14 febbraio 2025 – Notiziario Africa

Scritto da in data Febbraio 14, 2025

  • Kenya: il mercato delle rose tra pesticidi e restrizioni europee
  • Repubblica Democratica del Congo: la guerra nell’Est e il ruolo del Ruanda
  • Sahel: l’instabilità cresce tra jihadismo e nuove forze militari
  • Nigeria: la battaglia legale contro Shell per l’inquinamento nel Delta del Niger
  • Schiavitù: l’Africa chiede riparazioni per le ingiustizie storiche

Questo è il notiziario Africa a cura di Elena L. Pasquini

“L’imperialismo è essenzialmente un fenomeno economico, e non porta necessariamente a un controllo politico diretto o alla colonizzazione. Tuttavia, l’Africa è stata vittima della colonizzazione.

Nel periodo del famigerato “Scramble for Africa”, gli europei si sono accaparrati tutto ciò che pensavano portasse profitto in Africa, e hanno persino acquisito consapevolmente molte aree non per uno sfruttamento immediato ma con un occhio al futuro”,

scriveva Walter Rodney – politico della Guyana, uno dei padri del panafricanismo – , in “Come l’Europa ha sottosviluppato l’Africa”.

Se oggi l’Europa, o le grandi potenze, non hanno più il controllo politico del continente, non sembrano cessare le spinte all’accaparramento di quelle risorse per le quali si continua a morire.

Per questo torneremo nella Repubblica democratica del Congo e nella sua guerra per i minerali, e poi a Strasburgo dove un voto chiede all’Europa di cambiare corso e mettere fine alle forme contemporanee del colonialismo.

E poi, andremo in Sahel, in Nigeria, in Etiopia e in Kenya tra le rose di San Valentino. Quindi, a Berlino, per il Festival del cinema. Oggi, 14 febbraio 2025.

Repubblica Democratica del Congo

 La guerra non tace nell’Est della Repubblica democratica del Congo, mentre sale la tensione che rischia di allargare il conflitto all’intera regione, con Kinshasa che chiude lo spazio aereo al Ruanda.

I ribelli dell’M23, il Movimento del 23 marzo, continuano ad avanzare. Nonostante gli appelli al cessate il fuoco, dopo aver preso il controllo di Goma, la capitale del Nord Kivu, il mese scorso, procedono verso il Sud.

Era l’alba di martedì, quando si è ripreso a combattere dopo due giorni di fragile silenzio, a circa 70 chilometri da Bukavu, nel villaggio di Ihusi. Bukavu, la capitale della provincia del Sud Kivu, teme un attacco imminente, in molti sono fuggiti, le scuole sono state chiuse.

La Repubblica democratica del Congo accusa il Ruanda di armare i ribelli, il Ruanda nega, i rapporti delle Nazioni Uniti più recenti raccontano però una storia diversa e parlano ci circa 4000 soldati ruandesi nel territorio della RDC a sostegno dell’M23.

Al centro del conflitto, il ricchissimo sottosuolo congolese, i suoi minerali preziosi e strategici, il coltan indispensabile alle nostre tecnologie.

“Ci opponiamo categoricamente ai tentativi della RDC di dipingere il Ruanda come responsabile dell’instabilità” dell’Est, ha dichiarato l’ambasciatore ruandese presso le Nazioni Unite a Ginevra, James Ngango, in una riunione di emergenza del Consiglio per i diritti umani.

“Ciò che è chiaro, tuttavia, è l’imminente minaccia che la situazione attuale pone al Ruanda. Dopo la caduta di Goma, sono emerse nuove prove riguardanti un imminente attacco su larga scala contro il Ruanda”, ha affermato, aggiungendo che Kinshasa e i suoi alleati avevano accumulato armi dentro e intorno all’aeroporto di Goma, si legge su Al Jazeera.

Secondo l’agenzia di stampa congolese, Kinshasa, che chiude il suo spazio aereo a “tutti gli aeromobili civili e statali registrati o basati in Ruanda”, ha imposto “un divieto formale di sorvolare e atterrare sul suo territorio, a causa dell’insicurezza legata al conflitto armato“.

Una misura che colpisce in particolar modo le attività di Rwandair, la compagnia aerea nazionale ruandese, come scrive Radio France Internationale.

“Per le compagnie interessate, il divieto di sorvolare il territorio congolese non è ovviamente privo di conseguenze finanziarie, poiché questa decisione, che le obbliga ad estendere la loro rotta, le obbliga anche a pagare un supplemento per il carburante”, si legge ancora.

A Goma, dove le vittime dell’attacco dell’M23 sarebbero circa 3.000 con oltre 2.880 feriti, il il portavoce dell’Ufficio per il coordinamento degli aiuti umanitari delle Nazioni Unite, Jens Laerke, “ha affermato che oltre 110.000 sfollati hanno abbandonato i siti di Goma e hanno iniziato a trasferirsi nei villaggi nei territori di Masisi, Rutshuru e Nyiragongo”.

Secondo quanto riporta l’Onu, l’M23 avrebbe dato un ultimatum di 72 ore agli sfollati per lasciare i campi e tornare nei loro villaggi. Laerke ha tuttavia osservato che l’M23 ha rilasciato una dichiarazione lunedì in cui spiegava che il gruppo “sostiene e incoraggia pienamente i rimpatri volontari, ma non obbliga nessuno a tornare senza solide garanzie di sicurezza”.

Si assiste, intanto, ad un “continuo ma non pianificato smantellamento dei campi che accolgono gli sfollati interni”. Sono circa 6,7 milioni in tutto il Paese, provenienti principalmente dal Kivu e solo nell’ultimo sono state circa 500 mila le persone che hanno dovuto lasciare le proprie case.

Una situazione catastrofica che rischia di peggiorare con il blocco degli aiuti statunitensi annunciato da Donald Trump.

Una delegazione composta dalle Chiese cattolica e protestante, intanto, è stata ricevuta mercoledì a Goma da Corneille Nangaa, coordinatore della Congo River Alliance (AFC), l’alleanza, l’ombrello politico, di cui fa parte l’M23 per cercare una soluzione negoziale al conflitto.

Consultazioni che hanno toccato anche Kinshasa per tenare un “patto sociale per la pace e la convivenza nella RDC e nella regione dei Grandi Laghi”-

La guerra però, nell’Est del Congo non è solo il Kivu. Militanti armati hanno ucciso più di 51 civili in un attacco contro un gruppo di villaggi a Djaiba, in Ituri.

“La notte prima avevano attaccato un campo locale per sfollati, prima di essere respinti dalla forza di pace delle Nazioni Unite, la MONUSCO, riporta l’agenzia Reuters.

Caschi blu che secondo Jean Vianney, il capo di questo gruppo di villaggi, non sarebbero invece intervenuti in questo secondo attacco perpetrato dalla CODECO, una delle miriadi di milizie che combattono per la terra e le risorse nel Congo orientale e che spesso ha preso di mira non solo villaggi, ma anche campi profughi.

Unione Europea e Ruanda

È Stato un voto quasi all’unanimità: 443 voti a favore, 4 contro. Così il Parlamento Europeo, ieri, ha chiesto la sospensione dell’accordo di partenariato per le materie prime firmato con il Ruanda un anno fa.

Un accordo che è causa di profonde tensioni con l’Unione Europea, accusata da Kinshasa di contribuire al saccheggio dei minerali del Congo da parte del Ruanda.

“Il partenariato strategico UE-Ruanda sui settori delle materie prime sostenibili era indifendibile fin dall’inizio“, ha detto all’Agence France Press, Mounir Satouri, eurodeputato dei Verdi.

Un saccheggio, quello delle risorse minerarie del Congo, documentato ormai da diversi rapporti. Gli esperti delle Nazioni Unite ritengono che l’M23 riesca a ottenere circa 800 mila dollari ogni mese impendo tasse sul trasporto dei minerali che vanno in Ruanda.

Oltre alla richiesta di sospensione immediata del Memorandum d’intesa, la risoluzione invita la Commissione a “congelare l’assistenza finanziaria diretta al Ruanda finché non saranno soddisfatte le condizioni relative all’accesso agli aiuti umanitari e alla rottura dei legami con l’M23 “, nonché a “congelare gli aiuti militari e di sicurezza alle forze armate ruandesi “.

Secondo fonti di Radio France Internationale, “sul tavolo ci sarebbero anche sanzioni contro alti dirigenti dell’esercito ruandese, la cui identità non è nota”.

Sahel

Sarebbero sedici le vittime di un attacco ad un villaggio nel centro del Mali, nella regione di Ségou. L’operazione non è stata ancora rivendicata, ma fonti locali puntato il dito sui gruppi armati jihadisti.

Un altro attacco, uno dei tanti di cui si fatica a tenere il conto nel Sahel dove peggiora l’instabilità e dove Mali, Niger e Burkina Faso si preparano a dispiegare una nuova forza militare congiunta per combattere il terrorismo di matrice islamista.

I dati dell’Armed Conflict Location and Event Data, ACLED, ci dicono che nei primi sei mesi del 2024, il numero dei civili vittime della violenza armata ha continuato a crescere: in Burkina Faso, Mali e Niger, hanno perso la vita oltre 3 mila persone e molte di più sono quelle ferite, o che sono state costrette ad abbandonare le proprie case, oggi circa 2,6 milioni.

Una crescita della violenza di matrice jihadista che si registra nei tre Paesi guidati dalle giunte militari salite al potere nell’ondata di colpi di stato che ha attraversato la regione dal 2020.

Nelle prossime settimane i tre Paesi, che hanno cacciato dai loro territori i militari francesi e che dalla fine di gennaio sono fuori dalla Comunità economica degli stati dell’Africa occidentale dopo aver dato vita ad una nuova organizzazione comune, l’Alliance des États du Sahel, dovrebbero schierare una nuova forza militare congiunta, composta da circa cinquemila soldati per affrontare la minaccia che il terrorismo islamista continua a rappresentare.

“L’Alleanza degli Stati del Sahel è il nostro passaporto per la sicurezza”, ha affermato Salifou Mody il ministro della difesa del Niger.

“Tuttavia, le prospettive di successo delle nuove forze sono scarse”, secondo quanto scrive su The Conversation Africa, Aina Folahanmi, che insegna Economia politica della violenza, del conflitto e dello sviluppo, SOAS, all’Università di Londra.

Secondo Folahanmi, le ragioni sono molteplici. Alti livelli di disoccupazione e disuguaglianza, malgoverno, istituzioni deboli e degrado ambientale, hanno reso sempre più complesse le condizioni vita della popolazione, spingendo molti giovani ad aderire alla propaganda dei gruppi Jihadisti “che hanno intensificato i loro sforzi di sensibilizzazione nelle comunità”.

“Allo stesso tempo”, scrive Folahanmi, “i militari in ciascuno degli stati AES hanno una comprovata esperienza di violazioni dei diritti umani. Nel 2020, ad esempio, Amnesty International ha riferito che l’esercito maliano aveva eseguito 23 esecuzioni extragiudiziali e aveva fatto sparire forzatamente altre 27 persone in vaste operazioni militari nella regione di Segou … I gruppi jihadisti si presentano come protettori contro le forze statali e le milizie filo-governative”.

Secondo Folahanmi, inoltre, esiste un numero non indifferente di nodi da sciogliere perché l’operazione possa avere speranza di successo: le risorse per finanziare l’intervento militare, la necessità di disporre di strumenti e attrezzature specifiche per affrontare le particolari condizioni sul terreno, l’addestramento delle truppe.

“Tuttavia, gli stati AES”, si legge ancora, “sono tra i più poveri della regione del Sahel, con tassi di povertà superiori al 40% in tutti e tre i paesi. Nel 2022, il PIL pro capite in Mali era di 846 dollari USA (675 sterline), mentre Niger e Burkina Faso hanno registrato rispettivamente 588 e 846 dollari USA. Queste cifre sono significativamente al di sotto della media globale di 13.169 dollari USA…

Il ritiro di questi tre stati dall’Ecowas complica ulteriormente il quadro economico. Gli stati dell’Ecowas rappresentavano oltre il 51% delle importazioni maliane nel 2022 e oltre il 21% e il 13% delle importazioni rispettivamente da Burkina Faso e Niger”.

 La prospettiva più realistica, spiega ancora Folahanmi, è il ricorso sempre maggiore ai mercenari russi e “un dialogo più approfondito con la Cina” per ottenere le risorse necessarie.

Nigeria

Ci sono voluti dieci anni per portare la Shell in tribunale, davanti all’Alta corte di Giustizia del Regno Unito. Sono stati gli abitanti delle comunità di Bille e Ogale in Nigeria a intentare causa contro il colosso petrolifero per le fuoriuscite di petrolio che avrebbero tolto loro i mezzi per sopravvivere.

“L’inquinamento ha causato una devastazione diffusa all’ambiente locale, uccidendo pesci e piante, lasciando migliaia di persone senza accesso ad acqua potabile pulita”, scrive Amensty International. La Shell ha sempre negato e “ha ripetutamente ritardato il caso sostenendo di non avere alcuna responsabilità legale per l’inquinamento.

Il ritardo ha avuto un effetto devastante sulla vita delle persone”, scrive ancora l’organizzazione per i diritti umani, che negli anni ha pubblicato diversi rapporti che documentano l’impatto delle attività della Shell sulla popolazione.

“Le comunità di Bille e Ogale della regione produttrice di petrolio del Delta del Niger in Nigeria vivono da molto tempo con l’impatto devastante dell’inquinamento da petrolio.

Le compagnie petrolifere, in particolare la Shell, le hanno esposte a molteplici fuoriuscite di petrolio che hanno causato danni permanenti a terreni agricoli, corsi d’acqua e acqua potabile, lasciandole incapaci di coltivare o pescare.

La contaminazione dell’acqua e altri impatti colpiscono persino i bambini che in alcuni casi nascono con deformità. Queste comunità sono state private di un buon tenore di vita.

Meritano giustizia e un rimedio efficace, e spero che questo processo atteso da tempo vada in qualche modo a fornirli”, ha dichiarato Isa Sanusi, country Director di Amnesty International per la Nigeria

Il 6 dicembre, finalmente, la Corte d’Appello ha dato inizio al procedimento.

Amnesty International chiede alla compagnia petrolifera “un piano di bonifica completo, inclusi i dettagli di tutte le bonifiche completate e in corso nelle sue aree operative, nonché un risarcimento adeguato per i gravi e sostenuti danni che le comunità colpite hanno dovuto affrontare a seguito delle operazioni nel Delta del Niger”.

Schiavitù

“Riparazioni è l’argomento caldo ad Addis Abeba! I leader africani lanceranno ufficialmente il tema dell’anno 2025 dell’Unione Africana al 38° Summit”, si legge sulla pagina Facebook dell’Ecosoc conta di punto esclamativo.

“Giustizia per gli africani e le persone di discendenza africana attraverso le riparazioni”, di questo si parlerà nel fine settimana. “Cosa è in gioco?”, ci si domanda.

“Il futuro delle economie africane, l’equità globale e la giustizia per tutte le persone di discendenza africana, una spinta unita per la giustizia riparatrice e sanare il razzismo, affrontare le ingiustizie storiche e il loro impatto duraturo”. Un entusiasmo che rischia di infrangersi contro il muro da sempre sollevato dall’Occidente che fu schiavista.

Quello che i leader africana si devono aspettare, fa notare l’agenzia Reuters, è “l’ostruzionismo delle ex potenze coloniali, la maggior parte delle quali ha escluso di fare ammenda per i torti storici”.

Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha detto che “non vede che (le riparazioni) si realizzino” e molti leader europei si sono opposti anche solo a parlarne”, si legge.

Sono stati almeno 12,5 milioni gli africani rapiti e venduti come schiavi. “Sta diventando sempre più impossibile non riconoscere i danni causati dalla schiavitù e dal colonialismo”, ha affermato invece l’avvocato ed esperto di riparazioni dello Zimbabwe, Alfred Mavedzenge, riporta ancora Reuters.

Ma la questione, come si legge, dalle poche righe su Facebook è molto più ampia e riguarda l’eredità del colonialismo, le disparità economiche attuali, il razzismo e le forme moderne di schiavitù. “La crisi del debito del continente può essere fatta risalire ai debiti pesanti che le nazioni africane hanno contratto al momento dell’indipendenza.

Il cambiamento climatico può anche essere collegato al colonialismo: l’Africa è responsabile solo di una frazione delle emissioni di carbonio, ma i suoi fragili ecosistemi hanno sopportato il peso del riscaldamento globale”, scrive Catarina Demony su Reuters.

Una nota dell’Unione Africana suggerisce che le riparazioni potrebbero “comportare la restituzione delle terre sottratte alle popolazioni indigene” e la restituzione dei beni culturali.

Kenya

Gli innamorati che oggi si scambieranno rose rosse forse non sanno da dove arrivano. Dall’Africa, moltissime dal Kenya. Sembrano particolarmente apprezzate per la loro “longevità”, racconta Africanews.

Un terzo delle esportazioni del Kenya è diretto proprio qui, in Europa e il settore impiega circa 500 mila persone. Quest’anno, però, forse le rose non arriveranno in tempo, colpa di una falena, la Thaumatotibia leucotreta, che mangia i boccioli. L’Unione Europea ha inasprito la normativa e messo le rose “in qurantena”.

Ma non è questa la grande sfida dei coltivatori di rose kenioti, è piuttosto quella, durissima, con la fatica e i rischi che si corrono per produrre fiori che durino tanto. Perché le rose temono i parassiti e hanno bisogno di tanta chimica, pesticidi dannosi e pericolosi per la salute umana e per l’ambiente.

“Uno studio del 2020 pubblicato dalla Route To Food Initiative (RTFI) calcola che il 75 percento dei pesticidi utilizzati in Kenya sono altamente pericolosi, come il Roundup a base di glifosato, e che quasi la metà di essi è vietata nell’UE”, scrive Africanews.

“Gli agricoltori che vogliono vendere in Europa hanno dovuto adattarsi, utilizzando meno pesticidi e in quantità minori per rispettare le normative dell’UE”, si legge ancora.

Jacky Mwanzia lavora come venditore presso Isinya Roses nella contea di Kajiado, a sud della capitale del Kenya Nairobi. “[Le normative europee] sono troppo rigide e la maggior parte delle volte le nostre spedizioni verso l’UE sono in quarantena e ci vuole tempo.

È una perdita di tempo…perché dobbiamo soddisfare la domanda dei clienti in tempo, quindi stiamo cercando mercati alternativi in ​​cui queste misure non siano troppo rigide perché finiamo per perdere il 30 percento dei nostri ricavi”, racconta ad Africa news. Guardano, in tanti, sempre più la Medio Oriente, anche se è ancora troppo presto per dire addio all’Europa dove si vende tanto in giorni come questo:

“I coltivatori di Isinya Roses”, racconta ancora Africanews, “non sono ancora pronti ad abbandonare il mercato europeo e stanno sperimentando misure come le trappole a feromoni per controllare le popolazioni di FCM al posto dei pesticidi”.

Cinema

 Si è aperta ieri la Berlinale, il Festival internazionale del cinema di Berlino, che lo scorso anno ha visto attribuito l’Orso d’Oro al film documentario della regista francese Mati Dop, Dahomey, che racconta la storia delle opere d’arte restituite dalla Francia al Benin nel 2021, trafugate alla fine dell’Ottocento.

Documentari, fiction e corti, anche in questa edizione racconteranno l’Africa e la sua cinematografia.

Ci sarà Ancestral Visions of the Future di Lemohang Jeremiah Mosese, documentario intimo che esplora l’infanzia del regista. “Dalle strade polverose di ghiaia dove giocava con le macchinine di filo metallico quando aveva sette anni alle strade impassibili dell’esilio dove si è dissolto nell’anonimato, Mosese affronta i momenti che lo hanno distrutto e plasmato”.

In anteprima europea, invece, Khartoum. Nel 2022, quattro registi sudanesi Anas Saeed, Rawia Alhag, Ibrahim Snoopy (regista), Timeea M Ahmed, e uno scrittore-regista britannico Phil Cox “hanno iniziato a filmare la vita quotidiana e i sogni di cinque residenti molto diversi di Khartoum.

Quando iniziano le riprese, vivono tutti sotto un regime militare che aveva recentemente rovesciato il governo civile in Sudan. Poco tempo dopo, il regime si divide e inizia una guerra tra l’esercito e le milizie delle Rapid Support Forces che sfolla più di dieci milioni di persone.

Anche i registi e i loro protagonisti sono costretti a fuggire nell’Africa orientale. Utilizzando animazioni, ricostruzioni con green screen e sequenze oniriche, trovano modi alternativi per raccontare le loro storie.

Il risultato è un ritratto emozionante e lirico di cinque persone di Khartoum in un momento chiave della storia africana”, si legge sulle pagine del Festival.

E poi due film egiziani, la Repubblica democratica del Congo, con Mikuba di Petna Ndaliko Katondolo che ci porta a Kolwezi, la capitale ricca del cobalto. E ancora, Minimals in a Titanic World del ruandese Philbert Aimé Mbabazi Sharangabo.

Il cuore è un muscolo, di Iman Hamdulay; Ne réveillez pas l’enfant qui dort di Kevin Aubert. Sarà invece, Dreamers, della nigeriana Joy Gharoro-Akpojotor a riportarci fuori dall’Africa tra chi fugge per cercare altrove il futuro con un film ambientato in un centro per i migranti.

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