Memorie Olimpiche – Bikila, Onishchenko e Redmond

Scritto da in data Maggio 18, 2017

La rivincita di un maratoneta sulla Storia, un atleta russo imbroglione e l’amore tra un padre e un figlio dalla prima corsa all’ultimo traguardo. Storie, aneddoti, record, rivalità e personaggi che hanno segnato la storia dei giochi olimpici moderni. Con questo podcast inizia la serie “Memorie Olimpiche”. Nel primo episodio: Bikila, Onishchenko e Redmond.

Invece di leggere prova ad ascoltare: la musica e la narrazione renderanno l’esperienza più coinvolgente!

Abebe Bikila: la maratona di Roma del 1960

Abebe Bikila è etiope, e possiamo immaginare cosa significhi per un etiope gareggiare in Italia e a Roma in special modo. Chissà che correre per le strade della capitale trovandosi a guardare la stele di Axum non gli abbia dato quella spinta in più per vincere la competizione.

Bikila partecipa alla sua prima olimpiade quasi per caso; al suo posto, infatti, avrebbe dovuto gareggiare Abebe Wakijera che però si era infortunato qualche giorno prima della partenza giocando a calcio.

La maratona parte ai piedi del Campidoglio, per poi passare sulla Cristoforo Colombo verso l’Eur; ma il vero colpo mediatico è il passaggio serale della corsa sull’Appia Antica illuminata dalle fiaccole e, infine, dopo il transito per l’arco di Druso si ritorna verso il Colosseo dove, sotto l’arco di Costantino è fissato il traguardo.

Bikila decide di correre la maratona scalzo. Si sì, scalzo. Dietro questa scelta si sono sviluppate varie teorie: dalle scarpe strette alla scelta ponderata, sotto consiglio del suo allenatore. Sta di fatto che nei primi chilometri Bikila non forza l’andatura e preferisce guardarsi intorno alla ricerca del pettorale n. 26, quello dell’atleta marocchino Rhadi, il quale, secondo Niskanen, il suo allenatore, è il rivale più temibile; Bikila non riesce a trovare il marocchino visto che quel giorno indossa la pettorina con il numero 185. La lotta con il fantasma di Radhi prosegue fino a quasi metà gara, quando l’etiope lo riconosce accorgendosi che è l’unico a reggere il suo ritmo. A questo punto Bikila decide di accelerare: senza neanche aver bisogno di voltarsi, sente i passi del suo avversario svanirgli dietro. Senza più perdere la testa della corsa, Abebe Bikila vince la maratona di Roma e si aggiudica l’oro olimpico fissando il nuovo record del mondo. È il primo atleta dell’africa nera a vincere un’olimpiade, un atleta etiope vincitore della Maratona a Roma, epicentro del dominio fascista che aveva schiacciato il suo popolo, deturpando terre e uccidendo civili: è a tutti gli effetti una rivincita sportiva:

“Volevo che il mondo sapesse che il mio paese, l’Etiopia, ha sempre vinto con determinazione ed eroismo”

dichiara l’abissino, ancora scalzo, al termine della gara.

Hailé Selassié, ultimo negus etiope, promuove personalmente a guardia imperiale il suo maratoneta e gli regala una Volkswagen Beetle.

Bikila a Tokyo ’64: ancora un oro olimpico

Quattro anni dopo, alle Olimpiadi di Tokyo, Bikila vorrebbe ripetere il trionfo di Roma ma, a sei settimane dalla gara, è costretto ad operarsi a causa di un’appendicite che sembra ridurre al lumicino le sue speranze e ambizioni. Nulla di più sbagliato: l’etiope riprende ad allenarsi regolarmente e batte il suo precedente record di quattro minuti (2h 12′ 11″ il suo tempo), riuscendo nell’impresa di vincere consecutivamente due maratone olimpiche, questa volta con le scarpe. Bikila vorrebbe replicare anche alle olimpiadi di Città del Messico ma un infortunio lo costringe ad abbandonare la gara.

L’anno dopo, a Sheno, Bikila mentre guida la sua Volkswagen Beetle è vittima di un grave incidente stradale che lo priva dell’uso degli arti inferiori: il suo punto di forza diventa improvvisamente la sua debolezza ma Bikila ha una forza di volontà enorme e un grandissimo carisma. Si convince che a muovere le gambe è soprattutto la testa e, accettando la disabilità fisica, torna nuovamente a gareggiare, un anno dopo, in Norvegia nella corsa con slitta sui 10 e i 25 km. Nel 1972 partecipa inoltre alle Paralimpiadi di Heidelberg nel tiro con l’arco.

Abebe Bikila muore a soli 41 anni per un’emorragia cerebrale il 25 ottobre 1973. Al suo funerale erano presenti 75.000 persone, compresa la famiglia dell’imperatore, il quale, per quel giorno, aveva indetto lutto nazionale.

Corri Wilma, corri

Boris Onishchenko un atleta disonesto

Ai giochi olimpici tedeschi partecipa Boris Onishchenko, atleta sovietico specialista nel pentathlon moderno. Onishchenko è alla sua seconda olimpiade e ha già vinto più di qualche medaglia. C’è poco da dire, il sovietico è certamente uno dei favoriti per salire sul gradino più alto del podio e senza troppe sorprese, infatti, vince l’oro nel pentathlon a squadre e l’argento nell’individuale. Beh? Tutto qui? Si, tutto qui. Onishchenko torna in patria da trionfatore e con due medaglie al collo. Bene, bravissimo Boris ma dov’è la storia? Dov’è la particolarità? Incidente mortale? Famiglia uccisa? Infortunio? No, niente di tutto questo. Ovviamente qualcosa accade ma bisogna aspettare l’olimpiade successiva, quella di Montreal, per assistere ad un evento unico e, speriamo, irripetibile.

Dopo le prove di tiro a segno e di nuoto è la volta della scherma: nel primo incontro Onishchenko sconfigge il britannico Adrian Parker, ma il suo capo delegazione, Jim Fox, segnala al direttore del torneo, l’italiano Guido Malacarne, alcune presunte anomalie nell’assegnazione delle stoccate. Malacarne, pur condividendo le perplessità del britannico, non ha sufficienti elementi per accogliere il ricorso e lo respinge ma comincia a prestare più attenzione agli incontri dell’atleta sovietico che, poco dopo, affronta proprio Fox. Durante la gara, al primo affondo di Onishenko la luce si accende ma il giudice italiano ferma immediatamente l’incontro e ne ordina la sospensione, lì per lì inspiegabilmente. Solo in un secondo momento si viene a sapere quanto Fox aveva concordato con Malacarne: non appena Onishenko avesse affondato il colpo, Fox avrebbe dovuto gettarsi di lato evitando di farsi colpire. Immediatamente lo staff dell’Unione Sovietica si raggruppa intorno ad Onishenko, il quale prova anche a nascondere la spada che, fortunatamente, viene ritrovata senza troppe difficoltà, visto che l’unico mancino in gara è proprio l’atleta sovietico. Da un’analisi dell’arma si capisce come i sospetti fossero fondati: l’arma di Onishenko è truccata. Invece che i classici due fili posizionati sotto la coccia dell’elsa, la spada ne ha quattro; grazie a un taglio artificiale, i due fili supplementari entrano sotto l’impugnatura e sono collegati a una leva che l’atleta poteva azionare manualmente durante l’assalto in modo da far credere che la stoccata fosse andata a segno. L’imbroglio costa carissimo ad Onishenko che viene immediatamente squalificato.

Nelle ore successive viene accompagnato fuori dal villaggio olimpico da alcuni membri della delegazione sovietica e il giorno successivo fa ritorno a Kiev. Alcuni mesi dopo la fine delle Olimpiadi di Montreal, Onishchenko viene convocato da Leonid Brežnev, allora segretario generale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, il quale lo congeda dall’Armata Rossa, multandolo di 5mila rubli e revocandogli tutti i riconoscimenti sportivi ottenuti in carriera. Dove sia e cosa faccia Boris Onishchenko oggi è tutt’ora un mistero…ammesso che sia ancora vivo.

Derek Redmond e l’amore di un padre

La storia di Derek Redmond non è solo uno straordinario e incredibile episodio sportivo ma, soprattutto, una meravigliosa e toccante storia d’amore. No, non ci fu nessuna maglietta con dedica alla fidanzata a fine della corsa, né un aereo con striscione che solca i cieli, né tanto meno una richiesta di matrimonio sul maxi schermo. Qui si parla di amore paterno e del profondo ed indissolubile legame che si crea fra padre e figlio. Fra un padre che sostiene continuamente il figlio ed è pronto a sfidare ed affrontare qualsiasi avversità pur di vederlo realizzato e felice. Felice non vincente.  

Derek Redmond nasce il 3 settembre del 1965 e da subito si capisce che il ragazzo ha talento e farà strada. Si specializza nei 400m piani e, non ancora ventenne, stabilisce il record britannico nella specialità. Prima di partecipare ai giochi di Seoul, Redmond ha già vinto un argento mondiale e un oro europeo. Durante le batterie di qualificazione, nel riscaldamento, a meno di due minuti dall’inizio della gara, Redmond sente un dolore fortissimo, lancinante che non gli permette di prendere parte alla corsa. Sul tabellone a fine gara il britannico figura quindi in ultima posizione con la dicitura DNF (Did not play). Redmond non riesce ad accettare serenamente quanto successo ma capisce che tornare indietro è impossibile. Affronta ben otto interventi per ricostruire il tendine d’Achille. Tornare a livelli d’eccellenza ed essere di nuovo competitivo è veramente un’impresa ma con tenacia e perseveranza Redmond torna ad indossare le scarpette da corsa: vince l’oro ai mondiali del ‘91 nella staffetta 4x400m e capisce che la sua carriera non è ancora finita e l’anno dopo, a Barcellona, avrà la possibilità di prendersi la sua rivincita. Si qualifica per le semifinali agevolmente: secondo i bookmakers è il favorito e il suo sguardo è quello di chi sa ciò che vuole. Corre in corsia cinque e parte con una buona reazione ma a metà gara sente il muscolo tirare: prima rallenta, poi si ferma e si accascia a terra portandosi le mani sul viso. I suoi avversari tagliano il traguardo e lui è ancora lì, immobile e in lacrime. Un giudice gli si avvicina per aiutarlo ma Redmond si rialza e, pur zoppicando vistosamente, riprende la sua corsa. Questa volta deve finire la gara, non vuole vedere più DNF accanto al suo nome. I 65000 dello stadio si alzano in piedi e cominciano ad applaudire l’atleta britannico e cercano, con quegli applausi, di sostenerlo e di aiutarlo a tagliare il traguardo. Poco dopo aver superato i 300m si vede una persona entrare in pista che corre verso Redmond: è suo padre, quel padre che vent’anni prima lo aveva portato per la prima volta su una pista d’atletica; non ce la fa a vederlo in quelle condizioni e corre per sostenerlo. Gli si avvicina e lo sorregge aiutandolo a sopportare il dolore: Derek piange ma ha accanto a lui la migliore spalla su cui posarsi e insieme, abbracciati, padre e figlio terminano una delle più belle ed emozionanti gare dei giochi olimpici.

L’intervista di Redmond alla BBC

“Il dolore era intenso. Ho realizzato che tutto fosse finito. Mi sono guardato intorno e ho visto che gli altri avevano già tagliato il traguardo. Ma non sono il tipo che si arrende – nemmeno nelle discussioni, come può confermare anche mia moglie – e ho deciso che avrei finito quella gara perché sapevo che sarebbe stata la mia ultima corsa. Tutti i dottori e gli ufficiali venivano verso di me sulla pista cercando di farmi fermare ma non li ascoltavo. Poi, quando mancavano 100m all’arrivo ho sentito qualcun altro che mi si avvicinava, all’inizio non ho realizzato fosse mio padre. Mi ha detto “Derek, sono io. Non sei obbligato a finire”. E io ho risposto “Papà, voglio finire. Riportami in gara”. Lui mi ha risposto “Ok, abbiamo iniziato questa cosa insieme e la finiremo insieme”. Mi ha consigliato di camminare e smettere di correre e mi ripeteva in continuazione “Sei un campione, non hai nulla da dimostrare”. Abbiamo zoppicato abbracciati insieme fino alla linea del traguardo, solo io e mio padre, l’uomo a cui sono più affezionato, quello che ha supportato le mie scelte e la mia carriera nell’atletica da quando avevo sette anni. Non mi sono nemmeno accorto della standing ovation del pubblico, non capivo niente ero solo in lacrime”.

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