I primi passi

Scritto da in data Dicembre 29, 2018

Quattro accenti differenti: l’inglese delle guide della Tanzania, irlandese, neozelandese, americano. E, ovviamente, il mio inglese con pronuncia italiana che dopo due giorni era ancora terribile. Con loro sarei partita per sette giorni lungo la Machame route per arrivare in cima al Kilimanjaro, 5895 metri di altezza, la montagna più alta dell’Africa e il vulcano più alto del mondo.
Eleonora Viganò su Radio Bullets
Capivo poco, sembravo il classico stereotipo dell’italiana, solo che io – a differenza del solito schiamazzo – stavo zitta. Paul e Tiffany, due enormi texani in viaggio di nozze, riempivano l’aria del loro vociare marcato, quasi finto. Natasha e Moira, più pacate, erano molto unite tra di loro. Il gruppo, si conoscevano a coppie, mi aveva accettata pochi giorni prima della partenza per la Tanzania. Ho impiegato mesi per informarmi sulle agenzie, sull’equità del pagamento a guide e portatori e sulla sicurezza della compagnia per poi arrivare, a quasi poche ore dall’aereo, a scegliere Gladys Adventure, compagnia di base a Moshi, poco distante dal punto di partenza del cammino.
Il primo giorno mi sono svegliata in anticipo dopo aver dormito malissimo e in anticipo ho atteso i miei compagni di viaggio. Cosa mi metto? Cosa porto? Quale zaino? Nel sacco nero dei portatori, invece, cosa lascio? Faceva caldo e la prima tappa – fino a 2900 metri – sarebbe stata una lenta e lunga camminata nella foresta pluviale, tra fango, vegetazione intensa e qualche scimmia.Non avevo niente per la pioggia e ho chiesto, ormai prima di incamminarci, di poter prendere qualcosa dal sacco nero. L’inizio è stato ricco e incerto, nonostante l’allenamento fatto sulle nostre montagne e nonostante la semplicità tecnica dei sentieri del Kilimanjaro. Ero agitata, equipaggiata in modo impreciso. Ero partita “male”, pur allenandomi costantemente per mesi.
Ero partita con il mal di testa, inciampando in un filo della tenda la mattina del secondo giorno, con una percentuale di ossigeno a 90 già a 2900 metri e senza prendere farmaci, come invece facevano gli altri. Mi sentivo sola e isolata, senza la voglia di capire tutti quegli accenti diversi e felice di aver pagato 30 dollari per il wc portatile da campo. Il classico “chi me lo ha fatto fare” era in testa e nell’aria, come capita in ogni nuova esperienza. Poi, poco tempo dopo – che in questi casi il tempo si dilata e si estende all’infinito – avrei preso confidenza con tutto: il mio corpo, l’impossibilità di lavarsi, le mestruazioni del terzo giorno, il freddo di notte, le persone, gli accenti, il cibo pesante, i portatori e le guide, i canti per i turisti, Poco tempo dopo avrei fatto domande, spalancato gli occhi e curiosato nelle vite altrui oltre che negli spazi aperti. Avrei ammirato i portatori per la loro forza e capacità e mi sarei sentita piccola. Piccolissima e grata.
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