Parole al vento – Nadia Anjuman
Scritto da Radio Bullets in data Marzo 24, 2023
Ascolta il podcast
Nadia Anjuman: la poetessa afghana che sfidò i talebani – Episodio di Parole al Vento. Scopri la vita intensa di Nadia Anjuman, nata in Afghanistan nel 1980, e la sua resistenza al regime talebano attraverso la poesia. Purtroppo la sua passione le costò la vita, uccisa dal marito il 4 novembre 2005. Un podcast di Dafne Malvasi
«Nacqui a Harat negli anni più agghiaccianti della rivoluzione; portai a termine i miei studi in anticipo, di due anni, nella scuola superiore Mahbubeh Haravi. Attualmente frequento il secondo anno della facoltà di Letteratura e Scienze Umanistiche dell’Università di Harat. Da quando ho memoria di me so di aver amato la poesia. L’amore per la poesia e le catene di sei anni di schiavitù dell’era dei talebani, che mi avevano legato le gambe, hanno fatto sì che, appoggiandomi alla penna e zoppicando, componessi passi ed entrassi nel territorio della poesia. Tuttora, ogniqualvolta compongo un nuovo passo, sento il tremore della mia penna e con essa trema anche la mia anima. Forse perché non mi sento indenne, temo ancora di sdrucciolarmi lungo il percorso; è difficile la strada che ho davanti a me e i miei passi non sono ancora, abbastanza, fermi».
Le PAROLE AL VENTO di oggi sono quelle di Nadia Anjuman, giovane donna afghana che nasce a Herat, appunto in Afghanistan, il 27 dicembre del 1980. Riusciamo davvero a immaginare cosa voglia dire essere una donna o una bambina, in Afghanistan, sotto il regime dei talebani?
Cosa voglia dire essere considerata un non essere vivente?
Essere un corpo che va occultato, una vita che va annientata.
Una voce che va soffocata.
La voce, così come la vita stessa delle donne, deve tacere.
Essere muta, silente, invisibile.
Le donne non esistono.
Le donne sopravvivono a malapena.
Ci troviamo durante la metà degli anni Novanta, al potere ci sono i talebani e alle donne viene vietata qualsiasi forma di istruzione, pubblica o privata. Pochissime sono le attività considerate lecite per le afghane, tra queste il cucito. Nadia ha 16 anni e si iscrive al circolo dell’Ago d’Oro, ufficialmente per partecipare a lezioni di sartoria. Il circolo è in realtà un luogo di resistenza clandestina, dove alle donne viene insegnata la poesia e dove le stesse donne possono, dunque, leggere testi proibiti e confrontarsi con i docenti che sono lì a rischiare, con le allieve, la vita.
In quelle lezioni segrete, una giovane Nadia Anjuman, allora sedicenne, colpisce per il suo talento artistico il professore di letteratura Muhammad Ali Rayhab. È lui a incoraggiarla a scrivere versi, ad ascoltare la sua voce, a maturare il sogno di diventare una poetessa, come quelle che leggeva tre pomeriggi a settimana a costo della vita. La storia di Nadia Anjuman è la storia di una fiducia incrollabile nella parola. Di un sogno che vuole diventare realtà, a ogni costo. Quando il regime talebano, cade nel 2001, Nadia decide di proseguire gli studi. Anjuman, infatti, è finalmente libera di proseguire le lezioni che fino a quel momento le erano state negate: si iscrive alla facoltà di Lettere di Herat nel 2001 stesso e si laurea appena un anno dopo.
«A voi, ragazze isolate del secolo
condottiere silenziose, sconosciute alla gente;
voi, sulle cui labbra è morto il sorriso,
voi che siete senza voce in un angolo sperduto, piegate in due,
cariche dei ricordi, nascosti nel mucchio dei rimpianti,
se tra i ricordi vedete il sorriso
ditelo:
Non avete più voglia di aprire le labbra,
ma magari tra le nostre lacrime e urla
ogni tanto facevate apparire
la parola meno limpida».
I passi che Nadia Anjuman muove nel territorio della poesia provengono dall’infanzia, da un amore viscerale per la scrittura, ma trovano la loro più profonda e atavica ragion d’essere anche nella schiavitù patita, causata dai talebani. Tutte le parole di Nadia Anjuman sono denuncia e lamento. A tratti vuoto e impermanenza. La sua poesia appare una disillusione cupa che si incammina verso una vita di rassegnazione scandita dalla libertà violentemente negata a ciascuna donna, la cui voce non può osare parlare, non può osare cantare, non può osare declamare versi.
«Che cosa dovrei cantare?
Io, che sono odiata dalla vita.
Non c’è nessuna differenza tra cantare e non cantare.
Perché dovrei parlare di dolcezza?
Quando sento l’amarezza,
L’oppressore si diletta.
Ha battuto la mia bocca.
Non ho un compagno nella vita.
Per chi posso essere dolce?
Non c’è nessuna differenza tra parlare, ridere,
Morire, esistere.
Soltanto io e la mia forzata solitudine
Insieme al dispiacere e alla tristezza.
Sono nata per il nulla.
La mia bocca dovrebbe essere sigillata.
Oh, il mio cuore, lo sapete, è la sorgente.
E il tempo per celebrare.
Cosa dovrei fare con un’ala bloccata?
Che non mi permette di volare.
Sono stata silenziosa troppo a lungo.
Ma non ho dimenticato la melodia,
Perché ogni istante bisbiglio le canzoni del mio cuore
Ricordando a me stessa il giorno in cui romperò la gabbia
Per volare via da questa solitudine
E cantare come una persona malinconica.
Io non sono un debole pioppo
Scosso dal vento
Io sono una donna afghana
E la (mia) sensibilità mi porta a lamentarmi».
Nel 2005 esce la sua prima raccolta poetica, Fiore di Fumo. Ma è il 4 novembre 2005, quando muore. La causa della sua morte è sicuramente da imputarsi a percosse multiple alla testa da parte del marito. Il pretesto pare essere stato una lettura pubblica di alcune poesie di Nadia, da cui nasce una lite furibonda tra i due. Il marito, ricercatore universitario della facoltà di Lettere, non approva la carriera artistica della moglie, la ritiene non consona per una donna. Il fratello di Nadia parla di invidia da parte del marito di Nadia. Quello che forse ancora di più turba è che lui venga regolarmente processato, assolto un anno dopo il fatto e, dopo un breve tempo trascorso in carcere, riottiene il suo incarico universitario risultando riabilitato e senza colpe di omicidio nei confronti della legge. Per le autorità afghane, infatti, Nadia è morta d’infarto oppure si è suicidata. Questo non fa alcuna differenza. È lei la colpevole in quanto donna, in ogni caso: colpevole della propria vita e colpevole della propria morte.
«Divento fumo nello spazio del mio credo
Lentamente mi avvolgo e mi anniento
Finché vengo allevata dalle mani dell’ansia.
Nell’abisso del cuore i miei battiti aumentano
E quel battito intende conoscere la terra della fossa del tardi.
Mi preparo al momento trascorso,
A volte dall’amore arido e dal buon miraggio di una nuvola
Mi trasformo nel più arido deserto salato.
Ma l’immaginazione dei miei occhi mi trasforma in acqua.
Nel letto della morte per sete, mi trasformo in ruscello
Se arriva a me il capo di uno dei fili della speranza
Divento l’ordito nella sottile trama del cuore.
Questo se n’è andato senza commiato, l’immaginazione mi porta via
Sono ancora io che mi riempio di ricordi
Anche la notte un po’ alla volta va per la sua strada e io
Divento il più triste canto d’addio».
Dafne Malvasi
Sono Dafne, una napoletana che non ama il caffè ma ha una venerazione per la mozzarella di bufala.
Leggo, ascolto, scrivo e racconto storie di donne: le loro parole e le loro vite come forma di (r)esistenza. Amo la poesia e i sud del mondo. E tutto ciò che non conosco e mi sorprende con una felicità inattesa.
Ascolta/leggi anche:
- Parole al vento – Anna Gréki
- Europa: allerta fentanyl dopo il divieto talebano di coltivare l’oppio
- Afghanistan: chiusa stazione radio femminile per aver messo della musica
- Afghanistan: i talebani vietano alle donne afghane impiegate all’ONU di lavorare
- Afghanistan: le donne dell’Onu protestano contro il bando del lavoro dei talebani
- Arriva a Roma la cucina bantù
- DNA, dovrei nascere ancora
E se credi in un giornalismo indipendente, serio e che racconta il mondo recandosi sul posto, puoi darci una mano cliccando su Sostienici