La solitudine del giornalista

Scritto da in data Settembre 18, 2021

Kabul – Il palazzo è buio e fatiscente, ma appena si apre la porta, rigorosamente chiusa a doppia mandata, un sorriso accogliente che illumina il corridoio ci invita a entrare negli uffici dell’agenzia di stampa Khaama press news, la più grande agenzia di notizie sull’Afghanistan −fondata nel 2010 − con circa 3 milioni e mezzo di visitatori al mese. Khaama, che in persiano antico significa “penna”, pubblica in tre lingue: inglese, persiano e pashtu. Tre donne ancora lavorano, ma sono costrette a stare a casa perché hanno troppa paura per andare al lavoro; in redazione ci accolgono tre giovani giornalisti più un veterano del giornalismo afghano che si occupa di Esteri. Da più un mese non va a casa.

Fino a un mese fa il mestiere del giornalista in Afghanistan era considerato tra i più pericolosi al mondo. I giornalisti erano obiettivo di attentati e omicidi mirati. L’Afghanistan è il paese in guerra che, insieme alla Siria, ha visto più giornalisti caduti mentre facevano il loro mestiere. I nemici dei giornalisti erano i politici corrotti, i Signori della guerra poco amanti delle critiche, ma soprattutto i talebani. Ora che i talebani sono lo stato, la situazione è precipitata. «Una volta il giornalismo in Afghanistan era un gigante, ora non possiamo neanche fare una foto». Ci racconta uno di loro di cui preferiamo non fare il nome, per ragioni di sicurezza. «In realtà non stiamo veramente lavorando, continuiamo a scrivere ma la realtà è che siamo tutti sotto controllo, prima c’erano gli attentati ora non ce ne sono perché non ce n’è più bisogno».

Sono stati letteralmente imbavagliati. I giornalisti che hanno seguito le proteste in questi giorni sono stati brutalmente picchiati, chi scrive titoli critici viene molestato, minacciato, seguito. «Non ci sono state date delle regole, non sappiamo bene ancora come muoverci, questo rende tutto ancora più difficile», spiega un altro, «ci sono storie che vorremmo scrivere e poi non lo facciamo. Oppure cambiamo i nomi perché non si risalga a noi». Il giornalismo dovrebbe essere un servizio ma questi giornalisti sono i primi a rendersi conto che è difficile essere utili quando non ti senti forte e sicuro. «Certo che ci auto censuriamo al cento per cento, sappiamo che dovremmo occuparci degli interessi nazionali, ma come facciamo?». Quanto si può rischiare in nome dell’informazione? Ne vale la pena? Il dibattito è aperto e per questi giovani uomini è una lotta contro sé stessi, la sopravvivenza, e quello che invece sentono di dover fare.

Hanno studiato per diventare giornalisti, tutti sognavano di fare i giornalisti, nessuno pensava che sarebbe finita così. Senza contare che ognuno di loro è l’unico sostentamento per la propria famiglia. In uno dei loro articoli, si legge che la Federazione Internazionale del giornalismo nel suo ultimo rapporto ha affermato che 153 media sono stati colpiti dall’arrivo dei talebani e sono sul punto di chiudere. Secondo il rapporto, la libertà di espressione si è molto ridotta, le giornaliste sono rimaste senza lavoro e sono aumentate le violenze contro i giornalisti. Milma è stata la prima stazione radio locale nella provincia di Paktika a chiudere e Khaama ammette, con un dolore quasi palpabile, che non restano che due/tre mesi prima di dover appoggiare la penna e, come chi lo ha già fatto, chiudersi in casa e cominciare a pensare a come sopravvivere.
«Le nostre colleghe sono molto nervose, cercano di lavorare da casa, non possono venire in ufficio: tutto è cambiato, anche per noi. Io sono stato maltrattato perché mi vestivo all’occidentale con maglietta e jeans, invece vogliono vederci in abiti tradizionali», dice il giornalista che si occupa della sezione inglese, guardando il collega di quella persiana, che ancora “resiste” con un paio di pantaloni e una maglietta che ricorda un ragazzo qualsiasi di vent’anni. Alla fine di questo mese non saranno pagati, il direttore ha dovuto vendere la macchina. «I talebani hanno trovato la soluzione, ora non serve più ucciderci, basta distruggerci finanziariamente».

Abdul Azim Ahmedai, il direttore, non nasconde la sua preoccupazione, non solo per lo staff ma anche per l’equità di questo mestiere. Del servizio che bisognerebbe offrire alla gente. Arriva Zahra, una giovanissima reporter che ancora studia, 21 anni, ma che ha deciso di smettere perché se il suo destino è stare a casa, che senso ha continuare a credere di poter fare la differenza? Il suo sogno era di diventare fotografa. Ora ammette che in questo mese è uscita solo due volte, una con la madre per fare degli acquisti e oggi per incontrare noi.

Lavora da casa, sotto falso nome, e dice a tutti quanto le manca venire in redazione, ma ora ha troppa paura per fare diversamente. Ci porta a casa, ci mostra dove scrive − in un angolo di un salotto − mentre il padre disabile è in un’altra stanza e le sue sorelle nelle altre. Hanno un solo fratello ed è negli Stati Uniti; è una vita difficile, eppure dopo essersi tolta l’abbaya nera, ricompare in jeans e ci offre il pranzo. Ci racconta che a casa si annoia, internet non funziona spesso, può solo stare sui social e sperare che la connessione del telefono non smetta di funzionare. Ci mostra i suoi attestati di studio, la sua tessera stampa, e ci dice che il suo film preferito è Titanic e che le piacciono le canzoni di Bollywood.

«Ci avviamo verso un futuro nero», dicono in coro, mentre uno dei giornalisti della redazione ammette di non aver dormito per notti intere dopo l’arrivo dei talebani. «Poi passa il tempo e la vista si abitua alla loro presenza, ma ciò non toglie che non possiamo dire quello che vogliamo».

«Se pensiamo al futuro delle nuove generazioni, tutto è finito», sentenzia Abdul che ha 41 anni, ha viaggiato in 37 paesi e ora non riesce neanche a tornare a casa, perché ha paura che i suoi familiari siano un bersaglio. Non vede la moglie da un mese ed è preoccupato per le sue cinque figlie che non vanno più a scuola. «Sono sempre stato un fuggitivo, ora come non mai, per me è finita».

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