne sono il volto peggiore degli uomini e le israeliane che ci terranno prigioniere non sfateranno, in nessun momento, questa teoria.

Ci tolgono tutto

“Tu, tu, tu, tu” dice un poliziotto indicandoci.
Ci fanno alzare, in fila indiana, come bambini cattivi. Ci fanno entrare in un hangar enorme, pieno di luci bianche. Sembra un aeroporto: negozi chiusi, metal detector, scrivanie con computer. La luce è accecante. In mano ho il passaporto come una reliquia, sulla spalla lo zaino, a tracolla la borsa con le poche cose importanti.

Passo sotto il metal detector. Una poliziotta bionda mi squadra con disprezzo, gioca col telefono, le unghie rifatte come se andasse a un appuntamento. Un poliziotto comincia a svuotarmi lo zaino, lancia le mie cose a terra.

All’inizio non capisco. Poi sì. Via i caricabatterie, via i vestiti, via i libri, via le medicine. Giocano con le mutande, ridono. Io resto immobile. Ma quando vedo il mio tesserino da giornalista, la penna, il taccuino, sussulto. È come se mi ferissero, è come se mi togliessero la mia identità, sempre se fosse rappresentata da quelle tre cose.

Avevo quel tesserino da quando avevo iniziato questo mestiere 27 timbrini fa con la foto di una ragazzina che sognava di diventare inviata di guerra e che mai nella vita avrebbe pensato di correre a vele spiegate verso una delle peggiori prigioni al mondo, solo per difendere un’idea. Quella in cui tutti hanno diritto di vivere in pace, di essere liberi e di avere giustizia.

Forse avrei dovuto prevederlo, perché sono stata sempre così, non mi viene in mente una sola volta che abbia scritto un pezzo per un motivo diverso da quello di credere che le persone dovessero non essere informate. Sono passati migliaia di pezzi sotto i ponti, problemi, fatiche, parole, voci, storie, decisioni giuste e sbagliate, pericoli accettati e scampati.

Tutto per arrivare lì, davanti a un poliziotto che buttava la mia roba e a una poliziotta svogliata che mi guardava come se fossi la peggiore rottura di cazzo della sua giornata.

Mi tagliano la collanina che non si apre, mi tolgono l’unico orecchino che indosso, contano i soldi fino all’ultimo centesimo. Si prendono tutto. Poco dopo, ci fanno spogliare, una alla volta. Reggiseni, calze, dignità.

Poi un’altra coda. Sempre in fila: un detenuto, un poliziotto. Davanti a me una donna etiope si rifiuta di dire che ama Israele ad una poliziotta che sembra la Barbie, trucco perfetto, naso rifatto, capelli lisci e lunghi. Peccato che un po’ di cervello non si può innestare come un seno o un pezzo di chiappa.

La ragazza risponde che ama solo il suo Paese. La poliziotta ridacchia e le urla addosso. Vorrei difenderla. Ma restiamo fedeli alla resistenza passiva.

Il foglio di via

La parte legale è la più semplice. So cosa firmare e cosa no. Ci siamo preparati prima di partire. Sul braccio ho i numeri scritti a penna: l’avvocata, l’ambasciatore, il contatto di emergenza. Non mi lavo da due giorni per non cancellarli. Firmo per l’espulsione entro 72 ore. Alcuni attivisti non firmano. Io sì, la mia voce vale solo se può uscire da qui.

Karen mi strattona. Non si chiama davvero così, decido io di chiamarla così. Le do un nome per poterla ricordare. Non si dimenticano le cose a cui dai un nome. E se esiste una giustizia nell’universo, un giorno questa donna la rincontrerò in un’aula di tribunale dove sarà lei la detenuta e non io.

All’improvviso, un nugolo di bodyguard. Urla. “Terroristi! Vi tratteremo come terroristi”. È Itamar Ben-Gvir, il ministro della Sicurezza, su di lui pende un mandato del Tribunale Penale Internazionale. Grasso, butterato, volgare. Non è body shaming, è una descrizione precisa del personaggio.

Andiamo avanti. Altri tavoli, altre domande. Mi danno una ricevuta per un sacchetto con i miei documenti. La infilo nelle mutande: credo, scioccamente, che mi restituiranno tutto. Mi sbaglio. Ci verranno rubati soldi, carte di credito, perfino le chiavi delle macchine di qualcuno che non ha fatto in tempo a lasciarle in Italia.

Un agente dell’intelligence mi ferma. È seduto al computer. C’è la mia vita su quello schermo? “Sei stata molte volte in Israele”, mi guarda compiaciuto mentre prova a convincermi che il problema di Gaza è Hamas e che la sua propaganda non ha eguali. Ribatto che se avessero lasciato entrare la stampa internazionale, forse avremmo potuto vedere con i nostri occhi e lui mi guarda come se fossi una bambina che non capisce ancora niente di come funziona il mondo.

Poi, con un sorriso, perché forse sa che è la mia città preferita, mi chiede dove portare la moglie per un weekend romantico a Venezia. A fare in culo, penso. Ma gli dico: “Ai Do Forni”. Il più caro della città. Sorride, soddisfatto. Mi lascia andare. Un altro collega, che mi fa abbandonare lo zaino per terra, mi taglia i lacci degli scarponi e mi mette le fascette ai polsi.

Non sono mai stata legata. Ho paura? No. Sto facendo tutto questo per essere testimone di questa storia. Perché sapevo che, prima o poi, l’avrei raccontato. Lo sto facendo. Ora, in una giornata autunnale di Torino.

Il furgone e il deserto

ricostruzione con l’intelligenza artificiale per rendere l’idea

Mi spingono su un furgone blu scuro di metallo pesante. Niente finestre. Solo corpi. Ogni volta che entra una donna, ci contano. Come se non fossimo solo una in più. Qualcuna è bendata. Le porte si chiudono con clangore di ferro, un colpo secco, come il mondo che si chiude dietro di noi.

Siamo una ventina. Ci saranno almeno 2o furgoni per portarci tutti. La flotta diventa un convoglio. Siamo stanche, distrutte. L’aria condizionata prima al massimo, poi il riscaldamento al massimo. Ci torturano col clima, col tempo, col silenzio, con le urla.

Accanto a me, ritrovo Semanur. Ci tocchiamo le mani, ci parliamo con gli sguardi per riempire il vuoto. Una ragazza continua ad addormentarsi e a sbattere la testa contro il sedile. “Appoggiati a me”, le dico. Finalmente si addormenta.

Le altre pensano a come allentare le fascette. Io ho le mani piccole e snodabili, mi accorgo subito che riesco a sfilare una mano, mi massaggio i polsi e guardo una che spiega alle altre come allentarle. Ci provo anche io, le allento e poi me le rimetto.

Quanto si può essere stupidi a metterci queste fascette che si possono manomettere in cinque minuti? Ci sentiamo molto intelligenti, d’altra parte ci si attacca a tutto. Ci passano da una finestrella qualche bottiglietta d’acqua, non ce n’è per tutti, i tappi non sono sigillati. Non ci fidiamo, possono aver messo veleno o sedativo. Non sappiamo ancora che per le successive 72 ore non avremo mai avuto più un sorso d’acqua se non quella del bagno.

Da quel momento non berrò più, se non un sorsetto perché una delle mie future compagne di cella, che si è eretta a dottoressa dei reni, ci farà bere un bicchierino di acqua del bagno di un inquietante colore giallo. Il sapore farà schifo. E forse avrei fatto meglio a non berla per niente. O forse avrei dovuto bere e stare male, per non stare peggio dopo, quando sarei tornata.

Il viaggio sul furgone di metallo durerà due o tre ore, altro tempo infinito soprattutto quando non lo puoi contare. Da una fessura vediamo deserto ovunque. Stiamo andando a sud, nel deserto del Negev, paradossalmente viaggiamo paralleli a Gaza e a quella striscia di terra che volevamo raggiungere per infrangere il blocco marittimo.

Invece, siamo dall’altra parte, di corsa verso il sud, alla famigerata prigione di Ketziot. La prigione nel deserto. La fine del mondo.

 

Le foto sono ricostruzioni con l’AI per rendere l’idea del posto

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