26 giugno 2025 – Notiziario Mondo
Scritto da Barbara Schiavulli in data Giugno 26, 2025
- Gaza e il mondo: l’infanzia sotto attacco.
- Iran: torna internet, ma restano i fantasmi digitali della guerra
- NATO a passo di danza attorno a Trump. Kenya in piazza: rabbia, fiori e repressione.
- Mongolia e Asia Centrale: un ritorno di fiamma lungo la steppa.
- Mosca: bambino iraniano in coma dopo un’aggressione brutale in aeroporto
Introduzione al notiziario: Un Medio Oriente senza memoria
Questo e molto altro nel notiziario di Radio Bullets a cura di Barbara Schiavulli
Israele, Iran, Usa
■ ISRAELE-IRAN-USA: In risposta a diverse segnalazioni secondo cui l’attacco all’impianto nucleare iraniano di Fordow avrebbe ritardato il programma nucleare della Repubblica Islamica solo di mesi, il presidente degli Stati Uniti Trump ha affermato che Israele “sta ora facendo un rapporto sull’accaduto.
Trump ha affermato che il programma nucleare iraniano è stato posticipato “praticamente di decenni perché non credo che lo faranno mai più”.
Durante un discorso al vertice NATO all’Aia, Trump ha affermato che i colloqui con l’Iran inizieranno “la prossima settimana. Potremmo firmare un accordo, non lo so”.
Il portavoce del Ministero degli Esteri iraniano Esmail Baghaei ha dichiarato ad Al Jazeera che ” i nostri impianti nucleari sono stati gravemente danneggiati , questo è certo”, senza fornire ulteriori dettagli.
Il parlamento iraniano ha approvato un disegno di legge per sospendere la cooperazione con l’Agenzia internazionale per l’energia atomica, hanno riferito i media statali, aggiungendo che ora il Consiglio supremo per la sicurezza nazionale del Paese deve dare l’approvazione finale alla decisione.
La Francia ha affermato che sta conducendo una propria analisi sui danni agli impianti nucleari iraniani, ha detto ai giornalisti il presidente francese Emmanuel Macron.
Il capo dell’AIEA, Rafael Grossi, ha affermato che l’Iran possiede il “know-how tecnico ” e la “capacità industriale” per ricostruire i suoi impianti nucleari e che la priorità assoluta è il ritorno degli ispettori dell’agenzia presso gli impianti nucleari iraniani.
Grossi ha aggiunto che l’Iran lo ha informato che sono state adottate “misure protettive” riguardo alle scorte di uranio arricchito.
Netanyahu ha dichiarato in una riunione di gabinetto che Israele avrebbe continuato la guerra con l’Iran se avesse creduto di poterne destabilizzare il potere, ma ha aggiunto che il cambio di regime dovrebbe “venire dall’interno…
Gli attacchi israeliani contro l’Iran nelle ultime due settimane hanno causato la morte di 627 persone e il ferimento di altre 4.870, ha affermato un portavoce del Ministero della Salute iraniano.
In Iran la rete torna lentamente online dopo giorni di blackout imposti nel pieno dello scontro con Israele. “La rete di comunicazione sta tornando al suo stato precedente,” ha annunciato il comando di cybersicurezza dei Guardiani della Rivoluzione.
Il blocco era stato introdotto il 13 giugno per “impedire interferenze israeliane” e “fermare la disinformazione”. Ma secondo l’osservatorio indipendente NetBlocks, il traffico internet si è dimezzato subito dopo… e per giorni è rimasto quasi azzerato.
Secondo Mohammed Soliman, esperto del Middle East Institute, il blackout ha funzionato come arma a doppio taglio: ha guadagnato tempo al governo, ma ha anche alimentato la rabbia popolare, bloccando servizi essenziali come banche, comunicazioni, e persino l’accesso alle informazioni di emergenza.
Intanto Elon Musk ha annunciato l’attivazione del servizio Starlink per chi riusciva a connettersi via satellite. Nonostante il servizio non sia ufficialmente disponibile in Iran, alcuni lo avrebbero comunque usato per aggirare il blocco.
Ma la paranoia digitale è esplosa su entrambi i fronti: interferenze GPS, orari sbagliati sui telefoni, mappe impazzite, e il timore sempre più concreto di cyber attacchi, come confermato anche in un bollettino USA sulla sicurezza informatica.
In un conflitto moderno, la rete diventa campo di battaglia invisibile. E tagliare internet significa silenziare, proteggere… o semplicemente nascondere.
Ma quando il buio digitale si impone a milioni di persone, la sicurezza diventa censura. E la guerra, ancora una volta, si combatte anche a colpi di disconnessione.
Israele e Palestina
■ GAZA: Il Ministero della Salute guidato da Hamas ha dichiarato che almeno 86 palestinesi sono stati uccisi nelle ultime 24 ore, 56 dei quali in attesa di aiuti umanitari. Secondo il Ministero, 56.156 palestinesi sono stati uccisi a Gaza dal 7 ottobre 2023.
Nel 2024, i bambini sono stati le principali vittime delle guerre nel mondo, e Gaza è diventata l’epicentro della violenza.
A lanciare l’allarme è stata Virginia Gamba, inviata speciale dell’ONU per i bambini nei conflitti armati, in un drammatico intervento al Consiglio di Sicurezza.
“La distruzione e la sofferenza vissute dai bambini di Gaza superano ogni standard umano,” ha detto Gamba, denunciando attacchi contro scuole, ospedali, convogli umanitari e operatori ONU.
Quasi metà delle gravi violazioni verificate nel 2024 sono state commesse da gruppi armati non statali: omicidi, mutilazioni, rapimenti, reclutamento forzato e violenze sessuali.
L’accesso agli aiuti umanitari è diventato “uno degli ostacoli più gravi alla protezione dell’infanzia”, con blocchi, attacchi e burocrazia che impediscono cibo, cure e istruzione.
Anche l’UNICEF ha ribadito la gravità: oltre 8.000 gravi violazioni accertate tra Israele e Palestina nel solo 2023, la cifra più alta da quando l’ONU monitora i crimini sui minori in guerra.
I bambini non sono danni collaterali, non sono scudi umani, non sono strumenti di scambio. Sono la parte più fragile e più sacra dell’umanità. Eppure, nel mondo che abbiamo costruito, sono le prime vittime e le ultime a contare.
Questa non può e non deve diventare la normalità.
Intanto, come se non bastasse, Trump è intervenuto sul processo a carico di Netanyahu per corruzione, scrivendo su Social Truth: “Il processo a Bibi Netanyahu dovrebbe essere annullato immediatamente, o dovrebbe essere concessa la grazia a un grande eroe, che ha fatto così tanto per il suo Stato”.
E ancora, “Sono stati gli Usa a salvare Israele, e ora saranno gli Usa a salvare Bibi Netanyahu. Non possiamo permettere questo paradosso della giustizia”.
CISGIORDANIA: Ancora sangue nei Territori Occupati. Mercoledì, oltre 100 coloni israeliani hanno attaccato il villaggio palestinese di Kafr Malik, vicino Ramallah.
Hanno incendiato case e auto, lanciato pietre contro abitanti e abitazioni, secondo l’organizzazione israeliana per i diritti umani Yesh Din. Il tutto è avvenuto alla presenza dell’esercito israeliano.
La situazione è degenerata: i soldati israeliani hanno aperto il fuoco, uccidendo tre palestinesi. L’esercito afferma di aver risposto a colpi d’arma da fuoco provenienti dal villaggio. Ma secondo testimoni e ONG, è l’attacco dei coloni ad aver scatenato la violenza.
Poche ore prima, altri coloni, incappucciati, avevano dato fuoco a un’auto vicino a Ramallah e lanciato pietre ad Asira al Qibliya, in un’escalation di aggressioni che, ormai, si ripetono quasi quotidianamente – spesso impunite.
Il segretario generale dell’OLP, Hussein Al Sheikh, ha accusato il governo israeliano di alimentare l’escalation e ha chiesto un intervento internazionale urgente per proteggere la popolazione palestinese.
Intanto, cresce la pressione diplomatica: il Regno Unito ha sanzionato due ministri di estrema destra del governo Netanyahu – Smotrich e Ben-Gvir – per il loro sostegno esplicito alla violenza dei coloni.
Kenya
Migliaia di persone sono scese in piazza in tutte le città del Kenya per chiedere le dimissioni del presidente William Ruto, a un anno dalle proteste contro la legge fiscale che avevano causato decine di morti.
Le manifestazioni sono esplose in tutto il Paese dopo la morte sospetta del blogger Albert Ojwang in custodia di polizia. A guidare la rabbia è la generazione Z, esasperata da povertà, promesse mancate, violenze e arroganza istituzionale.
Almeno 8 morti e 400 feriti.
Televisioni oscurate e raid nelle sedi delle emittenti private NTV e KTN, che trasmettevano in diretta le proteste.
Il governo parla di “provocazioni contro la polizia”, mentre testimoni riferiscono di miliziani armati in abiti civili accompagnati dagli agenti.
I manifestanti, alcuni con rose e foto delle vittime del 2024, gridavano “Ruto must go!” mentre banche, scuole e attività restavano chiuse per timore di scontri.
In Kenya non è solo protesta: è una generazione che rifiuta di essere zittita. Mentre i media vengono spenti e la repressione si fa più sottile, le voci in strada urlano verità ignorate troppo a lungo.
E se oggi portano fiori, domani potrebbero portare tempesta.
Zambia
In Zambia, neanche la morte è riuscita a mettere fine a una rivalità politica feroce. Edgar Lungu, ex presidente del Paese, è morto il 5 giugno in Sudafrica. Ma la sua sepoltura è diventata terreno di scontro tra la sua famiglia e il governo.
Mercoledì, a un’ora dal funerale privato previsto in una chiesa di Johannesburg, un tribunale sudafricano ha bloccato la sepoltura, su richiesta urgente del governo zambiano. Così, i familiari di Lungu, già vestiti a lutto, invece di recarsi al cimitero sono finiti… in aula di tribunale.
Ma perché tutto questo? Perché il governo, guidato dal presidente Hakainde Hichilema – storico rivale di Lungu – insiste affinché il corpo venga riportato in Zambia per un funerale di Stato con tutti gli onori.
La famiglia, invece, si oppone con forza: dice che Lungu non voleva Hichilema al suo funerale. E che aveva lasciato precise istruzioni per evitare una cerimonia ufficiale.
Un dettaglio importante: la tomba di Lungu è già pronta, nel cimitero dove riposano tutti gli ex presidenti zambiani. Ma la famiglia ha organizzato una cerimonia privata, lontana da cerimoniali di Stato, proprio per rispettare – dicono – le sue ultime volontà.
In un mondo ideale, la morte dovrebbe mettere fine alle ostilità. Dovrebbe unire, o almeno zittire. Ma in Zambia, la frattura politica è talmente profonda che nemmeno la bara di un ex presidente riesce a coprirla.
E allora ci si chiede: che tipo di democrazia è quella in cui neppure i morti possono riposare senza permesso del potere?
Svizzera
I ghiacciai svizzeri stanno collassando. Sempre più simili a formaggi svizzeri pieni di buchi, come li ha descritti il glaciologo Matthias Huss del gruppo GLAMOS, che monitora lo stato delle masse glaciali alpine.
Il Rhone, che alimenta l’omonimo fiume fino al Mediterraneo, è sempre più instabile. Dopo una frana che ha sepolto il villaggio di Blatten, la fragilità del ghiaccio è sotto gli occhi del mondo: crepe, fori e tetti che collassano sotto l’effetto di temperature record e nevicate sempre più scarse.
Alcuni ghiacciai perdono fino a 10 metri di spessore l’anno. Nel 2024, quasi tutti i ghiacciai dell’Himalaya centrale e del Tian Shan hanno registrato perdita di massa.
Le crepe si aprono dall’interno, causate da turbolenze d’acqua o correnti d’aria, e poi crollano in superficie.
Le conseguenze sono ovunque: agricoltura, energia idroelettrica, riserve d’acqua, addirittura confini geopolitici. E come ricorda lo scienziato Richard Alley, i ghiacciai oggi garantiscono portate “anormalmente alte” nei fiumi estivi, ma presto questo si invertirà in carenze croniche.
Se i ghiacciai sono lo specchio del nostro clima, allora stiamo guardando il riflesso di un disastro accelerato. In un mondo distratto da guerre e dazi, le montagne si stanno sciogliendo in silenzio, metro dopo metro. Non servono più previsioni: servono scelte.
Nato
A L’Aia, i leader europei hanno adottato un nuovo approccio per gestire Donald Trump: niente scontri, pochi contenuti e tante lodi. Il Segretario Generale Mark Rutte lo ha persino chiamato “daddy”, in segno di gratitudine per il cessate il fuoco tra Iran e Israele.
Il summit è durato 24 ore, con un’agenda snellita, nessun comunicato dettagliato e un solo messaggio: compiacere Trump per tenerlo a bordo.
La promessa di portare le spese militari al 5% del PIL entro il 2035 ha tenuto banco, con la Spagna come unica voce dissonante. Trump ha reagito minacciando dazi raddoppiati su Madrid.
Zelensky e Trump si sono incontrati, in un clima sorprendentemente disteso. L’Ucraina, però, è apparsa solo come una nota a piè di pagina del summit, sebbene sia stato promesso un futuro “irreversibile” nella NATO.
Per evitare la rottura, l’Alleanza Atlantica si è piegata al teatrino dell’ego. Con meno verità, meno trasparenza e un comunicato ridotto a cinque paragrafi, il summit ha sacrificato la sostanza per la sopravvivenza.
E se oggi abbiamo ancora la NATO, come dice sarcasticamente un ex ministro lituano, “tecnicamente è una vittoria”. Ma domani?
Armenia
In Armenia, la tensione sale alle stelle dopo che il governo ha annunciato di aver sventato un tentativo di colpo di Stato. E il presunto regista di questo piano non è un generale o un politico, ma un arcivescovo: Bagrat Galstanyan, volto noto delle proteste antigovernative dell’anno scorso.
Secondo le autorità, Galstanyan e il suo movimento “Sacred Struggle” non solo volevano rovesciare il governo, ma avevano già preparato tutto: armi, esplosivi, documenti strategici, e addirittura gruppi d’assalto composti da ex militari e poliziotti pronti ad agire nel giro di 24-36 ore. La trama, dicono, era in corso da gennaio, con oltre mille persone reclutate.
Sono già 14 gli arrestati e 16 gli indagati, mentre le forze di sicurezza hanno perquisito più di 90 edifici.
Il premier Nikol Pashinyan, su Facebook, parla di un tentativo orchestrato da un “clero criminale e oligarchico” per destabilizzare il Paese e impadronirsi del potere.
Ma qui la domanda è d’obbligo: è stato davvero sventato un colpo di Stato, o si sta usando l’accusa per mettere a tacere una voce scomoda? Galstanyan, ricordiamolo, guidava le proteste contro la restituzione di quattro villaggi all’Azerbaigian – un tema ancora molto sensibile nel Paese.
In una nazione dove religione e politica camminano fianco a fianco da secoli, il confine tra giustizia e repressione rischia di diventare sempre più sottile.
Russia
Una scena scioccante arrivata dalle telecamere di sorveglianza dell’aeroporto di Sheremetyevo, a Mosca: un bambino iraniano di due anni è stato aggredito senza motivo da uno sconosciuto nella hall degli arrivi. Ora è in coma, con fratture al cranio e gravi danni alla colonna vertebrale.
Nel video si vede il piccolo con il suo trolley, in attesa accanto alla madre incinta, appena arrivati in Russia dopo essere fuggiti dai bombardamenti in Iran. Poi, all’improvviso, un uomo – 31 anni, cittadino bielorusso – si avvicina, lo solleva da terra e lo sbatte violentemente sul pavimento.
L’aggressore è stato arrestato e sono in corso indagini per capire se si sia trattato di un attacco razzista o sotto effetto di droghe. La polizia ha avviato test tossicologici e sta analizzando i filmati.
Il video, pubblicato anche dall’ambasciata iraniana in India, ha sollevato un’ondata di indignazione.
Ecuador
È finita la fuga di José Adolfo Macías, detto Fito, boss del cartello Los Choneros, con legami diretti con i cartelli messicani e imputato a New York per aver fatto entrare tonnellate di cocaina negli Stati Uniti.
Era evaso nel gennaio 2024 da una prigione di massima sicurezza a Guayaquil. Le autorità ne scoprirono l’assenza solo al momento del trasferimento. Da allora era scomparso, mentre lo Stato aumentava la taglia su di lui fino a un milione di dollari.
L’arresto è avvenuto a Manta, sua città natale: lo hanno trovato nascosto in un buco sotto il lavello della cucina. Le immagini diffuse dall’esercito mostrano un ufficiale che gli punta la pistola alla testa mentre Fito pronuncia il suo nome.
Mentre era in carcere, Macías non aveva smesso di comandare: aveva accesso a cellulari, alcolici, persino a galli per i combattimenti, e si era filmato mentre parlava al “popolo ecuadoriano” circondato da uomini armati.
L’indagine USA lo accusa di guidare una rete di traffico internazionale di droga e armi, con ramificazioni negli Stati Uniti, in Messico e in tutta l’America Latina.
La sua cattura arriva pochi giorni dopo un’altra clamorosa evasione: quella di Federico Gómez, alias Fede, boss della gang rivale Las Águilas. Una sfida aperta allo Stato, che sembra arrancare nella guerra ai narcos.
Mongolia e Asia
Per anni i Paesi dell’Asia Centrale si sono concentrati sulle questioni di casa: risolvere dispute di confine, rafforzare il commercio tra vicini, cercare un po’ di stabilità. Ma adesso, qualcosa sta cambiando. E al centro di questa nuova fase c’è un’antica alleata dimenticata: la Mongolia.
Lo scorso 24 giugno, per la prima volta in epoca post-sovietica, il presidente dell’Uzbekistan, Shavkat Mirziyoyev, è arrivato a Ulaanbaatar.
Una visita definita “storica”, che ha prodotto accordi su agricoltura, ambiente, miniere, turismo e anche sul tessile. Ma soprattutto, l’annuncio di voli diretti tra i due Paesi e di un centro commerciale uzbeko in Mongolia.
E l’Uzbekistan non è solo: anche il presidente turkmeno Berdymukhamedov è stato ricevuto in grande stile nella capitale mongola. Dietro la pompa, però, c’è anche sostanza: accordi per rafforzare il commercio e la cooperazione politica nei prossimi anni.
La Mongolia – che con l’Asia Centrale condivide radici nomadi, storia imperiale e una comune eredità sovietica – ora si propone come ponte naturale tra est e ovest, soprattutto lungo quella che viene chiamata Middle Corridor, la rotta commerciale che collega l’Asia all’Europa passando al largo di Russia e Cina.
Certo, i problemi non mancano: mancano connessioni dirette, non ci sono sbocchi sul mare, e la burocrazia spesso frena il commercio. Ma proprio per questo, Stati Uniti e Unione Europea hanno deciso di spingere forte su questa integrazione regionale.
A Ulaanbaatar, l’ambasciatrice UE ha proposto di rafforzare le connessioni digitali, tanto importanti quanto le infrastrutture fisiche, grazie al programma satellitare europeo Copernicus. E l’apertura di un ufficio della Banca Europea per gli Investimenti in Uzbekistan dovrebbe aiutare a finanziare nuove infrastrutture per collegare meglio la regione.
È un ritorno di fiamma tra popoli che un tempo cavalcavano insieme attraverso la steppa, e che oggi cercano nuove strade, nuovi treni, nuovi cavi, per connettersi di nuovo. Con uno sguardo al passato, ma con il cuore – e gli investimenti – puntati sul futuro.
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