Afghanistan, i familiari delle vittime del drone USA: “Vogliamo giustizia”

Scritto da in data Settembre 20, 2021

Kabul − I bambini girano intorno alle carcasse bruciate di due auto in cortile. Le guardano ma non le toccano, ci sono delle piccole ciabatte di plastica mezze fuse sul cofano della corolla colpita dal missile degli americani il 29 agosto scorso, tre giorni dopo il devastante attentato che ha colpito l’aeroporto di Kabul in Afghanistan, uccidendo 180 persone tra cui 13 marines americani. Nei tre giorni successivi, due attacchi con droni americani hanno distrutto una macchina in una zona montuosa e remota dell’Afghanistan con a bordo, secondo gli americani, uno dei pianificatori dell’attentato − ma non è stata fornita alcuna prova − e poi hanno sparato un razzo in un quartiere densamente popolato di Kabul. Sparato all’interno del cortile di una casa colpendo, sempre secondo gli americani, un facilitatore dell’ISIS-K, il gruppo che aveva rivendicato l’attentato all’aeroporto.

Dopo pochi minuti, alla gente che è accorsa alla casa, ai giornalisti, perfino ai talebani e al resto del mondo è stato subito chiaro che qualcosa era andato storto. Molto storto. Il missile aveva ucciso dieci persone. Due adulti, un ragazzo e sette minori, tra cui due bambine di due anni e una di tre. Non solo. Zamari Ahmadi, 43 anni ingegnere, e suo cognato Naser Najerabi che aveva lavorato per l’esercito afghano addestrato dalle truppe americane, aspettavano con le loro famiglie di essere imbarcati sui voli umanitari.

Ci sono voluti 19 giorni al Pentagono per ammettere che era stato un “tragico errore”, e non solo: secondo la CNN la CIA aveva avvisato i militari americani che c’erano dei bambini nelle vicinanze.
«Erano bambini innocenti. Erano la mia famiglia. Quando sono arrivato, cinque minuti dopo che era caduto il razzo, ho capito cosa fosse l’inferno. Vedere i miei nipoti che bruciavano, mio fratello e mio cognato inceneriti, è stata la cosa peggiore che potessi mai vedere. Vogliamo giustizia – ci dice Ajamal Ahmedi, il fratello di Zamari, con le mani che ancora gli tremano al solo parlare delle persone che ha perso – vogliamo che chi ha schiacciato quel maledetto bottone paghi, ma vogliamo anche un risarcimento e soprattutto essere portati fuori da qui, anche negli Stati Uniti se necessario; dobbiamo ricominciare una vita nuova, accettiamo le scuse ma non basta, le madri di questi bambini non vogliono più dormire in questa casa, non possono vivere nel posto dove sono morti i loro figli. La moglie di Zemari è andata dal padre. Le nostre vite sono distrutte».

Accanto a lui segue tutta la conversazione Samir, che ha dieci anni e per due notti, dopo la strage della sua famiglia, ogni volta che chiudeva gli occhi vedeva i suoi cugini. «Per quanto tempo dovrà svegliarsi vedendo le carcasse delle macchine dove i suoi amici e cugini sono stati uccisi? Non siamo ricchi, non possiamo neanche permetterci di farle rimuovere dal giardino. Siamo persone normali, soprattutto non siamo terroristi, per giorni i nostri vicini ci hanno guardato sospettosi, ora finalmente la verità è uscita, ma non basta, non può finire così».
Soprattutto non deve. Questione di giustizia. La lotta al terrorismo non può essere l’ennesima scusa per giustificare l’omicidio di persone innocenti. “Danni collaterali”, li definì durante un’altra guerra Madeleine Albright, la Segretaria di Stato americana ai tempi di Clinton.
Questi danni collaterali avevano un nome, dei sogni, una vita. E soprattutto, erano bambini, “colpevoli” di aver corso incontro al loro papà e allo zio che rientravano dal lavoro, “colpevoli” di esseri saliti in macchina perché Zemeri voleva insegnare ai ragazzi più grandi a guidare in vista della loro vita nuova vita negli Stati Uniti.

Il fratello di Ahmadi, Ajmal, si dispera, chiede aiuto e giustizia, seduto per terra in una sala le cui finestre danno su due macchine carbonizzate nel cortile. Dopo tre settimane non si sente più l’odore di bruciato, ma nel muro ci sono ancora i buchi delle schegge, ci sono i vetri rotti. Ogni parete ricorda quello che è successo. Il sangue che hanno dovuto grattare via.


«Hanno detto che l’esplosione era stata forte, seguita da una seconda. Ma se fosse stato vero le bombole di gas, che erano vicine alle macchine, sarebbero esplose invece guarda, sono ancora lì, tutto è ancora lì». È come se ogni giorno rivivessero quello che è accaduto: il rumore del razzo, l’esplosione. Non hanno nemmeno fatto in tempo a spaventarsi o a capire quello che stava succedendo, a parte uno dei nipoti di sedici anni che stava scendendo le scale quando è stato investito dall’esplosione: ha fatto due passi e poi è caduto a terra, con l’addome squarciato.

Il quartiere di Khoja Boghra è fatto di stradine dove nel centro scorre un canaletto a cielo aperto della fognatura, lungo i lati dei muri, al di là dei quali ci sono delle casette, una attaccata all’altra ma di fatto isolate, in cui si snodano una serie di stanze. Nel blocco di Ahmadi vivevano i quattro fratelli con le relative famiglie per un totale di 25 persone.


«Come è possibile che non vedessero che c’erano dei bambini? Le immagini satellitari sono ben chiare. La macchina di mio fratello è stata seguita per tutto il tempo, perché hanno sparato quando ha parcheggiato e i bambini gli sono corsi incontro», dice Ajmal senza darsi pace. Tira fuori il cellulare, ha le foto dei corpi carbonizzati, le foto del nipote di sedici anni che non è morto subito, tutto fasciato dalla testa ai piedi. Sono immagini strazianti. Ci mostra il corpo carbonizzato della nipote di due anni e poi la foto sorridente con i codini, un vestito rosa sgargiante.

«Abbiamo dovuto staccare i pezzi dei miei nipoti dal tetto, i vetri rotti erano diventati rossi; di Farzad, uno dei nipoti più giovani, sono state recuperate solo le gambe». Il fratello di Ajmal non era un facilitatore dell’ISIS-K, due giorni fa lo ha ammesso anche il Pentagono: «Per giorni ho detto di fornirmi le prove, che mi sarei ucciso se fosse stato vero», ci sono voluti diciannove giorni perché gli americani stabilissero che era stato un “tragico errore”.

«Non appena è accaduto, la gente è accorsa, stavo arrivando, ho visto il razzo e poi la colonna di fumo, mi sono messo le mani tra i capelli e sono corso, non potreste mai immaginare la scena. C’era gente con secchi d’acqua, sono arrivati i talebani, hanno dato un’occhiata, e poi sono andati via». Ajmal continua a far scorrere le foto dei nipoti, ricorda i ragazzini che erano vestiti all’occidentale con i jeans, le bambine, come Malika di soli due anni, che sfodera dolci sorrisi nello schermo. Tutto quello che rimane di loro.

A Kabul si è abituati ai razzi lanciati da talebani o chi per loro. Ma nessuno avrebbe mai immaginato che il razzo che ha distrutto una famiglia in un popoloso quartiere della capitale, avesse la firma degli Stati Uniti. Le vittime civili degli attacchi aerei statunitensi e afghani non sono stati rari in Afghanistan, ma negli ultimi 15 anni la maggior parte si sono verificati in aree remote di province come Nangarhar, Baghlan, Maidan Wardak, Takhar, Herat, Kunduz e Logar, non nella capitale. Spesso durante matrimoni, scambiati per riunioni di militanti.
E così, ironia della sorte, la guerra in Afghanistan che si aprì con un attacco di droni 20 anni fa, si è chiusa con un altro.

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