Tre Kilwa e un cambio di programma
Scritto da Eleonora Viganò in data Marzo 28, 2019
A Kilwa Masoko ci sono rimasta qualche giorno: non li ho contati e ciò che ho fatto si è amalgamato, confondendosi tra un giorno e l’altro. Ho inventato luoghi da visitare e ho rallentato per poter restare. Mancava poco più di una sola settimana al rientro e da lì non potevo che tornare a Dar, senza allontanarmi troppo. Sono stata nei soliti mercati e nei soliti locali? Sì, mercati che però sono vie stette di costruzioni esili in legno, dove sostano pentoloni, uomini che arrivano con dhow carichi di pesce da mettere a seccare su tavole che sono palafitte, uomini con i coltelli per pulire il pesce e donne che mescolano con i bambini nelle fasce. I mercati sono giochi da tavolo sotto i porticati, il biliardo o un caffè, seduti in attesa. I locali sono come i chioschi al mare, le sedie e i tavoli in plastica, fuori all’aperto, una tettoia di paglia o lamiera sulla testa. Le patatine fritte si trovano ovunque: nella frittata, per esempio. I resti storici sono mura, moschee ben conservate su isole quasi disabitate, sono porte che danno sull’oceano. I rientri possono essere dolci, su bus moderni o su dala dala pigiati stretti. Può essere che ti svegli pensando di tornare e restare a Dar e invece poi…
Eleonora Viganò per Radio Bullets.
Photo credits: Eleonora Viganò
Il viaggio in Tanzania è ricco e intenso: scopritene tutte le tappe.
Se invece siete alla ricerca di ispirazioni di viaggio…
Prima della Tanzania, la nostra Eleonora Viganò ci ha raccontato la sua esperienza in Etiopia.
Vi ricordiamo inoltre che potete ascoltare il nostro notiziario quotidiano, a cura di Barbara Schiavulli, Paola Mirenda e Cecilia Ferrara con i Balkan Bullets.
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A Kilwa Masoko ci sono andata per vedere un’isoletta poco distante – Kilwa Kisiwani – dove nessuno può restare a dormire, a meno di non essere ospite di qualche abitante del posto. Ero con una guida Dulah – non ci si può andare soli –, con un uomo anziano scozzese, piccolo e con una lieve gobba e una coppia composta da un viaggiatore, un marinaio australiano che lavorava a stagione e passava molto tempo viaggiando, e una donna del luogo, forse conosciuta più a nord o più a sud e con la quale ha iniziato a spostarsi per il paese su una 4×4 noleggiata.
A Kilwa Kisiwani c’è una moschea, anzi più d’una, ben conservata. C’erano scorci, baobab, i ragazzi che andavano a scuola, c’erano rovine e resti di un impero di cui la storia è rimasta là, un po’ sfumata: ché non sono queste le cose del viaggio che restano. L’isola è stata per molto tempo al centro di una rete commerciale. C’erano i sultani e da qui passavano le merci – l’oro – che dallo Zimbabwe andavano in Cina, India e Persia. Nel XVI secolo diventò una colonia portoghese. Come potenza commerciale, Kilwa Kisiwani ritornò in auge nel XVIII secolo. Intorno al 1780 subì la dominazione di un sultano omanita per poi tornare libera quasi un secolo più tardi. Queste informazioni le ho lette, anche se sono certa che Dulah me ne abbia parlato quel giorno, mentre camminavamo tra le rocce, le mura, i resti. Mi ricordo una porta, da quanto era bella e per quanto fosse bella la vista da lì, sull’oceano. Dulah ci aveva raccontato qualche leggenda, lo so, ne sono sicura, ma purtroppo si è stemperata nella mente insieme a tante altre parole ascoltate o pronunciate. Quando la memoria si affievolisce, mi chiedo sempre cosa resta del viaggio.
Per prolungare la mia permanenza a Kilwa sono andata anche nella vicina Kilwa Kivinje: ho preso un dala dala e ho incontrato di nuovo il signore anziano del giorno precedente. Parlava a stento, all’inizio, con un accento molto stretto: stava viaggiando da solo percorrendo la parte a sud del paese, quella che io non avevo fatto. Gli ho fatto molte domande per capire come fosse quella parte, per decidere se andarci o meno. Sapevo già che non lo avrei fatto, mi ero messa in testa di voler andare in altri luoghi e avevo la paura del tempo: le lunghe distanze, i mezzi spesso lenti e la necessità di dover cambiare spesso e di dover poi tornare indietro mi facevano desistere dall’idea di allontanarmi troppo. Ho preso comunque le informazioni su Iringa e altre cittadine di quella zona, per nulla turistiche e spesso molto isolate.
Era del sud, di Lindi precisamente, anche l’uomo che mi aveva invitata in un locale mentre vagavo al buio in cerca di connessione: aveva l’auto, non ricordo che lavoro facesse. Il suo amico era il proprietario del locale. Mi offrirono giri di birra e patatine. L’uomo che mi aveva invitato aveva un nome strano tipo Padrenostro o Diobenedetto, non riuscivo a ricordarlo.
Mi teneva la mano e mi andava bene. Non aveva fatto altro che darmi il suo numero, parlare con me, fino a quasi fingere di litigare, di film: adorava il Padrino. Mi aveva chiesto di avvisarlo quando sarei stata libera: ma io, che non ricordavo mai il suo nome, non ho più ritrovato il numero in rubrica. Non sono riuscita a salutarlo, prima di partire, ma lo avevo rivisto di sfuggita il giorno del derby.
Ritornando al nostro signore anziano che aveva girato per il sud, con lui sono andata a Kilwa Kivinje, per caso. Inizialmente abbiamo preso vie separate per gironzolare per la città fino a quando non ci ha unito un caffè bevuto in una delle loro postazioni sulla via del mercato. Era un mercato diverso dagli altri: una via unica, stretta e piena, piena, piena di costruzioni in legno; piccole casette in cui servire il caffè, preparare il pesce o cucinarlo, baracchini per le bibite, palafitte basse e piatte sulle quali depositare il pesce per farlo essiccare al sole, appoggi in legno per pulire e tagliare il pesce. Pentoloni ovunque e reti e forse anche dhow e uomini con i coltelli e donne con le fasce e dentro le fasce i bambini. Bambini che scorrazzavano o giocavano all’ombra di portici e verande ché il caldo era intenso e la polvere di terra chiara fastidiosa. Due bambini stavano giocando a un gioco da tavolo: c’erano delle cavità e delle biglie ma non sono riuscita a capire le regole. Abbiamo visto il boma tedesco e ho apprezzato le vie fatiscenti e deserte, dopo il caos del mercato.
Il giorno dopo ho preso un bus alle sei, per tornare a Dar: sarei andata in ostello, avrei lavato i miei vestiti e avrei scelto la prossima meta. Pensavo.
Erano le otto, eravamo partiti da due ore e iniziavo ad avere fame, senza colazione.
«Ehi sista. Take it». Un ragazzo mi aveva passato una pannocchia calda, i chicchi erano bianchi. L’uomo con il secchio pieno di pannocchie camminava avanti e indietro nel corridoio di un bus nuovo e comodo.
Poi è salito quello che vendeva le uova sode. Finite le vendite, è sceso.
Anche qui, come sempre, a ogni fermata donne e ragazzi portavano sulla testa catini colmi di mercanzie. Li alzavano all’altezza finestrino: si sceglieva e si pagava. Di solito si trattava di frutta secca in sacchetti, bibite, biscotti. Quel giorno avevamo a disposizione anche pesce fritto, riso, qualche mortaio e diversi taglieri.
Quando siamo arrivati a Dar erano solo le 10:15.
Scendendo ho chiesto a due ragazzi quale fosse il dala dala per Kinondoni: il mio zaino viola era là in ostello. Con me avevo quasi sempre portato solo uno zainetto della kappa blu con tre canottiere, una maglietta, tre pantaloni, un asciugamano, biancheria, infradito, costume, un beauty essenziale, la carta igienica, un quaderno, un libro, la guida, la macchina fotografica.
Come quel mattino, il mio pensiero ero lo stesso: arrivare a Dar, fiondarmi in lavanderia e organizzare l’ultima settimana che avrei voluto fosse la prima.
Ho fermato quindi i due ragazzi, chiedendo come raggiungere il mio ostello che si trovava in una via che si chiama come il quartiere e forse per questo nessuno lo trovava mai. Ho suggerito un deciso: «Makumbusho», dai ricordi di tratte precedenti.
I due ragazzi mi hanno accompagnato tra chiasso, salti, stai attenta, schiva, bus, mercato, colori, colori, colori, sete e caldo e clacson.
Uno mi ha guardato e mi ha detto: «noi andiamo a Zanzibar alla una, andiamo al porto ora».
Ci ho pensato il tempo di un paio di passi.
«Zanzibar? Ora? Vi seguo!».
Si sono guardati, mi hanno ripetuto cosa avrebbero fatto e mi hanno chiesto di Kinondoni.
Gli ho spiegato che avrei dovuto solo andarci per lavare i vestiti, riposare e organizzarmi. In realtà non serviva: avrei lavato tutto a Zanzibar. Anche a mano, volendo. Il passaporto c’era. La guest house l’avrei trovata là, come sempre.
«Andiamo!».
Quando siamo arrivati mi hanno portato da un uomo per contrattare un biglietto del traghetto. Ho chiesto alla biglietteria ufficiale. Avevo caldo e fame. C’erano file diverse a seconda del tipo di barca. Mi sono sentita in colpa ma ho fatto la turista bianca prendendo il traghetto più sicuro che sarebbe partito molto più tardi. Ho mangiato in una baracca sudicia poco distante e nemmeno ricordo bene cosa. Ricordo un uomo che mi aveva fatto molte domande.
Finalmente, dopo molta attesa, il traghetto parte e mi sono ritrovata a Stone Town, stordita.
Ho diviso il taxi con un altro viaggiatore turco appena arrivato in Tanzania. Balbettava, era insicuro e diffidente.
Il tassista tentava infatti di portarci fuori Stone Town ma io avevo imparato a essere molto categorica. «No».
Il turco ripeteva: «dove ci porta? Dove stiamo andando?». «È tutto ok, andiamo a vedere due o tre guest house in città».
Quella sera è stato come se fossi uscita dalla mia bolla leggera. Non c’era nulla della Tanzania vista fino a ora. I mzungo erano ovunque, tirati a lucido. La zona dei giardini è studiata per noi e mi sono sentita fuori posto. Ho visto i primi veri negozi di souvenir. Mi sono presa la prima vera fregatura: ero abituata ai prezzi dei villaggi di pescatori e non avevo con me abbastanza soldi per la cena. Un ragazzo mi ha accompagnato al mio lodge per recuperare i soldi che mancavano per poi portarmi in un bar con la musica taarab: una sorta di neomelodico arabeggiante cantato in swhaili.
Domani sarei rimasta ancora a Stone Town, ma io con la mente stavo già cercando i miei pescatori.