23 luglio 2025 – Notiziario Mondo
Scritto da Barbara Schiavulli in data Luglio 23, 2025
- Gaza: il personale ONU sviene per la fame, mentre Israele spara su chi va a cercare aiuti.
- Bangladesh: un jet militare si schianta su una scuola.
- Venezuela-El Salvador: migranti maltrattati, Caracas accusa Bukele.
- Brasile: giornalista scopre in diretta il corpo di una ragazzina scomparsa
Introduzione al notiziario: la pace, una scelta necessaria
Questo e molto altro nel notiziario di Radio Bullets a cura di Barbara Schiavulli
Israele e Palestina
In 48 ore, operatori delle Nazioni Unite a Gaza sono svenuti per la fame e l’esaurimento mentre tentavano di portare aiuti in mezzo alle macerie.
Lo denuncia l’UNRWA, l’agenzia dell’ONU per i rifugiati palestinesi, che parla di una crisi umanitaria ormai fuori controllo.
“Cercare cibo è diventato letale quanto i bombardamenti”, ha detto Juliette Touma, direttrice della comunicazione.
Dall’inizio delle operazioni del cosiddetto Gaza Humanitarian Foundation, sostenuto da Israele e Stati Uniti, oltre 1.000 palestinesi sono stati uccisi mentre cercavano di accedere agli aiuti alimentari.
Lo rivela l’Ufficio ONU per i diritti umani. Il 73% delle vittime è stato colpito nei pressi dei centri di distribuzione del GHF, spesso sotto il fuoco di cecchini.
A @WHO staff member in #Gaza remains in detention by the Israeli military.: https://t.co/x59yzsM5yg
WHO demands the immediate release of our colleague. We call for the protection of all humanitarians.
A ceasefire in Gaza is overdue! pic.twitter.com/tpYhGTkrQM
— Tedros Adhanom Ghebreyesus (@DrTedros) July 22, 2025
La fame come arma
Il prezzo della sopravvivenza è ormai proibitivo: 200 dollari per un sacco di farina, 3 dollari per un pannolino, quando si trova.
Le madri usano sacchetti di plastica al posto dei pannolini, i padri tagliano le proprie camicie per creare assorbenti per le figlie.
Quasi 100.000 donne e bambini soffrono di malnutrizione acuta grave, ha confermato il Programma Alimentare Mondiale.
E mentre 6.000 camion carichi di cibo, medicine e forniture igieniche attendono inutilmente ai confini con Gaza, la distribuzione “alternativa” affidata al GHF si rivela per l’ONU un “meccanismo sadico” di controllo e morte.
“Gli aiuti non sono affare da mercenari”, ha dichiarato UNRWA.
Attacchi all’ONU: evacuati, arrestati, bruciati
Lunedì, a Deir al-Balah, l’esercito israeliano ha colpito il magazzino principale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, costringendo il personale a evacuare sotto le bombe, tra fuoco ed esplosioni.
Alcuni operatori sono stati ammanettati, interrogati, spogliati e trattenuti con le armi puntate. Uno di loro è ancora detenuto.
Nel frattempo, il 94% delle strutture sanitarie è danneggiato e metà degli ospedali non è più operativa. Circa 1.500 operatori sanitari sono stati uccisi dall’inizio della guerra, secondo le autorità di Gaza.
Gaza sotto silenzio
Le Nazioni Unite denunciano anche il blocco sistematico dei visti per medici internazionali, impedendo l’ingresso a decine di specialisti, e la totale assenza della stampa internazionale.
Il commissario dell’UNRWA è persona non grata: da oltre un anno Israele gli nega l’ingresso a Gaza e in Cisgiordania.
Quando chi porta aiuti sviene per la fame, quando chi salva vite viene preso a fucilate, quando le telecamere vengono tenute lontane e le parole si bruciano insieme ai magazzini, non si tratta più di una crisi.
Si tratta di una vergogna storica.
Negare cibo, cure, visibilità: sono strumenti di guerra. Ma se la fame diventa una trappola e gli aiuti un’esca mortale, la responsabilità non è solo di chi spara, ma anche di chi tace.
Signori e signore mie, è il momento di rompere il silenzio.
■ GAZA: Il Ministero della Salute guidato da Hamas ha riferito che 72 palestinesi sono stati uccisi e 376 feriti in attacchi israeliani nelle ultime 24 ore.
Cinque sono stati uccisi mentre attendevano di ricevere aiuti umanitari , ha affermato il Ministero, aggiungendo che 59.106 persone sono state uccise dall’inizio della guerra.
Il sindacato dei giornalisti dell’agenzia di stampa AFP ha avvertito che i suoi giornalisti a Gaza rischiano di morire di fame , aggiungendo che uno dei loro fotografi ha recentemente scritto su Facebook di “non poter più lavorare nei media.
Il mio corpo è troppo magro e non posso più lavorare”. “Ci rifiutiamo di vederli morire”, si legge nella dichiarazione.
Oltre 100 organizzazioni umanitarie hanno denunciato che una “carestia di massa” si sta diffondendo nella Striscia di Gaza e che anche i loro operatori stanno soffrendo gravemente a causa della carenza di cibo.
In una dichiarazione, i 111 firmatari, tra cui Medici Senza Frontiere (Msf), Save the Children e Oxfam, hanno avvertito che “i nostri colleghi e coloro che assistiamo stanno morendo”.
Polonia
La Polonia sta preparando un manuale di sopravvivenza per la popolazione, in caso di guerra o catastrofe naturale.
Il “Safety Guide”, una guida di 40 pagine, sarà distribuito a partire da settembre a tutte le 14 milioni di famiglie del Paese. Obiettivo: rafforzare la resilienza nazionale in un contesto regionale sempre più instabile.
Il libretto includerà istruzioni pratiche su come reperire acqua potabile, rispondere a raid aerei o blackout e individuare rifugi antiaerei.
Sarà disponibile anche in inglese, ucraino, braille e in versione per bambini.
Paura reale, risposta pragmatica
Il governo polacco, guidato da Donald Tusk, insiste da mesi sulla concretezza del rischio bellico, soprattutto dopo l’invasione russa dell’Ucraina e tra continue accuse di sabotaggi, disinformazione e attacchi informatici provenienti da Mosca.
Minacce che il Cremlino respinge, ma che Varsavia considera gravi e credibili.
“La guerra non si vince solo sul fronte,” ha dichiarato Robert Klonowski del ministero dell’Interno. “L’esempio ucraino lo dimostra chiaramente.”
Il manuale avverte che in caso di crisi potrebbero mancare cibo, medicine e carburante.
Russia e Ucraina
È previsto questa settimana, a Istanbul, il terzo round di colloqui tra Ucraina e Russia: un altro tentativo formale per arrivare alla pace, ma senza grandi aspettative.
L’Ucraina ha indicato il 23 luglio, la Russia il 24. La verità è che l’unico tempismo davvero rilevante è quello imposto da Donald Trump: entro 50 giorni vuole un accordo, oppure minaccia nuove sanzioni contro Mosca.
Finora, i negoziati – iniziati il 16 maggio – hanno portato solo a scambi di prigionieri e di salme. Nessun passo avanti su un cessate il fuoco, e ancor meno su un’intesa politica.
Le posizioni restano agli antipodi: la Russia insiste su condizioni irricevibili per Kyiv – tra cui la cessione di territori e la neutralità permanente – mentre l’Ucraina si rifiuta di legittimare l’invasione del 2022.
Un gioco politico sotto pressione americana
Più che un processo di pace, quello in corso appare come un teatro diplomatico condizionato da Washington. Trump, dopo mesi di accuse a Zelenskyy, ha virato bruscamente contro Putin, irritato dai continui bombardamenti russi su città ucraine.
Ora vuole un accordo, o quanto meno il simulacro di una trattativa. E sia Mosca sia Kyiv cercano di apparire “ragionevoli” agli occhi americani, per evitare di perdere l’appoggio – o il favore – del presidente USA.
Zelenskyy vorrebbe usare i colloqui per ottenere un incontro diretto con Putin, ma il Cremlino lo rifiuta. Peskov ha già messo le mani avanti: “Non ci saranno miracoli”.
Una finestra che si chiude per Mosca
Nonostante i suoi obiettivi di guerra rimangano invariati, Mosca potrebbe temere di spingersi troppo oltre e perdere definitivamente la possibilità di un dialogo con gli Stati Uniti.
Anche perché, nonostante l’ambiguità americana, le forniture militari a Kyiv stanno riprendendo, sebbene a pagamento e con intermediari europei.
Il rischio per il Cremlino è di trovarsi isolato e di non poter più influenzare la narrativa di Trump – che, pur in cerca di un accordo, ha dichiarato: “Putin ci tira addosso un sacco di stronzate”.
Frase che, nel linguaggio trumpiano, suona quasi come una minaccia.
Stati Uniti
Gli Stati Uniti si ritireranno ufficialmente dall’UNESCO entro la fine del 2026. L’annuncio è arrivato martedì dal Dipartimento di Stato, soltanto due anni dopo che Washington era rientrata nell’agenzia culturale dell’ONU sotto l’amministrazione Biden.
La portavoce del Dipartimento di Stato, Tammy Bruce, ha dichiarato che la permanenza nell’organizzazione “non è nell’interesse nazionale degli Stati Uniti”, citando un’agenda “globalista” e “ideologica” incompatibile con la politica estera “America First” del presidente Donald Trump.
Palestina, sviluppo sostenibile e retorica anti-israeliana: i motivi dell’addio
Nel mirino, ancora una volta, la decisione dell’UNESCO di accettare la Palestina come Stato membro – definita “altamente problematica” da Washington – e l’impegno dell’organizzazione per gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile, ritenuti troppo ideologici e “divisivi” dal governo americano.
Trump, che aveva già ritirato gli Stati Uniti dall’UNESCO nel 2018 durante il suo primo mandato, ha ordinato una revisione generale dei rapporti con l’ONU pochi giorni dopo il suo ritorno alla Casa Bianca a febbraio.
Ha accusato l’ONU di “potenziale tremendo, ma mal gestito”.
L’eredità culturale come campo di battaglia geopolitico
L’UNESCO è nota soprattutto per il suo elenco dei siti Patrimonio dell’Umanità, che negli Stati Uniti include luoghi simbolici come il Parco di Yellowstone, la Statua della Libertà e l’architettura di Frank Lloyd Wright.
Con questo passo, Washington si allontana ancora una volta dalla cooperazione culturale internazionale, sostituendola con un approccio sempre più isolazionista.
Dietro la retorica dell’interesse nazionale, si cela una visione del mondo in cui cultura, scienza e sviluppo non sono strumenti di dialogo, ma terreni di scontro ideologico.
L’uscita dall’UNESCO non solo indebolisce la cooperazione globale su temi fondamentali come l’educazione, la memoria storica e la sostenibilità, ma lancia un messaggio chiaro: l’America di Trump non vuole più fare parte di un progetto comune, preferisce scegliere a tavolino i valori da difendere – e quelli da ignorare.
La Coca-Cola Company ha annunciato che rilancerà una versione della sua bevanda iconica con zucchero di canna meno di una settimana dopo che Donald Trump ha dichiarato che “è semplicemente migliore”.
Pochi giorni dopo che il presidente ne aveva anticipato il ritorno , il colosso delle bevande con sede ad Atlanta ha annunciato che intende utilizzare zucchero di canna coltivato negli Stati Uniti insieme a sciroppo di mais ad alto contenuto di fruttosio nelle sue bibite.
La Coca-Cola ha chiarito che la bevanda, che secondo l’azienda sarà lanciata negli Stati Uniti in autunno, sarà un’aggiunta alla sua gamma e non una sostituzione completa degli ingredienti.
Donald Trump annuncia un accordo commerciale con il Giappone, che investirà 550 miliardi di dollari negli Stati Uniti a pagherà dazi al 15%.
E’ “l’accordo forse più importante mai fatto, ha scritto Trump su Social Truth
Venezuela
Il Venezuela ha aperto un’indagine contro alti funzionari salvadoregni, incluso il presidente Nayib Bukele, con l’accusa di abusi sistematici su migranti venezuelani detenuti in El Salvador dopo essere stati deportati dagli Stati Uniti.
A riferirlo sono fonti di stampa americana, tra cui la CNN.
Il procuratore generale venezuelano Tarek William Saab ha illustrato le accuse in una conferenza stampa, mostrando video in cui alcuni detenuti raccontano torture subite nelle carceri salvadoregne.
Secondo Saab, sono almeno 123 le denunce raccolte: abusi sessuali, torture fisiche, violenze psicologiche. Le immagini mostrate ritraggono detenuti con lividi, cicatrici, ferite da proiettili di gomma, ustioni da spray urticante.
Uno scambio ad alto costo umano
La vicenda emerge pochi giorni dopo uno scambio di prigionieri tra Stati Uniti e Venezuela.
Washington ha ottenuto la liberazione di 10 cittadini americani “detenuti ingiustamente”, in cambio del ritorno in patria di oltre 200 migranti venezuelani che erano stati rinchiusi in una prigione di massima sicurezza in El Salvador.
Circa 250, secondo la CNN, erano stati trasferiti e poi restituiti a Caracas.
Questa vicenda fa emergere un inquietante triangolo diplomatico in cui i diritti umani diventano merce di scambio.
Da una parte Washington che negozia, dall’altra Bukele che da mesi fa della “mano dura” e della spettacolarizzazione carceraria il proprio marchio di governo, e infine Caracas, che denuncia – ma con un tempismo che odora di strategia più che di indignazione.
Il caso dei migranti torturati si inserisce in una rete sempre più cinica di accordi bilaterali, dove i migranti diventano pedine e le carceri, luoghi di violenza sistematica.
In tutto questo, resta la domanda: chi protegge i più vulnerabili quando i governi giocano con i corpi e le libertà dei loro cittadini per negoziare consensi o concessioni internazionali?
Brasile
Un momento drammatico e surreale si è consumato in diretta TV in Brasile, quando un giornalista ha accidentalmente individuato il corpo di una tredicenne scomparsa proprio mentre stava trasmettendo dal luogo delle ricerche.
Lenildo Frazao stava seguendo la vicenda di Raissa, una ragazzina dispersa nel fiume Mearim, a Bacabal, nel nord-est del Paese.
La giovane era sparita dopo un pomeriggio di nuoto con amici. Durante il collegamento, il giornalista si trovava immerso fino alla vita nel fiume per mostrare le condizioni dell’acqua, quando ha improvvisamente sobbalzato: “Ho sentito qualcosa sfiorarmi la gamba,” ha detto, scosso.
Ha ipotizzato potesse trattarsi di un braccio, ma ha anche pensato che fosse solo un pesce.
https://twitter.com/Sepa_mass/status/1947376197509243291
Poco dopo, su sua segnalazione, i sommozzatori dei vigili del fuoco hanno ripreso le ricerche e ritrovato il corpo di Raissa proprio nel punto indicato.
L’autopsia ha confermato la morte per annegamento accidentale, senza segni di violenza. La giovane è stata sepolta il giorno stesso.
Bangladesh
In Bangladesh è lutto nazionale. Almeno 31 persone, tra cui 25 bambini, sono morte quando un jet da combattimento F-7 BGI dell’aeronautica si è schiantato contro una scuola di Dhaka durante un volo di addestramento.
Era lunedì pomeriggio e i bambini, la maggior parte con meno di 12 anni, stavano per tornare a casa. L’aereo, di fabbricazione cinese, ha preso fuoco dopo l’impatto, trasformando le aule in una trappola mortale.
Il pilota, che risulta tra le vittime, avrebbe tentato di deviare l’aereo dopo un guasto meccanico, ma senza riuscire a evitare il disastro. Il bilancio provvisorio è di 165 feriti, dieci in condizioni critiche.
Martedì la città è esplosa di rabbia. Centinaia di studenti hanno protestato per chiedere chiarezza, nomi delle vittime, e la messa a terra dei vecchi jet considerati pericolosi.
Alcuni manifestanti hanno preso d’assalto il segretariato del governo, e la polizia ha risposto con lacrimogeni, manganelli e granate assordanti. Decine i feriti.
Il dolore ha il volto di Abul Hossain, padre della piccola Nusrat Jahan Anika, nove anni: “L’ho accompagnata a scuola come ogni giorno. Non sapevo che sarebbe stata l’ultima volta.”
E la voce spezzata di Rubina Akter, madre di Raiyan, un sopravvissuto per miracolo: il suo vestito ha preso fuoco, ma si è gettato sull’erba strappandosi i vestiti per spegnerlo.
Le autorità hanno proclamato una giornata di lutto nazionale. Il governo ha promesso una revisione delle procedure di volo e lo stop agli addestramenti su aree densamente abitate.
Questa tragedia non è solo il risultato di un incidente tecnico. È l’effetto collaterale di una gestione militare opaca, di una politica in crisi e di una popolazione esausta.
In un Paese già scosso da mesi di instabilità e repressione, dove l’ex premier Hasina è stata costretta all’esilio e il premio Nobel Muhammad Yunus guida un governo di transizione, la morte di decine di bambini in tempo di pace assume un valore profondamente politico.
Il dolore si fa rabbia, la rabbia chiede giustizia. E non basteranno le bandiere a mezz’asta.
Vietnam
Wipha, un tifone declassato a tempesta tropicale, ha toccato terra nel Vietnam settentrionale, portando forti venti e forti piogge che hanno causato cinque morti e migliaia di sfollati nel fine settimana nelle vicine Filippine.
La tempesta, classificata come tifone lunedì mentre si trovava in mare aperto, dopo l’atterraggio, ha iniziato a muoversi verso sud-ovest.
La tempesta ha causato un’interruzione di corrente in alcune zone della provincia di Hung Yen, a est di Hanoi. I residenti si sono precipitati alle stazioni di servizio per acquistare carburante per i generatori, secondo quanto riportato dai media statali.
Le strade della capitale, Hanoi, erano quasi deserte mentre la tempesta si spostava verso l’entroterra. La maggior parte delle attività commerciali era chiusa e l’amministrazione cittadina ha consigliato ai residenti di rimanere a casa e di evacuare gli edifici instabili o in zone a rischio alluvione.
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