Global Sumud Flotilla: Il carcere ep.3

Scritto da in data Dicembre 4, 2025

ROMA – Mi mancava l’ultimo episodio. Ci ho messo due mesi a scriverlo. Forse anche ad elaborarlo. Dopo diciotto giorni in barca, le ore infinite al porto, il carcere è l’ultimo capitolo. Il più difficile. Il più forte. Quello che ci trasforma da persone a numeri. Sono la detenuta 250. E non ho più voglia di ricordarlo.

Quel numero non è un simbolo, è una cancellazione. Ti spoglia del nome, della storia, dei volti che hai amato. È un timbro sul cuore che non va più via.

Perché? Non lo so. Non ho avuto paura, ma rabbia. Una rabbia che riconosco e attraverso. Una rabbia che non nasce dall’odio, ma dall’umiliazione. Dalla certezza che chi ti colpisce, lo fa perché può, non perché ha ragione.
Per questo devo continuare a scrivere.

Lo devo a me, alle mie compagne di cella e ai palestinesi che continuano a viversi addosso il genocidio. Noi ci abbiamo provato a fare qualcosa. Abbiamo provato a metterci letteralmente nei loro passi e nelle loro carceri, sarà servito?

La Storia ce lo dirà, o forse bastava essere quel risveglio che la sofferenza dei palestinesi non era riuscita a risvegliare in alcune sacche del mondo.

E quindi devo scrivere. Nonostante tutto. Perché la voce non è un lusso. Perché l’indifferenza non sia la condanna della verità. Perché esista qualcuno là fuori che ascolti.

Mi ricordo il profumo del mare, l’odore dei legni delle barche, il vento sul volto. Anche quella memoria — hanno cercato di rubarcela. Ma non ci sono riusciti. Perché tenere viva la memoria di quello che siamo è la rivolta più importante.

No, amici miei, non siamo fantasmi. Come non lo sono i palestinesi. Siamo testimoni. E non è finita. Torneremo a scandire i loro nomi, le loro grida, il loro dolore. Fino a quando il mondo non potrà più voltarsi dall’altra parte.

Verso la prigione

Siamo passati da barche a furgoni. Neri, pesanti, senza finestre, con una porta che sbatte e ci chiude dentro come mai era capitato prima. Così ci hanno trasferiti, caricati come merci in fascette, sbattute dentro un metallo freddo. Le porte si chiudono dietro di noi con un clangore che sembra un ceffone al destino.

Dentro è buio, un buio spesso, che odora di ferro, di sudore e di paura. Non c’è aria. Il pavimento vibra, il motore geme e ogni curva è una promessa di dolore.

Vedo i volti delle mie compagne, giovani, vecchie, sfinite. Occhi bendati. I lacci delle scarpe tagliati. Non abbiamo nulla con noi.

Le guardie ci contano. Ci contano ogni volta che una entra e prende posto accanto a noi. Ci guardiamo stanche ma ci riconosciamo ogni volta. Non sappiamo dove sono gli uomini.

Ma essere tra donne è in qualche modo rassicurante. Non so perché, mi sento più al sicuro se siamo solo donne, come tra noi ci fosse un’anima collettiva alla quale gli uomini non appartengono. Siamo tutte collegate anche se veniamo da posti e culture diverse.

È una solidarietà istintiva, animale, fatta di sguardi e piccoli gesti: una mano che sfiora, un respiro che si fa più lento per non far paura all’altra. In quelle ore impariamo una lingua senza parole.

Le guardie ci urlano e ridono di noi, come se stessero giocando a un gioco grande e noi fossimo pedine da mandare al sacrificio. Non sappiamo quante ore siano: due, tre, quattro. Il tempo non esiste più quando la vita diventa attesa.

Quando si fermano, capiamo dove stiamo andando. Sabbia, sole accecante, un deserto che non concede tregua: il sud del Negev. E poi lei — la prigione: Ketziot Prison. La fine del mondo.

Un orizzonte bianco, cancellato, che sa di niente. Anche il vento qui sembra obbedire. Tutto è geometria e castigo.

Ne avevo sentito parlare nella mia vita precedente, una prigione di massima sicurezza, molto grande, con tanti detenuti palestinesi. Non vediamo nessuno. Veniamo fatte scendere e in fila portate in una gabbia.

Ci guardiamo smarrite, pensavo di andare un centro per immigrati illegali, invece siamo dove portano quelli che considerano “terroristi”. Il bene per loro è male. Il mondo è a rovescio.
E quando il mondo si capovolge, l’umanità cade sempre per prima.

Le gabbie, grida e canti

Ad una ad una ci fanno entrare in una stanzetta, ci fanno spogliare, ci danno delle tute grigie e una maglietta bianca. Alle donne musulmane strappano i veli. Il disprezzo massimo di quella che si ritiene l’unica democrazia del mondo.

Non c’è un filo di democratico nei loro modi, né di umano. La mia anima giornalistica non può non chiedersi come siano arrivati a quel punto, come quel popolo che ho conosciuto negli anni ’90 pieno di voglia di vivere in pace, ora sia diventato qualcosa di irriconoscibile. Come ragazze con le unghie curate, i nasi rifatti e i capelli perfettamente in piega, possano essere state disumanizzate a tal punto da non riconoscere l’altro.

È questa la domanda più terribile di tutte: quando smetti di vedere un essere umano davanti a te? Quando la paura diventa abitudine e la crudeltà un mestiere?

Nella stanzetta, ci hanno portato via la nostra roba, le ultime cose che avevamo addosso, ma soprattutto il nostro passaporto. Siamo nessuno lì dentro. Se perdono una carta di quelle che hanno rigorosamente compilato, noi spariamo. Il mio incubo è stato sempre quello di entrare in un manicomio e non riuscire più ad uscire perché mi ero persa il mio pass, ora è uguale. Gli incubi si intrecciano a quelli della altre.

E ogni volta che la porta si chiude, penso a chi non è mai più uscito da qui.

Dentro Ketziot ci sono muri che urtano la pelle — c’è il vuoto che ti sputtana dentro, la solitudine che inghiotte. Ci mettono in delle celle da sei, ma siamo in 15. Dormiamo stese per terra, tante insieme, come pacchi su dei materassini marroni.

Non vogliamo pensare a chi ci è passato. Chi ci ha già dormito, chi ha usato quel cesso sporco che mi impedirà per quasi due giorni di andare al bagno.

Parliamo tra di noi sdraiate. Qualcuna ha il mal di terra. Io ho dei crampi continui che non so come fermare. Non ci danno acqua, razioni minime di cibo messo a terra, a volte niente. Riso lasciato sotto il sole per ore. Piselli rinsecchiti, verdura come cetrioli e carote. Pan carré. Un piatto per 15.

Quattro nella nostra cella hanno il ciclo ma non ci sono assorbenti. Il sangue diventa parte di noi, come il sudore, la puzza, lo sporco. Ma ancora sorridiamo, ancora siamo forti. Sono poche ore eterne.

Dobbiamo farcela per tutti quelli che stanno lottando per noi, non lo sappiamo ma lo sentiamo. A migliaia di chilometri di distanza, la gente è in piazza, per noi e noi siamo qui per i palestinesi.

In quell’eco di solidarietà invisibile, la distanza si annulla. Ci sosteniamo a vicenda senza saperlo, loro con i cori e noi con il respiro.

Politici, avvocati, medici, attivisti, giornalisti, professori — tutti mescolati in quell’arca di disperazione. Volevano spezzarci come rami secchi, non potevano perché la forza della verità non ha limiti e non mette catene.

Una detenuta usa lo smalto che ha sulle unghie per scrivere sul muro della cella Free Gaza, noi troviamo una penna di qualche prigioniera precedente e ognuna di noi disegna la propria barca sul muro. La flotilla è qui. La flotilla siamo noi.

Abbiamo abbassato gli occhi solo per prendere un respiro e cantare tutte insieme “Bella Ciao”, partiva Margherita che sa fischiare e si univano tutte a gole spianate, mentre le malesi rappavano la canzone più forte del mondo.

E gli israeliani davano di matto. Hanno sbattuto sulle porte di acciaio blu e noi abbiamo cantato, ci hanno dato delle puttane e noi abbiamo cantato, ci hanno sputato addosso e non abbiamo smesso.

In quel coro dissonante, ci siamo ricordate chi eravamo: libere, anche se prigioniere. Nessuna prigione può mettere le manette a una voce.

La notte le luci accese, il continuo contarci, i cani antisommossa nella cella. Quella immagine gigantesca di Gaza distrutta che ci costringevano a vedere dalla finestrella della porta quando era aperta. Gli strattoni, le botte. Ma noi eravamo più forti.

Ci accusano di essere terroriste, traditrici, disturbatrici dell’ordine. Ci urlano addosso come se lo sputo potesse mancarci l’aria. Alcune fanno sciopero della fame. Altre resistono nelle notti, sussurrando preghiere o lamenti.

Non sono solo gli israeliani a darci contro. Loro lo capisco. Non mi capacito di essere stata tradita dalle istituzioni del mio paese, d’altra parte era già capitato, non avrei dovuto stupirmi, eppure ci ricasco ancora.

Gli interessi del governo italiano sono così grandi con Israele che è stato pronto a sacrificare i suoi cittadini. E cosa significa quando conta più un alleato del proprio popolo? Che la gente non ci sta. E fa l’unica cosa che può fare: si alza ed esce di casa.

Invade le strade, le piazza, le televisioni che prima di ora non si erano accorti che un popolo che sonnecchia si può svegliare pieno di energie.

Il tradimento

Mi sento tradita da chi dice che siamo degli idioti, irresponsabili, che non dobbiamo sfidare Israele, che scateneremo una guerra più grande, che ci sta bene tutto quello che ci succede. Mi sembra impossibile che nel mio mondo ci siano persone così, perfino colleghi, direttori di giornali che ci hanno diffamato.

Ma il silenzio, in fondo, è la forma più comoda di complicità. E il giornalismo che non rischia tradisce la sua ragione di esistere. Non è per questo che sono qui.

Fuori dalle mura, il mondo continua. I governi — complici o vigili impotenti — parlano di deportazioni, misure legali, espulsioni. Rapidi comunicati, dichiarazioni: “stanno bene, stanchi, stressati”.

Nulla sulla fame, sul freddo, sulle botte. Nulla sulla dignità spezzata che noi crediamo spezzata, ma che invece si costruisce ora dopo ora sulle malefatte di chi ci imprigiona.
Ogni abuso è una prova. Ogni colpo è una firma sul corpo della verità.

Non volevano che nessuno di noi morisse, questo è stato chiaro. I funzionari delle varie ambasciate ci hanno fatto visita. Non mi levo dalla mente la funzionaria italiana con un vestitino da cocktail marrone con dei pois bianchi che, mentre ci chiedeva come stavamo, beveva davanti a noi da una bottiglietta di acqua fresca.

Non ne ricordavamo neanche più il sapore dell’acqua. Era pulita, fresca, noi sembravamo cumuli di stracci in movimento, assetate come non ci era mai capitato di essere.
In quel gesto distratto, in quell’acqua che scendeva lentamente dalla bottiglia alle sue labbra, c’era tutto il divario tra chi può scegliere e chi subisce.

Chiediamo acqua. Urliamo per l’acqua. Nessuno fa niente. Le guardie si arrabbiano, ci strattonano, ci spingono nelle celle, e io e un’altra signora anziana finiamo in quella sbagliata. Mi assale l’ansia.

E se ci contano e non ci sono? E se mi perdo tra una cella e l’altra? E se non mi ritrovo più? Mentre le altre mi guardano sgomente, battiamo sulla porta e urliamo, poi la signora scozzese si sente male.

Crisi di insufficienza respiratoria, nella sua cella ha il ventolin, ma non siamo nella sua cella. E allora gridiamo tutte. “Soccorso medico, aiuto, sta male” Andiamo avanti per ore. Lei diventa blu, le caviglie le si gonfiano, non arriva nessuno. Ci sentono, eccome se ci sentono, ma non gliene importa a nessuno. Hanno tolto tutte le medicine salvavita, l’insulina, la cardioaspirina, il ventolin, appunto.

In quel momento capisci che non è solo una prigione: è un esperimento di potere. Una lezione sul valore della vita — o sul suo disprezzo.

Lei rantola come rantolano i palestinesi feriti, quelle che devono partorire, i bambini da amputare senza anestesia, ma ai governi interessa più del gas che dei bambini ed è qui che il potere si ferma e perde.

Dopo ore e prima che lei ci resti secca, mentre continua a ringraziarmi per averla aiutata tutto il tempo, veniamo riportate nelle nostre celle. È stupido essere contente di ritrovare le proprie compagne?
In quella gioia fragile c’è tutto: la preoccupazione, la gratitudine, la certezza che siamo ancora vive.

L’ultima notte

L’ultima notte, ci trasferiscono in un’altra cella. Proviamo a dormire il più possibile anche se le luci sono sempre accese. Vorrei riuscire ad urinare ma non ci riesco. Dovrò aspettare di essere in Turchia per riuscirci. Temo che il mio corpo non collabori, invece, è più forte di quanto immaginassi. Senza dirci nulla, ci rimettono in fila, ci fotografano, ci fanno risalire sui furgoni.

Non siamo legate. Penso che stiamo andando a Tel Aviv e invece ci portano all’aeroporto di Ramon, vicino ad Eilat. Ancora ore di deserto e sole.

L’aeroporto è vuoto a parte noi nelle nostre tute e ciabatte e i poliziotti. La strada è lunga per la pista. Ci si muove uno alla volta poi, arrivati sul piazzale, vediamo un aereo della Turkish Airlines e i nostri compagni maschi. Ma dobbiamo salire? Ma dove andiamo?

Verso la Turchia

Il volo è un charter che ci porterà ad Istanbul, ci danno da mangiare, da bere, tra baci e abbracci. Qualcuno si sente male, perché non è più abituato al cibo. Mi vedo il film di un professore di inglese in Argentina durante la dittatura che porta in classe un pinguino. È tutto surreale. Vorrei dormire ma non riesco. L’euforia è grande.

È come risalire dal fondo del mare, quando l’ossigeno torna improvvisamente e brucia nei polmoni. La libertà, dopo la paura, fa quasi male.

Prima di scendere, ci portano giacche a vento, calze, scarpe. La Turchia ha pensato a tutti. Ora siamo lo spot di un dittatore. Si prende il merito e glielo lasciamo. Non sappiamo che ne sarà di noi una volta in aeroporto. Non abbiamo i soldi per tornare a casa. Non abbiamo niente. Non sappiamo neanche cosa sanno di noi in Italia.

Ad Istanbul gli equipaggi delle barche in parte si formano, gruppetti che si ritrovano, che si abbracciano, la console, deliziosa ed efficiente, ci mette su voli su Roma e Milano. La folla ci accoglie, la stampa turca ci sommerge. Una signora mi fa mandare un messaggio ad un’amica a Roma, “avvisa i miei, stiamo tornando”. Siamo liberi, siamo di nuovo noi.

A mezzanotte arriviamo a Roma e siamo travolti dalla folla. L’Italia in quei giorni era scesa in piazza come non accadeva da decenni. Avevamo ribaltato il paese. Ma a Gaza si continua a morire.

E allora capisci che la tua libertà non basta se fuori c’è ancora chi non ne ha. Che ogni ritorno è solo l’inizio di un altro dovere: raccontare, denunciare, non lasciarli soli. Perché la vera prigione non è quella di Ketziot, ma quella dell’indifferenza.

È quella che ci costruiamo addosso quando scegliamo di non vedere, quando smettiamo di credere che una sola voce, una sola barca, una sola persona possano ancora cambiare qualcosa.

Noi siamo tornati, sì. Ma loro — i palestinesi — non possono tornare da nessuna parte.
E allora ogni parola, ogni gesto, ogni memoria deve servire a riaprire quella porta di ferro che si chiude su di loro ogni giorno.

E non c’è mare abbastanza grande da lavare via l’ingiustizia. Ma c’è ancora un mare di persone pronte a navigare controcorrente. Finché anche l’ultima cella, l’ultimo muro, l’ultimo silenzio cadranno.

E quel giorno, forse, il mondo avrà finalmente il coraggio di guardarsi allo specchio.

 

 

Foto di copertina: Hasan Almasi su Unsplash, le ultime due foto invece sono immagini create con l’IA

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