Il cellulare vibra: chiamata dall’inferno
Scritto da Barbara Schiavulli in data Maggio 19, 2025
Il caldo opprimeva il bus sostitutivo del tram che chissà per quale motivo ancora una volta non era funzionante. Più affollato del solito perché un autobus solo non può sostituire un tram, tanto meno in una delle tratte più lunghe e trafficate di Roma.
Ascolto i discorsi, per lo più turisti a caccia di cose da vedere incantati dalla bellezza della capitale che gli impedisce di vedere tutto quello che invece viene sbattuto in faccia ai residenti come se guardassimo entrambi le stesse cose, ma vedessimo cose diverse.
Molti neanche guardano più fuori concentrati sui cellulari, mentre ancora mi meraviglio della maestosità del Colosseo, della bellezza di alcuni punti del percorso costruito migliaia di anni fa e resistito a tutto. Guerre, conquiste, sconfitte, dolori, governi, persone che vanno e vengono.
Il mio cellulare vibra.
Di solito non rispondo, preferisco i messaggi, ma appena guardo il mittente, lo prendo subito e apro addirittura una videocall. Lei non mi chiama mai senza prima mandare un messaggio.
E non mi chiama spesso perché la ricezione è sempre difficile quindi di solito cerchiamo di essere sicure di essere ognuna di noi a casa. Nei 5 secondi che ho a disposizione per tenere il telefono in posizione e connettermi alla chiamata, penso che ci sia qualcosa che non va.
Connessione disturbata
La linea è disturbata, ma mi è subito chiaro che non mi accoglie con il suo smagliante sorriso sul quale ho sempre potuto contare. Non vedo i colori sgargianti dei suoi vestiti, la pelle è tirata, gli occhi infossati, le labbra le tremano un po’. Sta per piangere, ma le dico subito che sono sul bus.
“Sono stata 40 giorni in prigione “, mi dice con una voce che non è quella che conosco. Non è la mia amica afghana paladina dell’ottimismo, dell’energia positiva, del vogliamoci tutti bene che a volte mi fa quasi irritare per quanto è sempre positiva.
Le dico che non posso parlare. Che appena arrivo a casa la chiamo. Mi restano pochi minuti per ricomporre lo scompiglio che mi ha provocato vederla diversa da come è di solito. Mi ha fatto male come uno schiaffo, vederla così. So cosa succede nelle prigioni afghane, so che oggi essere donna è un crimine, e so anche sto facendo tutto quello che è in mio potere per farlo sapere a tutti.
Ma è sempre più facile parlare degli altri mantenendo un distacco anche se è molto piccolo quando parli di persone che non conosci. O che hai incontrato per un momento della tua e della sua vita. Ma quando si tratta di un’amica a cui sei legata dal filo indistruttibile della sorellanza? Quando parli di tua figlia, di tua madre, di tua sorella? Quando il mondo si accanisce contro di loro, la loro sofferenza e la loro rabbia diventa la tua.
Arrivo a casa, mollo borsa e giacca per terra e la chiamo.
Se la conosceste, sapreste che è una regina, di quelle che quando camminano fanno voltare le persone, di quelle che trasforma le idee in realtà, una donna che ha aiutato tante donne, che le ha sostenute, ha fatto loro forza. È anche per lei che continuo a tornare in Afghanistan perché lei è il mio Afghanistan bello, quello che merita di essere salvato, quello che racchiude la speranza.
Non l’ho mai vista così. Neanche quando i talebani avevano preso il potere e in Afghanistan e la gente impazziva dalla paura. Le avevo detto, Vattene, visto che poteva e lei mi aveva risposto “Questo è il mio paese, resto e resisto”.
“Sono una donna forte”, mi dice quasi a volermelo ricordare e a risvegliarmi dai miei pensieri. So che sei una donna forte, sorella mia, che ti è successo? “Non posso quasi camminare”, e mi si gela il sangue. È stata frustata. È stata tenuta in isolamento. Hanno tentato di spezzarla.
Mi fa vedere come cammina, si muove con la lentezza di chi sente il peso della vita e dei colpi. E io vorrei poterla salvare, ma possono solo consolare le lacrime che le scendono lungo il viso.
Tu sei forte
Non piangere, amica mia, tu sei forte, tu sei quella che loro hanno tentato di piegare, ma sei qui con me. Ora ci sono solo io e non me ne vado. Sono pronta ad assorbire il tuo dolore per tutto il tempo che vorrai. E a dirti che sei forte tutte le volte che hai bisogno.
Tira su col naso, mi dice che è stanca che non ha fatto nulla, che l’hanno incastrata per fermarla. Non aveva neanche bisogno di dirmelo. Lei è una delle centinaia se non migliaia di donne che oggi in Afghanistan rischiano la vita ogni volta che scelgono di non essere quello che degli uomini si aspettano che sia.
Vieni via, amica mia, salvati, le dico preoccupata. Solleva la testa, mi fissa come una tigre all’angolo e mi dice “e che ne sarà delle donne afghane?”. La linea cade. E che ne sarà delle donne afghane? Le scrivo che la chiamerò domani mattina che forse la connessione è migliore. Per qualche secondo di troppo guardo quella spunta su whatsapp che non prende.
20 milioni di donne dimenticate
Faccio in tempo a pensare a 20 milioni di donne che vivono nel 2025 senza diritti. Senza protezione. Nell’indifferenza internazionale. A parte pochissime persone che le aiutano a sopravvivere, sono destinate a morire senza che nessuno si ricordi o sappia che esistono. E questo mi fa arrabbiare, poi penso che la gente non si scomoda neanche per un genocidio perché dovrebbe farlo per le donne afghane che sono solo donne? Madri, sorelle, figlie, mogli di qualcuno, ma non le nostre.
Penso agli uomini capaci di cose inenarrabili basta che qualcuno glielo inculchi nella testa. Penso che la loro esistenza sia fatta soprattutto di potere, di dominio, di controllo. Penso al corpo delle donne che vale molto più dell’anima e del pensiero. Penso a quanto fragile sia il rispetto.
Lo so che tutti gli uomini non sono così, ma in realtà, potenzialmente lo sono tutti e di fatto sono più una minaccia che una risorsa per il nostro genere. I talebani lo hanno solo sistematizzato, reso legale, sdoganato.
E io non so cosa fare.
Dobbiamo passare la nostra esistenza a curarci dalle ferite, ad avere paura, a fidarci ma non troppo? Dobbiamo essere sempre forti, flessibili, esempi di donne emancipate? Siamo sempre quelle che aggiustano quando altri rompono. Che creano, quando gli altri godono, che puliscono quando gli altri sporcano. O c’è un posto dove donne e uomini sono persone? Dove non si è trofei, schiave o raccoglitrici delle loro insicurezze?
Se c’è fatemelo scoprire, perché io non lo conosco. E mi chiedo se in tutto questo tempo speso a scrivere, a parlare e andare incessantemente in giro per il mio di paese, abbia anche solo scalfito l’indifferenza che mi circonda.
Come si possono tollerare bambini che hanno fame e che muoiono fatti a pezzi? Come si può fare spallucce alle richieste di aiuto di un genere solo perché sta lontano, solo perché non è la nostra magica Europa che trova miliardi per difendersi ma non per proteggere o salvare qualcuno solo perché non è nato dalla parte giusta del confine?
Che ne è del senso di civiltà di cui tutti si riempiono la bocca, pensando che salvare la propria significhi sacrificare quella degli altri? È così che si diventa mostri.
Come posso aiutare la mia amica e tutte le donne come me e lei, se non insieme?
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