Al Hol, un campo di vite sospese

Scritto da in data Gennaio 30, 2025

AL HOL (Siria) – Da lontano in mezzo ad un nulla di arido deserto che dura chilometri e chilometri, si intravede un immenso spiazzo coperto da tende bianche, reti, filo spinato. Ci fanno entrare di qualche metro, fino ad arrivare agli uffici amministrativi, ma non oltre, se non in macchina, se non scortati.

Nessun contatto se non in un momento in cui ci allontaniamo per vedere la distribuzione di cibo alle donne della sezione irachena, circondate di bambini incuriositi da una presenza imprevista come la nostra.

Lunghe abbaye nere, visi catturati dai veli. Sguardi interrogativi. Al momento, ci rivelerà la direttrice amministrativa del campo ci sono 39 mila persone, ma sono arrivati ad averne anche 60 mila in passato, il 95 per cento sono donne e bambini e Jhan Hanan, non fatica a descriverla come una bomba ad orologerie. I minori sono 24 mila più della metà.

Ogni tenda che si trova nel proprio quadrante, nasconde dal sole e da noi, storie che sanno di guerra e di abbandono. Dolore e speranze infrante.

Alcune di queste storie sono state tirate fuori dalle organizzazione umanitarie, noi non abbiamo accesso a nessuno, ma le vediamo quelle facce al di là del reticolato  presidiato da 600 poliziotti che sorvegliano fuori e tanti altri dentro.

Amina: una madre siriana

“Non è un centro di detenzione, ma un campo sfollati”, precisa Hanan, ma non sembra per niente. In realtà le persone che vivono nella sezione siriana possono andarsene se vogliono, sono sfollati, come Amina, 31 anni originaria di Raqqa che ha perso tutto durante l’offensiva contro l’Isis nel 2017.

Suo marito è morto in un bombardamento mentre cercava di fuggire con la famiglia e due dei suoi tre figli uccisi sotto le macerie della loro casa.

Chissà in che punto del campo si trova Amina con la sua bambina di otto anni? Da qualche parte in un posto o dove si passano le giornate a fare la fila per l’acqua o cercando cure mediche per la piccola che soffre di asma aggravata dalla polvere del campo.

Layla: la vedova straniera

Ha 26 anni, originaria della Germania, era una studentessa universitaria quando a 20 anni è stata convinta dal marito ad andare in Siria per unirci all’Isis.

Dopo la caduta dell’Isis è finita ad Al Hol con i due suoi figli di quattro e sei anni, nati in Siria, mentre il marito è morto in combattimento.

Vive nella sezione “Annex”, riservata alle famiglie straniere, dove le condizioni sono più dure, non può tornare in Germania, perché il governo non vuole rimpatriarla considerandola un rischio per la sicurezza.

Sono notti difficili quelle ad al Hol dove le donne vengono tuttora minacciate dai seguaci dell’Isis se tentano di dissociarsi. Una serie di omicidi donne ha sconvolto in più occasioni la sezione.

Khaled: il bambino senza infanzia

Ha 12 anni, ma quelli trascorsi ad Al Hol lo hanno fatto crescere in fretta. E’ nato a Mosul durante l’occupazione dell’Isis e per tutta la vita ha conosciuto solo la violenza e la fuga.

Dopo che suo padre, un combattente dell’Isis, è stato ucciso in un raid aereo, Khaled e la madre sono fuggiti a Baghouz dove sono stati catturati durante l’ultima offensiva (2019).

Khalad trascorre le giornate vagando per le tende, cercando cibo, o aiutando la madre con l’acqua. Non va a scuola, non ha mai tenuto in mano un libro.

Conosce solo le storie degli altri bambini che non sono tanto diverse dalle sue.

In questo momento ci sono quasi 40 mila storie come queste, persone intrappolate in un limbo, vittime della geopolitica, del conflitto, del disinteresse globale.

Ognuna di loro rappresenta una parte della crisi, dalle difficoltà legali dei rimpatri stranieri, al trauma dei bambini dimenticati.

Lo ripetiamo, queste storie vengono da rapporti di organizzazioni internazionali come Human Rights Watgh, Amnesty international e UNHCH che hanno pubblicato raccontando le condizioni di vita dei campi sfollati in Siria. Ci sono diverse organizzazioni nel campo, soprattutto sanitarie che condividono la vita di questi sfollati.

Medici senza Frontiere nel 2021 ha denunciato la morte di 79 minori del campo, Save the Children, ha lanciato l’allarme quando c’erano 60 mila residenti in condizioni terribili.

L’UNICEF ha evidenziato la situazione dei bambini nel campo di Al-Hol, molti dei quali hanno subito abusi o sono stati costretti a combattere.

In un rapporto del 2024, Amnesty International ha denunciato le sistematiche violazioni dei diritti umani subite da oltre 56.000 persone detenute nel nord-est della Siria dopo la sconfitta territoriale dell’ISIS, molte delle quali si trovano nel campo di Al-Hol.

“Sono molte le sfide che dobbiamo affrontare, la prima è sicuramente la sicurezza – ci spiega l’amministratrice – ci sono armi che entrano, ci sono tunnel che partono dalle tende, ci sono programmi di deradicalizzazione, ma molte madri non lasciano andare i figli a scuola e li fanno crescere con la mentalità dell’Isis anche se qui dentro tutti vengono trattati allo stesso modo.

Ci sono stati momenti in cui nella sezione straniera neanche ci lasciavano entrare anche per dieci giorni. Sono 42 le nazionalità presenti, nessun italiano, assicurano.

Ci sono molte persone che entrano escono, non è difficile introdurre armi. L’Isis da soldi alla gente che vive qui. E molti qui che sono affiliati all’isis dicono che Ahmed Al Shaara (il neo presidente siriano) verrà a liberarli”.

“L’85 per cento delle persone all’interno vuole andarsene e la metà vuole rimanere nella regione. Non abbiamo idea di chi abbia commesso crimini e chi no. Gli diamo dei servizi quindi non sono contro di noi, ma la loro ideologia è ben radicata quindi se venissero liberati non so cosa farebbero”.

Alcuni della sezione irachena vorrebbero rimanere in Siria, altri verranno ripresi dal loro paese, più complicato per gli stranieri che non possono essere rimpatriati se il governo di origine non li richiede. Abbiamo tedeschi, francesi, anche svizzeri, alcune persone dalla Russia sono state rimpatriate e anche del Regno Unito”.

Molti di questi individui sono stati portati ad Al-Hol dopo il collasso del califfato autoproclamato dello Stato Islamico nel 2019, in seguito alla caduta della sua ultima roccaforte a Baghouz.

Le donne straniere e i loro figli vivono in una sezione separata del campo, spesso chiamata “Annex”. Le condizioni qui sono ancora più gravi rispetto a quelle del campo principale.

Per la maggior parte dei residenti stranieri, non c’è una via d’uscita chiara. Non possono lasciare il campo, e molte non hanno rappresentanza legale per contestare la loro detenzione o cercare il rimpatrio.

Alcune donne affermano di essere state costrette a viaggiare verso i territori dell’ISIS da mariti abusivi o reclutatori. Altre hanno apertamente espresso rimorso per il loro coinvolgimento, sperando di avere un’opportunità di tornare a casa e ricostruire le loro vite.

Tuttavia, queste narrazioni sono oscurate dalla paura globale del terrorismo, lasciandole intrappolate in questo deserto.

Al-Hol microcosmo del caos

Originariamente istituito nel 1991 per ospitare i rifugiati in fuga dalla Guerra del Golfo, Al-Hol è stato riaperto e ampliato nel 2016 durante la lotta contro lo Stato Islamico (ISIS). Quello che era stato progettato come un rifugio temporaneo si è trasformato in un enorme accampamento che oggi ospita decine di migliaia di persone, la maggior parte delle quali donne e bambini.

Provengono da contesti diversi, tra cui siriani, iracheni e cittadini stranieri, uniti da un filo comune di perdita, sfollamento e trauma.

Una città di tende e disperazione

Il campo è un mosaico di tende bianche che si estendono all’infinito sotto un sole spietato, circondate da filo spinato e guardie armate.

L’accesso ad acqua pulita, cure mediche e cibo è limitato, con le organizzazioni umanitarie che lottano per soddisfare anche i bisogni più basilari.

I bambini giocano nella polvere, le loro risate fugaci in un luogo dove la speranza sembra un concetto alieno. La malnutrizione è dilagante, e le malattie prevenibili mietono vittime con allarmante frequenza.

Molti residenti sono sopravvissuti a crimini di guerra, bombardamenti e orrori inimmaginabili. Vivono in un limbo, sospesi tra la memoria delle loro case e l’incertezza del loro futuro.

Per alcuni, Al-Hol è una prigione senza mura; per altri, è un luogo in cui il passato li perseguita in cicli infiniti.

 Un focolaio di radicalizzazione

Uno degli aspetti più oscuri e controversi del campo è il suo ruolo come terreno fertile per l’estremismo. Tra i residenti ci sono famiglie di combattenti dell’ISIS, incluse donne che rimangono ideologicamente fedeli al gruppo.

Queste fazioni esercitano il controllo su alcune parti del campo, imponendo le loro interpretazioni rigorose della legge islamica e creando un ambiente instabile.

I governi stranieri, riluttanti a rimpatriare i loro cittadini, hanno lasciato migliaia di stranieri bloccati ad Al-Hol, alimentando risentimento.

Questa negligenza ha trasformato il campo in un terreno fertile per ideologie radicali, con i bambini che crescono in un ambiente dove odio ed estremismo possono facilmente attecchire.

Le autorità locali, guidate dalle Forze Democratiche Siriane (SDF) a guida curda, sono sopraffatte, sia finanziariamente che politicamente, dal peso della gestione di Al-Hol.

Le loro richieste di assistenza internazionale spesso cadono nel vuoto, lasciandole sole ad affrontare le complessità del campo.

La necessità urgente di un intervento

Al-Hol non è solo una crisi umanitaria, è una bomba a orologeria con implicazioni globali, insiste Hanas.

L’impossibilità di gestire i residenti—soprattutto le decine di migliaia di bambini—rischia di creare una generazione persa a causa del trauma e della radicalizzazione.

Il rimpatrio, la riabilitazione e il reinserimento sono essenziali, ma queste soluzioni richiedono volontà politica e cooperazione internazionale, entrambe tristemente carenti.

Per ora, Al-Hol rimane un luogo di limbo, un purgatorio in cui innocenti e colpevoli sono legati insieme da un destino comune. È un doloroso promemoria del fallimento del mondo nell’affrontare il costo umano della guerra, un luogo in cui l’umanità vacilla sull’orlo della propria coscienza.

 I bambini di Al-Hol: Una generazione perduta

Forse l’aspetto più tragico della vita ad Al-Hol è il destino dei bambini. Più della metà della popolazione del campo ha meno di 18 anni, e migliaia sono sotto i cinque anni. Questi bambini sono figli della guerra.

Il campo manca di servizi educativi adeguati, lasciando i bambini senza accesso all’apprendimento o a opportunità di crescita. Senza istruzione, sono vulnerabili all’influenza di ideologie estremiste o ai traumi dell’ambiente che li circonda.

Molti bambini hanno assistito a esecuzioni, bombardamenti e alla morte di familiari. Queste esperienze traumatiche si manifestano in problemi comportamentali, isolamento e profonde cicatrici emotive. Senza adeguato supporto psicologico, rischiano di crescere profondamente segnati dal loro passato.

In assenza di modelli positivi e opportunità strutturate, alcuni bambini sono vulnerabili all’indottrinamento da parte dei fedelissimi dell’ISIS all’interno del campo. Altri, abbandonati dai loro governi e respinti dalle comunità locali, crescono arrabbiati e alienati—una combinazione pericolosa.

Le sfide legali e politiche legate al campo di Al-Hol

La gestione della crisi umanitaria e di sicurezza ad Al-Hol non è solo una questione di fornire aiuti o stabilire migliori condizioni di vita: è un intricato labirinto di dilemmi legali, responsabilità politiche e decisioni che mettono alla prova la cooperazione internazionale.

La situazione è ulteriormente complicata dalla presenza di stranieri legati all’ISIS, dalla mancanza di meccanismi legali adeguati e dal disinteresse di molte nazioni ad affrontare la questione.

E così come siamo arrivati dal nulla, mentre il sole splende sul campo noi ce ne andiamo, le ombre si allungano, e le grida dei bambini si mescolano ai sussurri del vento.

Qualcuno ci saluta e noi ricambiamo, ma qualcun altro corre verso di noi, e lancia pietre.

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