Stone Town, Metemwe e ancora Stone Town
Scritto da Eleonora Viganò in data Aprile 4, 2019
Il viaggio è un puzzle composto da incontri, anche semplici, che permettono di vedere le cose da una prospettiva diversa. Ho apprezzato Stone Town solo dopo aver conosciuto la principessa Sayyda Salme e la storia del Palazzo delle Meraviglie, dei suoi sultani; l’ho apprezzata dopo aver visto la memoria della schiavitù e dopo aver seguito Mohammed per le sue commissioni. Avevo il timore di annoiarmi e invece una passeggiata si è trasformata in un disegno sulla sabbia fatto con la punta di un bastone per spiegarmi la famiglia, secondo lui. Lo snorkeling è ora il ricordo di due calamari appesi alle dita, sciacquati in mare mentre inizia a piovere.
Eleonora Viganò per Radio Bullets.
Photo credits: Eleonora Viganò
Se non dovessero uccidermi curiosità e sbadataggine, ci penserà l’intossicazione alimentare. Sono a Stone Town: ho ascoltato la musica taarab, ho visitato ciò che riporta dolorosamente alla memoria degli schiavi, ho perlustrato le viuzze e il Palazzo delle Meraviglie interessandomi ai sultani e a Sayyda Salme, principessa di Zanzibar e Oman, figlia di un sultano di Zanzibar. Arrivata in Germania, è qui che ha scritto e pubblicato nel 1886 un libro autobiografico sulla sua storia. Purtroppo, non l’ho comprato.
Sono andata in un parco con il dala dala e ho visto la serra delle farfalle, approfittando del passaggio gratuito offerto da un tassista. Sono stata alla larga da alberghi e ristoranti occidentali e ho cenato su un marciapiede. Stavo camminando in un vicolo quando ho incrociato lo sguardo di due ragazze con il loro pentolone. Mi sono seduta insieme a un altro avventore proprio sul ciglio della strada. Per 800 shelling ho avuto chapati avvolto in carta di giornale e porridge con crema di cocco.
«Noi qui abbiamo tutto naturale. Non come il cibo vostro, dal supermercato, preparato» – credo che cercasse di dire industriale. Mi fa una battuta sull’energia data dal porridge e dal chapati. Io mangio lentamente e con gusto.
Il giorno dopo, con due mezzi di cui un camioncino con il cassone coperto e la gente appesa fuori, e un po’ di strada, raggiungo la spiaggia a nord meno turistica in assoluto: Matemwe. Arrivo alle 11:00: trovo un bungalow su internet, lo prenoto e lo raggiungo dalla fermata del dala dala con un taxi. Quando arrivo mi rendo conto che non c’è nulla: spiaggia. Bungalow. Io. La tendenza a non volermi fermare un attimo mi infastidisce. Poi per un disguido sono costretta a capire come fare per tornare a Stone Town – un disguido sempre di soldi e bancomat – ed è allora che il proprietario del bungalow – tale Mohammed – mi dice che a Stone Town mi ci avrebbe riportata lui andata e ritorno, a patto di seguirlo dal barbiere, in banca, al mercato.
Ho atteso fuori, dal barbiere, ho fatto la coda con lui in banca, e mentre i turisti sceglievano le spezie confezionate per loro, io reggevo rotoli di carta igienica per il bungalow e qualche busta di pane. Abbiamo recuperato la moglie – che lavora in ospedale – e i figli, poi abbiamo concluso il giro al mercato di riso e granaglie mentre lo osservavo contrattare, soppesare e scegliere. «Non hai l’accento italiano» mi dice. Mi indica in ordine: la sua scuola da bambino, un camioncino con i carcerati in arancione e l’ospedale. Mi chiede per cosa si va in carcere in Italia.
Ritorniamo a Matemwe con moglie e figlio: ci arrivo alle 16:00. Ci sono sabbia bianca, alghe e barche, nessun negozio di oggettistica con scritto Zanzibar o Tanzania. Ci sono le maree che regolano i ritmi dei pescatori. Il villaggio è alle spalle: una sorta di fantasma grigio come se fosse fatto di cenere, ché la sabbia bianca si mischia anche ai rifiuti, alle case e alle palme. Ci sono i pescatori in quella zona dove si tratta l’acquisto, dove arrivano quelle barche strane, con le ali, come dico io. Siamo pochi. C’è silenzio. Quel tardo pomeriggio, prima di cenare, chiedo di poter fare snorkeling vicino all’atollo di Mnemba: attorno, ché per starci sopra devi essere molto ricco sudafricano o nativo. «Chiedi di lui»: lui si fa chiamare Captain e chissà quanti turisti deve aver portato in giro, proprio come ha fatto con me. Dopo un paio di tappe attorno all’atollo, ci siamo poi fermati a riva, lontani dal mio bungalow, prima che iniziasse a piovere.
Oceano verde Tiffany, sabbia bianca, rocce, rocce, alberi, alberi e cielo e nuvole come gli strati di una torta. Ricordo i verdi e i turchesi dell’oceano, la luce che strizzi gli occhi, il bianco, c’erano i marroni delle scogliere e delle palme e un pizzico di grigio, per nubi e pioggia. Mi lascio guidare: compro – da un uomo sulla spiaggia, non al mercato – per 700 shelling un paio di calamari, «appena pescati» dice. Probabile, penso. Vado in giro con i calamari appesi alle dita. Captain ferma un altro pescatore, gli chiede un coltello e pulisce i calamari in mare.
Poi piove.
Nuvola scura, scura, l’oceano prima blu, poi azzurro, ora di nuovo verde, il vento, la pioggia che non ti dispiace.
Per cuocere i calamari ci vuole un po’. Camminiamo ancora verso un sempre più assoluto verde Tiffany-bianco-grigio rocce.
Piove di nuovo.
Captain prende il cartoccio caldo, saliamo sulla barca. Quando partiamo lo scarta e lo taglia per noi tre. Verde Tiffany sotto, spruzzi, rocce, rocce, sabbia bianca, pescatori.
Quando rientro non ho più una stanza: ho dimenticato di confermare una notte in più, ma resto cercando un altro bungalow.
Mi ritrovo a camminare sulla lunghissima spiaggia davanti al bungalow. La marea è bassa. Mi ritrovo accanto un giovane masai, per la prima volta sull’isola a cercare fortuna con la sua mercanzia disposta su un telo: uno dei tanti beach boys che cercano di rimediare soldi approcciando i turisti e vendendo: snorkeling, trasporti in taxi, souvenir, sesso.
«Perché voi donne bianche avete i capelli lunghi lunghi e gli uomini li portano corti?».
Lo guardo bene: dimostra 20 anni ma dice di averne 30. Viene dal Lake Manyara a nord ed è arrivato qui, a Matemwe nell’arcipelago di Zanzibar, ieri. Come me.
Il suo inglese zoppica, come il mio, ma decidiamo di farci domande reciproche sulle nostre culture, tentando di rispondere al meglio. Con il suo bastone mi disegna un cerchio: «qui dentro di notte ci stanno le mucche. Intorno ma distanti l’una dall’altra abbiamo tre capanne: in una dormono i miei genitori, in una io e mio fratello, in una le mie sorelle. La mattina portiamo le mucche al pascolo e le donne cucinano e fanno i braccialetti, poi mungono le mucche».
Mi racconta che non hanno villaggi swahili, ma ogni famiglia sta separata. Le capanne sono fatte di palme e sul tetto mettono qualcosa tipo terra. In un modo a me oscuro, prelevano il sangue dalla mucca e lo bevono subito di colpo. Il masai ha un abbigliamento riconoscibile, che però non riesce a spiegarmi: il bastone e il coltello invece servono, servono di sicuro.
Ritorna su di me, su di noi.
«Da voi l’uomo non deve pagare la vostra famiglia per sposarvi?».
«Non è la famiglia a scegliere per voi? Ma quindi, vi sposate solo per amore?».
Sono domande all’apparenza semplici, in un inglese – mio e suo – semplice.
Di quel viaggio in Tanzania ricordo che ci sono stati momenti in cui il senso estremo e traboccante della gratitudine e il senso di colpa – quella colpa indefinita, sbiadita e ristretta – hanno sconfinato, si sono mescolati e sovrapposti o sono diventati una cosa sola. La stessa cosa.
E ci sono giorni in cui questa unione avviene anche qui.
Il viaggio in Tanzania è ricco e intenso: scopritene tutte le tappe.
Se invece siete alla ricerca di ispirazioni di viaggio…
Prima della Tanzania, la nostra Eleonora Viganò ci ha raccontato la sua esperienza in Etiopia.
Vi ricordiamo inoltre che potete ascoltare il nostro notiziario quotidiano, a cura di Barbara Schiavulli, Paola Mirenda e Cecilia Ferrara con i Balkan Bullets.
Da non perdere questa settimana:
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Autore
Eleonora Viganò
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