Se fossi andata sull’isola di Mafia

Scritto da in data Marzo 14, 2019

 

Le tappe mancate, i progetti che naufragano, le decisioni improvvise e impulsive: sono il motore per l’inatteso, l’imprevedibile, la scoperta di sé e del mondo.
Cinque anni fa, nel 2014, ho percorso il cammino di Santiago da Saint-Jean-Pied-de-Port, a ridosso dei Pirenei, fino all’Oceano: fino a Finisterre. Quando sono partita ero convinta che avrei fatto fatica, in quei 29 giorni a disposizione, ad arrivare anche solo a Santiago, circa 100 km prima: mai mi sarei immaginata di poter proseguire. Come se non bastasse, quell’anno, ed esattamente il 25 agosto, la cancelliera Merkel decise di percorrere simbolicamente gli ultimi chilometri del cammino fino a Santiago. Quando arrivai in città, piena di sentimenti contrastanti dopo 25 giorni di cammino e 800 km sulle gambe, la polizia mi bloccò per motivi di sicurezza. Non entrai in piazza come tutti. Il mio vero arrivo fu all’Oceano, il 28 agosto, dopo 900 km.
Al rientro, la mia insegnante di matematica delle elementari – ora psicoterapeuta – mi chiese: «dimmi una sola cosa, una sola, di questo viaggio». «Arrivare dove non immaginavo di arrivare. L’inatteso, l’inaspettato. Pensare e programmare una cosa e alla fine farne una diversa. La meta non prevista».
Sull’isola di Mafia non ci sono andata per paura: paura di una nave di legno, troppo carica, alle 3 di notte. Paura di sei ore di navigazione. Ma pensando e progettando quel viaggio, ho sostato a Nyamisati e conosciuto persone speciali, quasi surreali, a volte. Progettando quel viaggio mai fatto, sono andata in altri luoghi. Non so cosa avrei raccontato, se fossi andata sull’isola di Mafia, ma so cosa racconto ora.
Eleonora Viganò per Radio Bullets.
Photo credits: Eleonora Viganò

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Avrei dovuto essere sull’isola di Mafia e non qui, sul ciglio della strada accanto a una donna seduta su un secchiello del pesce, con il vestito colorato e il turbante giallo. La città si è svegliata da pochissimo: prima era buio, c’erano solo gli uomini che pulivano le strade, niente per la colazione: nemmeno una donna con caffè e chapati. L’insegnante di Nyamisati mi segue: devo restituirgli i soldi della nave che non ho preso e della cena di ieri sera. Non avevo prelevato e avevo la cifra sufficiente solo per dormire. Già, dormire. Alle 4 del mattino mi ero trovata seduta su di un materasso sottile e lercio, in una stanza dove ci stava solo un letto e una sedia, piena di ragnatele, muffa, macchie, con la porta fatta di legno e fessure, come quelle di fienili o cascine non abitate se non da qualche animale. C’era anche un chiavistello: eppure con una spallata sostenuta la si poteva aprire. Alle quattro, dicevamo, mi ero trovata seduta con un uomo dalla tunica bianca, senza il suo solito copricapo arabo. Quella sera, prima di ritiraci nelle nostre stanze per la notte, mi aveva chiesto se la carta igienica fosse mia: «la usate dalle vostre parti?». Il bagno era un buco, con il cemento in vista, sempre bagnato. Un bidone in plastica raccoglieva l’acqua necessaria per eliminare i residui e – forse – anche per lavarsi. Quell’uomo di Dubai, Issa credo che si chiamasse, con i baffetti bianchi, mi aveva chiesto di sposarlo proprio in quel momento. Mi aveva raccontato delle sue donne di Bangkok e mi aveva dato ragione: «quella barca è un rischio» aveva detto. «Hai fatto la tua scelta». Un suo dipendente – Singa – stava guardando la tv fuori, all’ingresso, sotto una tettoia che copriva una zona con tavolini e sedie in plastica. Era un film in bianco e nero con sottotitoli in cinese e una voce che parlava in swahili anche quando nel film stavano zitti.

Di come non sono andata sull’isola di Mafia ho parlato a lungo. Di ciò che è successo prima e dopo, invece, ne ho parlato meno.
Nyamisati è un villaggio che si sviluppa dal fiume fino alla strada principale, verso l’interno. Per la lunga, per così dire, tagliato in due da una piccola strada sterrata che ho percorso in moto con l’insegnante al quale dovevo dei soldi e sul dala dala per arrivarci e per andarmene. Ricordo il terreno di trucioli di legno degli uomini carpentieri. Fabbricano letti, soprattutto. Ricordo il molo e alla sera uomini che giocavano fuori, su un tavolo, a un gioco che non capivo, parlando in una lingua che non era la mia ma ci scommetto che ad alta voce discutessero, che non fossero d’accordo con qualche mossa, accusassero il compagno di barare o semplicemente non volessero perdere. La classica baraonda di un gioco da tavolo. Ricordo la gente che a Mafia ci andava per lavoro e famiglia: ammassati fuori a dormire per terra, in attesa delle 3 di notte, ché non sempre la nave salpa e questa settimana ha già saltato un giorno.
«Dipende dal vento». Mi disse l’insegnante.
Perché di notte? «Perché l’oceano è più tranquillo. Il punto critico è passare dal fiume al mare». Ci vogliono cinque, sei ore di traversata. Sarebbe stato un bel viaggio, se lo avessi fatto.

Avevo conosciuto due ragazzini, in coda, in attesa di salire. «Madam, madam», mi chiamavano. Volevano che io stessi vicina a loro. Mi avrebbero protetta, avrebbero fatto domande, avrei avuto addosso occhi curiosi. Qualcuno avrebbe vomitato, come sempre accade. Quelli seduti a terra e quelli sulle panche si sarebbero dati il cambio, almeno un po’? Avremmo magari riso. Cantato non credo, ma mi piace immaginarlo. Avremmo mangiato, ma cosa? Io non avevo niente con me, quella notte, nel mio zainetto. Quello grande era rimasto in ostello con tutta l’attrezzatura da trekking, a Dar es Salaam. «Torno tra quattro giorni» avevo detto prima di partire. Ma in realtà sarebbero stati di più, forse. Avrei accettato ciò che mi avrebbero offerto, ché sicuramente non mi avrebbero guardata senza offrire. Avrei avuto paura, in quelle sei ore: sarei stata tesa. Ho avuto talmente paura a terra da non riuscire nemmeno a muovere un passo per avanzare nella fila di gente in attesa di salire. Troppe le merci che passavano accanto, che venivano caricare su quella barca di legno che si faceva sempre più piccola, piccola, quasi minuscola. «Madam, madam»: i due ragazzi si saranno chiesti perché mi hanno vista sparire e allontanarmi, diventando un piccolo puntino sulla terra. Quando decisi di andarmene, decisi anche di non pensarci più: nemmeno dopo aver impiegato molto più tempo ad arrivare a Kilwa Masoko. Alle otto e mezza, quando la nave attraccò a Mafia, l’insegnante era ancora con me, prima di prendere l’ultimo mezzo per arrivare a Kilwa: avevamo preso un dala dala fino alla prima cittadina dove aspettavo accanto alla donna con il turbante, poi un secondo dala dala per un’altra città leggermente più grande, di sicuro più viva, dove sono riuscita a fare colazione con un chapati e il chai. Lì ho salutato l’insegnante dopo aver pagato ciò che gli dovevo. Alle otto e mezza, mentre attendevamo l’ultimo bus, mi dice: «sono arrivati».
«Chi?» «Quelli della nave, su Mafia. Il capitano mi ha detto che non ti ha più vista, mi chiedeva che fine avessi fatto».
Sorrido: sono felice che siano arrivati. «Quella nave è sicura! Nessuno sa che si può andare da qui sull’isola. Vanno tutti a Zanzibar».
Vorrebbe incentivare il turismo, lo capisco. Vorrei aiutarlo. La scuola in cui insegna è bellissima. Le ragazze dormono lì perché vengono da troppo lontano: isole, villaggi distanti. I letti sono giacigli di gomma piuma a terra, l’elettricità manca. La casa dell’insegnante è disordinata, sono muri poco curati, grezzi. Le galline razzolano ovunque. Ha una bella moto, un boda boda, come dicono qui. L’aula di scienze, con qualche strumento per gli esperimenti, è una sorta di impegno, di promessa che fanno a loro stessi, per il loro futuro.
Quando arrivo a Kilwa voglio solo riposare: scoprire e riposare. Trovo un ente del turismo, chiedo per una stanza e finisco in un alloggio vicino a un centro minuscolo che gira intorno alla stazione degli autobus. Il residence è pulito, curato: bello. In camera ho la poltrona, il letto con la zanzariera, nel bagno ho la turca. Il pavimento ricorda le case al mare. Fuori c’è un bel selciato e ci sono i fiori. Mi addormento.

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