Tutta colpa della cassava cruda
Scritto da Eleonora Viganò in data Maggio 2, 2019
Per andare sul Kilimanjaro sono tornata alle mie radici: mi sono allenata per mesi sulle montagne della mia infanzia, quelle in cui sono cresciuta, tra Como e Lecco. Ho rivisto più spesso amici e parenti, ho conosciuto Grigna e Resegone, ma mi sono spinta anche più in là in Svizzera o a Bergamo. Per andare lontano sono tornata a me stessa e mi sono affidata. Come per altri viaggi ho esplorato le cartine per leggere nomi di città ignote che mi sarebbero divenute familiari con il tempo. Quando sono arrivata ho conosciuto altri viaggiatori, ciascuno con la sua storia: l’irlandese che vive in Nuova Zelanda, la coppia del Texas, Maddalena, cooperante dopo anni come psicoterapeuta. Ho incontrato le santone dei villaggi, emigrati in Europa di ritorno per trovare la famiglia, ricchi uomini d’affari, giovani che stanno costruendo lodge per turisti, guide brave e meno brave, polizia corrotta, lo strozzino di Pangani, uomini che si offrono al turismo sessuale, donne energiche come Yusta o Neema. Alla fine del viaggio mi sono aggrappata a tutto ciò che avevo vissuto e a chi sono diventata.
Il viaggio – dicono – si compone di tre parti: la preparazione, il percorso, il ritorno.
Eleonora Viganò per Radio Bullets.
Photo credits: Eleonora Viganò
Il viaggio è finito il cinque settembre 2017 dopo trentatré giorni: li avevo contati con le dita della mano all’arrivo in aeroporto, per completare le scartoffie burocratiche; li conto ora per fare i bilanci, come si è soliti dopo un viaggio e ancora di più dopo un viaggio nel viaggio.
In quei giorni ho sperimentato gli estremi: scarponi e bastoncini da trekking, pinne e boccaglio, tende, lodge, un solo ostello, guest house. Ho viaggiato in aereo, dala dala, boda boda, bus, bicicletta, jeep, tuk tuk, traghetto, dhow, a piedi, in taxi e auto private.
4.600 metri sul livello del mare e poi fino all’Oceano.
Ho dormito con cinque o sei strati di vestiti addosso o con l’aria condizionata. Non mi sono lavata per sei giorni: avevo solo due bacinelle di acqua calda, sera e mattina.
Ho osservato la micro comunità dei dala dala. Un controllore dice dove mettersi, organizza spazi, riscuote soldi. Le donne cariche di borse lasciano i figli al primo che li prende in braccio e si accucciano dove capita. Ci si parla, ci si sposta, ci si aiuta. Le merci passano di mano in mano. Nessuno segna confini o marca territori: uno spazio che non è né mio né tuo. Gli anziani hanno la precedenza naturale.
Ho visto donne aggiustarsi gli occhiali tra due pezzi di stoffa neri, donne colorate, donne che allattano ovunque siano. Ho visto mille modi per coprirsi il capo e altrettanti per tenerlo libero. Ho sentito dire che sono in pace perché le tribù si mescolano, ma il figlio prende comunque il nome della tribù del papà. Ho visto musulmani e cristiani e hindu convivere bene.
Gente! Quanta gente ho conosciuto! Troppa, tanta. Non tutta bella, ma la maggior parte sì. Ho imparato a rinunciare – la vetta, Mafia, il Tanganika –, ad accettare e a discutere quando serve. E ho imparato il «che m’importa?» Ho preso fregature, ho sorriso. Ho abbracciato la dipendenza dall’altro: una guida, un autista, una persona appena incontrata. Ho pescato nella fiducia.
Ho capito perché la prima domanda che mi fanno è: «quanti figli hai?» Ho sentito storie di chi si sposa per interesse; di chi vive con un coltello alla cintola e un bastone in mano.
Ho capito il “pole pole” e il tutto si aggiusta, tutto girerà. Ho eliminato il controllo. Ho visto montagne, isole, villaggi, pescatori, storia, oceano, laghi e fiumi. Ho mangiato nei vicoli, negli “hoteli”, nelle bettole e in qualche posto carino. Chapati, riso, frittate di patatine fritte, ugali, pesce, pesce e ancora pesce, due aragoste. La colazione che non scordo? Frittelle di riso e pesciolini del lago Vittoria. Il posto peggiore: la tristezza turistica di Stone Town. Kilwa Masoko è il ricordo più intenso. Ogni pomeriggio, un uomo che avrà per sempre 50 anni si reca al tavolino di legno in piazza, accanto al mercato, con i suoi thermos di caffè: 200 schelling la tazza grande, 100 quella piccola. Le pupille dilatate e intorno un blu profondo.
Ho visto capanne, case in mattoni, case in terra e pali di legno, grattacieli, ville. Case mai finite.
Strade: strade sterrate, asfaltate, sassose, sabbiose, polverose. Ho trattenuto i loro colori; musica e rumori che qui sono ovunque.
Sto tornando, nel racconto è il momento di tornare piangendo e di aggrapparsi con le unghie al sedile del taxi che mi sta portando in aeroporto o al cancello enorme dell’ostello che mi ha rivisto per la quarta volta passare da lì con i miei traffici di lavanderie e di zainetti piccoli per spostamenti brevi. È il momento di riordinare i ricordi, di tornare in ufficio con quell’aria un po’ svagata di un’aliena che ha un fuso interno non tanto d’orario – un’ora cosa cambia – quanto di modi di affrontare il tempo. È il momento di ringraziare chi si è conosciuto male o bene, in poco tempo, e tutto ciò che si è imparato.
Prima di partire non sapevo che esistessero Moshi, Arusha e Mwanza. Non sapevo che gli albini venissero uccisi e che ora sono protetti, non sapevo che suono avesse lo swahili e che le fermate di Dar es Salaam sono moderne e nuovissime. Non sapevo che al centro ci fosse un sito di pitture rupestri, a Kolo vicino a Babati, che sapore avesse l’ugali o che colore l’acqua dell’Oceano proprio in quel punto né che il dhow fosse una barca di legno di mango con le sue bellissime appendici in legno, non sapevo che avrei amato i baobab e litigato per la prima volta in viaggio né che le tribù sono fake per i turisti, quelle visibili: anche se ovviamente esistono davvero. La notte è nera e alla fine capita di trovare sempre qualcuno che cammina in queste notti: per andare dove? Dove vanno, da dove arrivano? Non sapevo che non si potesse guidare di notte e che la polizia si sarebbe fatta corrompere con me in auto, verso Arusha.
È il momento di tornare e ammalarsi. Sì, perché io mi ammalo almeno due volte l’anno: la prima è a marzo, la seconda a settembre, prima ancora che qualsiasi indagine epidemiologica sia arrivata dall’Australia, quando in farmacia sugli scaffali ci sono i solari da smaltire e qualche fermento lattico: mi ammalo soprattutto quando torno.
Mi ammalo di ciò che potremmo brevemente chiamare sindrome da rientro, meglio nota – anche se inappropriata – come mal d’Africa, d’Asia o Sud America, nostalgia, ossessione e compulsione all’acquisto di voli aerei per località distanti.
Quando torno mi ammalo di entusiasmo e adrenalina che si schiantano al suolo insieme all’aereo quando atterra a Malpensa. Quando sento le prime parole nella mia lingua, la ruvidezza, l’individuo polemico, lo scontato, il già visto, il razzismo, la cultura minima, il sogno infranto, il macigno dei divieti, delle norme, di ciò che non si può.
Mi ammalo anche davvero, quando torno, come l’ultima volta: devo aver inavvertitamente mangiato la cassava cruda, a Nyamisati, mentre attendevo la notte per andare sull’isola che non ho mai raggiunto.
Dopo dieci giorni dal rientro ero ancora dolorante di stomaco, senza voce, con sintomi misti e inattesi tra raffreddore, subbuglio intestinale, spasmi e crampi un po’ ovunque, lì, da quelle parti tra stomaco e colon.
Ero sola, ero stanca.
Una mia amica mi ha portato al pronto soccorso. Stavo malissimo: non mi reggevo in piedi: la testa faceva male. Ero piena di punture di insetto sulle gambe, dopo Ukerewe o dopo Mwanza. Dopo un luogo, insomma, in cui la gente di malaria muore: i bambini, quelli poveri soprattutto. Avevo le gambe crivellate di ponfi rossi e rosa con un alone bianco intorno. Come in Brasile, ma in Brasile non erano zanzare: prima non c’erano e poi, d’improvviso, mentre aspettavo in aeroporto un volo interno, eccoli quei puntini rossi piccoli piccoli come capocchie di spillo. È un acaro, mi aveva detto Gabriela. In Brasile me l’ero cavata comprando una pomata per le punture di insetto. In Tanzania il farmacista mi aveva dato un generico loperamide: ha tagliato un blister e lo ha infilato in un sacchettino di plastica trasparente scrivendo la posologia a penna.
Ero in accettazione: «sono tornata da dieci giorni» dico. «Tanzania» dico. «No, niente antimalarica. Vaccino contro il tifo, poi, ecco sono coperta contro l’epatite A, B, il tetano…».
Mi sono seduta
«Viganò. Stia qui» mi dicono: in isolamento. «Non deve uscire».
Mi sono sdraiata sul lettino, mi hanno messo la mascherina e ho dormito. Le cinque del mattino sono arrivate subito tra domande, esami e tachipirina.
«Ha un’infezione intestinale».
Maledetta cassava cruda.
Mi hanno dimesso troppo presto per i bus e i taxi. Troppo tardi per chiamare Silvia.
La tachipirina in endovena aveva già esaurito il suo sortilegio.
Mentre cercavo di raggiungere la portineria esterna, prima del parcheggio dell’ospedale, ho ripensato alla paura dopo il sud est asiatico: avevo la febbre molto alta appena scesa dall’aereo. Piagnucolavo qualcosa come: «la prossima volta giuro che faccio la profilassi, giuro, giuro, giuro» o a quando mi hanno curato con il tè allo zenzero, in India.
Mi ammalo, ogni tanto: quando parto a volte. Più spesso quando ritorno.
Il viaggio in Tanzania è ricco e intenso: scopritene tutte le tappe.
Se invece siete alla ricerca di ispirazioni di viaggio…
Prima della Tanzania, la nostra Eleonora Viganò ci ha raccontato la sua esperienza in Etiopia.
Vi ricordiamo inoltre che potete ascoltare il nostro notiziario quotidiano, a cura di Barbara Schiavulli, Paola Mirenda e Cecilia Ferrara con i Balkan Bullets.
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