Un viaggio sbagliato

Scritto da in data Aprile 18, 2019

 

La prima vera fregatura, non solo economica, l’ho presa fidandomi di una donna alla fermata dei bus di Dar che dispensava suggerimenti certi per arrivare in giornata a Pangani. Ho fatto un giro molto più lungo del previsto: non mi sono limitata a cambiare a Tanga, ma anche prima, in una piazzola nel niente, mi sono fermata per ripartire. Il biglietto del bus è costato caro: fino al capolinea, ad Arusha che si trova molto più a nord. Pangani, oltretutto, è di fronte – proprio esattamente di fronte – a Zanzibar ed è vicinissima a Bagamoyo, ma scopro solo dopo di questa seconda possibilità di viaggio. Sempre più libera nel non voler programmare e progettare mi ritrovo a trascorrere una notte imprevista a Tanga, solo per dormire dieci ore, in attesa di un dala dala verso una città in festa.
Eleonora Viganò per Radio Bullets.
Photo credits: Eleonora Viganò

Arrivo alla stazione dei bus di Dar es Salaam: è molto presto, so che non esiste un diretto per Pangani. Prima vai a Tanga e poi da lì a Pangani. Come sempre quando arrivo mi circondano, urlano, gesticolano, mi dicono di seguirli. Ripeto Tanga e Pangani più volte. La stazione di Dar non è come quella di Babati e tanto meno come Kilwa Masoko. È caotica ed enorme: per arrivarci – a partire dalla pensilina lucida dei trasporti interni più nuovi e moderni, simili alle nostre metro – è necessario prendere un cavalcavia a spirale come quelli degli autosilo, sul quale però transitano i pendolari.
Mi dicono che i bus per Tanga oggi non partono perché è festa. Se voglio posso prendere un bus per Arusha pagando la tariffa fino al capolinea, scendere in una piccola cittadina di cui non ricordo il nome, prendere un mezzo per Tanga e poi da lì per Pangani. Mi fido. Poi cambio idea e provo a cercare ancora, poi mi fido di nuovo. Chiedo quante ore siano necessarie e spiego che non posso arrivare a notte fonda senza alloggio: sono fragile, trasparente, mostro le mie perplessità e insicurezze senza vergogna. La donna che sbraitando e sbracciandosi mi ha venduto il biglietto per Arusha, mi accompagna a prendere una colazione in attesa della partenza. Chapati, una specie di zuppa di pesce, chai: quasi un pranzo. La donna cammina ballonzolando qui e là con lentezza: è alta e massiccia, la voce molto femminile ma potente, lo sguardo fisso e il mento verso l’alto. Non riesco in alcun modo a sfuggire a tanto talento nel vendere.
Mi carica di persona sul bus e sa che non ci rivedremo mai più, sa che non potrò lamentarmi, arrabbiarmi o esigere alcunché. Sa benissimo che sono nelle sue mani e che ho bisogno che lei traduca per me le mie esigenze: «qualcuno sa dirmi dove dovrò scendere? Qualcuno sa dirmi cosa dovrò fare per andare a Tanga?».
Ho pagato troppo per quel biglietto che rigiro tra le mani pensando di aver combinato un gran pasticcio per niente: non c’erano bus per Tanga, era un segno. No? Avrei dovuto girare i tacchi e tornarmene in ostello, visitando la città e i dintorni.
Quando mi dicono di scendere, balbetto qualcosa con l’unica persona che sappia due parole di inglese: era una piazzola deserta, con quattro dala dala in croce in mezzo al niente che non fossero due strade asfaltate. Come un incrocio tra autostrade nel mezzo della pianura padana.
Ci sono alcuni uomini. Ripeto Tanga. Tanga. Posso solo chiedere per Tanga, capire quale sia il dala dala giusto e pure alla svelta perché uno sta praticamente partendo.
Ho lo zaino leggero e inizio a correre senza capire bene e senza sapere.
«Questo, questo».
«No, questo questo».
Alla fine, ovviamente, devo aspettare.
Devo aspettare troppo: chiedo.
«Wait».
Non è nervoso e nemmeno ansia. Forse è paura di arrivare troppo tardi.
«Quanto ci vuole?». Lo chiedo e ci aggiungo un’ora, anche due.
Salgo sul dala dala, trasportata dal flusso di eventi come un pacco. La donna della stazione di Dar mi aveva mentito sugli orari, sui bus, su quanto ci avrei messo. Non sarei riuscita ad arrivare a un orario decente a Tanga, figuriamoci a Pangani: perché poi dalla stazione avrei dovuto nuovamente chiedere e capire e organizzarmi. Non avevo dove dormire, c’è una festa musulmana: avrei potuto restare senza alloggio.
Non so nemmeno quanto grande sia Pangani!
E difatti, arrivati alla stazione di Tanga si ricomincia: salgo su un tuk tuk che mi porta in centro e da qui inizia un altro delirio, come se nessuno sappia come si arriva a Pangani. Rifletto con la persona che mi sta in qualche modo – a modo suo – aiutando, certa che potrebbe semplicemente portare acqua al suo mulino.
Se parto ora, guardo l’orologio, arriverei verso le 19? Facciamo 19:30 ad andare bene. Poi devo trovare un alloggio, chiedere di qualcuno, che ne so: una guida, un ente del turismo… «Pangani e grande? Qui, qui dove posso stare? Conosci un posto sicuro per dormire qui?».
Lo seguo: la città è caotica, la gente si prepara alla festa, molti vanno proprio a Pangani ed è per questo i bus sono zeppi e introvabili. Avrei dovuto prevederlo! Al ritorno da Zanzibar avevo incontrato un’infermiera, le mani cariche di henné e ai suoi piedi borse stracolme di cibo preparato da lei per l’occasione, che stava tornando dalla sua famiglia – marito e figli – a Dar in occasione della festa.
Alla fine, accetto una stanza in una pensione spartana, in mezzo a qualche bettola, in una strada sterrata e poco illuminata. Dentro, però, sembra più o meno pulita. Costa poco. Quando compilo il registro, l’uomo mi indica uno spazio vuoto alla voce “tribù”, scritta in inglese come tutti i registri dei lodge. Gli dico che non ho una tribù, che non ci sono, da noi.
Il ragazzo che sa qualche parola di inglese mi accompagna anche a cena: mi vede a pezzi, sono di cattivo umore e ho bisogno di un sacco di cose – almeno così mi sembra. Facciamo un giro per un paio di stradine, il mercato immancabile, il mare. Mangiamo riso basmati in un chioschetto. Sono stanca, vorrei essere a Dar o già a Pangani, che poi magari fa pure schifo, mi dico. Alla fine, approfitto di Tanga per dormire – 10 ore – prima di ripartire davvero per Pangani, dove arrivo e ci lascio un altro ennesimo pezzettino di me.

Il viaggio in Tanzania è ricco e intenso: scopritene tutte le tappe.
Se invece siete alla ricerca di ispirazioni di viaggio
Prima della Tanzania, la nostra Eleonora Viganò ci ha raccontato la sua esperienza in Etiopia.
Vi ricordiamo inoltre che potete ascoltare il nostro notiziario quotidiano, a cura di Barbara Schiavulli, Paola Mirenda e Cecilia Ferrara con i Balkan Bullets.

Da non perdere questa settimana:
Dite “Robot cheese”: debutto inglese per una piccola ma tecnologica fotografa. Si chiama Eva e pare abbia tutte le intenzioni di diventare il nuovo intrattenimento di feste e matrimoni. Segni particolari: non è umana. Certo, perché Eva è robot photo booth. Raffaella Quadri per Radio Bullets.
Gli approfondimenti di Sport con Giuliano Terenzi.

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