31 gennaio 2025 – Notiziario Africa
Scritto da Elena Pasquini in data Gennaio 31, 2025
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- Repubblica Democratica del Congo: Goma è in mano ai ribelli dell’M23 che ora marciano verso il sud
- Algeria: il Consiglio della Nazione approva una legge per obbligare la Francia a bonificare le aree dei test nucleari
- Sahel: Mali, Burkina Faso e Niger fuori dalla Comunità economica dell’Africa occidentale
- Kenya: una piccola banca dei semi per imparare a riprodurre quelli indigeni
- Marocco: la collezione d’arte africana contemporanea Lazarq visibile al Museo Macaal che riaprirà il 2 febbraio
Questo nel notiziario Africa di Radio Bullets, a cura di Elena Pasquini.
«Purtroppo la situazione a Goma è preoccupante… Concentrerò i miei pochi giorni rimanenti per esortare innanzitutto i leader a smettere di combattere, a riconciliarsi tra i leader e tra i due paesi, RDC e Ruanda».
Queste parole potrebbero essere state pronunciate oggi, invece furono un ultimo appello di Ban Ki-Moon, allora segretario generale delle Nazioni Unite, nel 2008.
E potevano valere anche dieci anni prima perché nell’est della Repubblica Democratica del Congo la guerra non è mai finita.
Milioni di morti, generazioni che non hanno mai visto la pace.
Torneremo in Congo, per raccontare l’ennesimo tragico capitolo di un conflitto armato che nessuno sembra avere la volontà di far cessare.
Poi, andremo in Algeria, nel Sahel e in Kenya.
E quindi in Marocco, per dar voce ad un’altra Africa, quella che non è soltanto guerra. Oggi, 31 gennaio 2025.
Repubblica Democratica del Congo
Se c’è un luogo che assomiglia al Paradiso, questo è il Kivu, nell’est della Repubblica Democratica del Congo.
Terre vulcaniche, acque, foreste, i colori dei fiori e della gente che lo abita, la meraviglia che toglie il fiato. Si fa fatica a credere, anche per chi c’è stato, che sia invece un pezzo di un Inferno dove ad essere dannati sono gli innocenti.
Non c’è fine alla guerra, in Congo.
Goma, la capitale della provincia del Nord Kivu, è caduta in mano ai ribelli dell’M23, il Movimento del 23 marzo, che ora marciano verso il sud, verso Bukavu.
Di fatto l’M23, e il Ruanda che è alle sue spalle, controllano tutta la provincia.
L’esercito congolese è allo sbando, mentre il presidente Felix Tshisekedi dichiara che continuerà a combattere e si riprenderà i territori occupati.
Siamo nella regione dei Grandi Laghi africani e il Congo è il paese dello “scandalo geologico”, per la ricchezza del suo sottosuolo.
Da qui provengono minerali preziosi, come il coltan, l’oro, fondamentali per le tecnologie di cui facciamo quotidianamente tutti uso, smartphone, automobili.
«La situazione umanitaria è allarmante. Se guardiamo prima a Goma, che è l’epicentro della crisi, è una città praticamente tagliata fuori da tutto.
È stata tagliata la corrente, è stata tagliata l’acqua.
È una città dove di tanto in tanto c’è il colera e quindi c’è un grande rischio che si ripresenti.
Ci sono anche molti cadaveri sparsi per le strade. E con questa stagione delle piogge, ci sono davvero rischi di epidemie.
A Goma c’è un laboratorio dove si studia e si conserva il virus Ebola. E non sappiamo cosa può accadere durante la guerra, se questo laboratorio è stato colpito. Quindi c’è anche una grande paura non sapendo se questo virus è sotto controllo».
Lo dice ai nostri microfoni, De-Joseph Kakisingi, il direttore dell’organizzazione non governativa SAD, Salute e Sviluppo, e presidente della piattaforma delle ONG umanitarie congolesi CONAFOHD, che abbiamo raggiunto a Bukavu.
Kakisingi ci ha raccontato anche il dramma degli sfollati fuggiti da Goma, arrivati a Minova nel sud, e poi ancora scappati da lì, costretti a vivere in campi di fortuna dove non c’è acqua, né assistenza alimentare o medica.
Se la guerra arrivasse a Bukavu sarebbe una catastrofe, spiega Kakisingi, la città potrebbe essere tagliata fuori da ogni possibile rifornimento di cibo.
«A Bukavu c’è psicosi.
Le notizie che arrivano sono che l’M23 e i suoi alleati cercano di progredire.
Si pensa che probabilmente vogliano conquistare l’aeroporto che è usato come base aerea per l’esercito e la polizia.
È per questo che la popolazione è la più preoccupata, avendo visto quello che è accaduto a Goma.
A Goma ci sono state molte morti civili.
E allora le persone hanno paura, sono preoccupate, non sanno cosa accadrà» racconta ancora Kakisingi.
“Il peggio potrebbe essere in arrivo”, scrivono però gli analisti dell’International Crisis Group.
Il fatto che i ribelli si stiano spingendo più in profondità nella vicina provincia del Sud Kivu e minaccino la sua capitale Bukavu, “suggerisce che hanno ambizioni che vanno oltre Goma o almeno che stanno cercando di aumentare la pressione su una Kinshasa indebolita”.
“Se non si interviene” avvertono i ricercatori “i combattimenti potrebbero estendersi a tutta la regione dei Grandi Laghi, ricordando gli orrori della fine degli anni Novanta e dell’inizio degli anni Duemila, quando milioni di persone morirono in una guerra che coinvolse più nazioni in Congo”.
A luglio dello scorso anno si era tentato un cessate il fuoco, fallito.
A dicembre, fallito un altro tentativo negoziale: il Congo che non vuole trattare direttamente con l’M23 perché ritiene che ad armarli e a sostenerli ci sia il Ruanda, e il Ruanda che si chiama fuori.
La diplomazia, con i due processi di pace in corso, quello di Nairobi e quello di Luanda, ha fallito, eppure bisogna continuare a tentare, arrivare almeno ad una tregua che è tra le richieste che stanno portando avanti anche in Italia moltissime organizzazioni della società civile.
«Intanto si chiede prima che si parli di questo conflitto, di rompere il silenzio.
Due, chiediamo che ci sia un cessate il fuoco immediato e poi chiediamo alla comunità internazionale di smettere con la politica dei due pesi e due misure, di impegnarsi per la pace e dare delle sanzioni chiare, forti e concrete al Ruanda e al movimento M23.
E poi chiediamo al popolo congolese di impegnarsi anche dalla sua parte per far sì che questo conflitto non prenda le proporzioni di quelle del 1996».
A parlare è John Mapliza, che mette in guardia da chi chiama i combattenti “liberatori” replicando il drammatico copione di trent’anni fa.
Mpaliza è il portavoce della Rete “Insieme per la pace in Congo” che raccoglie decine di organizzazioni e di cittadini che chiedono pace.
Chi sono i miliziani dell’M23
Ma chi sono i miliziani dell’M23 e cosa vogliono?
A guidare il movimento, ribelli che sostengono di combattere per proteggere i diritti dei tutsi.
Nel 2012, avevano già conquistato Goma, ma furono presto costretti a ritirarsi.
Tornano a prendere le armi nel 2021.
Ogni volta usando come giustificazione il mancato rispetto degli accordi che avrebbero dovuto portare al loro disarmo e reintegrazione, e alla tutela del loro gruppo etnico che si ritiene invece ancora minacciato dalla presenza in Congo degli hutu genocidari attivi con il gruppo armato delle Forze di Liberazione del Ruanda.
L’M23, però, non è più il gruppo che prese Goma oltre dieci anni fa, ora ha una formazione politica alle spalle, la Congo River Alliance, formata a dicembre del 2023, da Corneille Nangaa, ex capo della commissione elettorale e collaboratore dell’ex presidente della RDC Joseph Kabila.
Sembra esserci un progetto politico, un’idea di controllo del territorio.
Il ruolo del Ruanda
E qual è invece il ruolo del Ruanda?
Inizialmente Kigali ha negato qualsiasi coinvolgimento nel conflitto congolese, ma rapporti delle Nazioni Unite hanno nel tempo raccolto prove di una partecipazione diretta del paese guidato da Paul Kagame.
Secondo gli esperti dell’ONU, c’erano anche circa 4.000 soldati ruandesi a combattere a fianco dell’M23.
Kigali oggi spiega le sue azioni con la stessa narrazione delle M23, come un tentativo di proteggere i tutsi contro le minacce dell’FDLR e anche che si tratta di “una risposta alla postura militare ostile della RDC e alla retorica anti-Kigali” di Kinshasa, scrive ancora ICG che spiega: “La narrazione di Kigali che giustifica il suo intervento, tuttavia, non quadra con gli eventi sul campo. Lì, l’obiettivo sembra meno quello di sradicare le FDLR che quello di un’espansione territoriale a lungo termine, inclusa l’acquisizione di regioni ricche di minerali”.
Ed è questo il nodo centrale: le risorse minerarie.
Perché qui, dove da sempre operano centinaia di milizie per controllare parti del territorio e sfruttarlo con l’estrazione illegale di minerali, si soffia sul conflitto etnico per mantenere il caos.
L’M23, negli ultimi anni ha preso il controllo di molti dei siti minerari, inclusa la regione ricca di cobalto di Rubaya.
Secondo le Nazioni Unite l’M23 invierebbe ogni mese circa 120 tonnellate di coltan in Ruanda che è tra i più grandi esportatori al mondo di questi minerari strategici pure essendo minuscolo e praticamente privo di risorse.
Gli esperti dell’ONU hanno anche notato un aumento nelle esportazioni di minerali del Ruanda negli ultimi anni, la maggior parte dei quali si ritiene provenga dalla Repubblica Democratica del Congo.
Il Ruanda ha sempre negato tali accuse di sfruttamento.
“Dietro la sua retorica di autodifesa e la sua partecipazione alla mediazione guidata dagli africani, Kigali è determinata ad assicurarsi la piena influenza sul Nord Kivu, catturando le sue risorse minerarie e reprimendo qualsiasi resistenza armata” scrivono ancora gli analisti dell’ICG.
«Sappiamo tutti che la guerra del Congo è una guerra economica ed è una guerra per impossessarsi delle materie prime della RDC» ci ha detto ancora Kakisingi.
«La Comunità Europea, la comunità internazionale deve chiedere al Ruanda di ritirarsi dalla RDC. Devono mettere fine l’acquisto di minerali nel sangue e deve smettere di sostenere gli aggressori».
«L’Europa sfortunatamente e parte di questo conflitto» aggiunge Mplaiza che ricorda come la UE abbia firmato lo scorso anno un accordo con il Ruanda per l’approvvigionamento di minerali critici.
«Parliamo di coltan, oro, tungsteno e sono minerali che sappiamo che il Ruanda non ha… L’Unione europea in qualche modo sostiene un paese che va ad occupare, ad aggredire un altro paese sovrano».
Vogliono, le organizzazioni della rete, l’annullamento di quell’accordo, vogliono tutti che la guerra finisca.
«Speriamo nella pace e speriamo in un Congo dove, quando c’è la pace, tutti possano avere accesso alle risorse naturali e tutti possano vivere una vita sana e dignitosa.
Ci auguriamo anche che la comunità internazionale possa capire che è possibile trattare in maniera del tutto onesta con il Congo per accedere agli stessi materiali che preferisce rubare e senza creare guerre e senza creare morti».
Algeria
«Siete diventati una potenza nucleare, mentre noi ci siamo ammalati. Venite a pulire…
Qui c’è ancora gente che muore» aveva detto a ottobre Abdelmadjid Tebboune, il presidente Algerino.
Ora il Consiglio della Nazione dell’ex colonia francese approva una legge che vuole obbligare Parigi a bonificare le aree dove sono stati condotti test nucleari tra il 1960 e il 1966.
Sono stati 17 test, come ricorda Radio France Internationale.
“Con gli Accordi di Evian, e quindi con l’accordo dell’FLN, questi test continuarono anche dopo l’indipendenza del paese.
Per alcuni, questi test e i relativi residui radioattivi continuano ad avvelenare la vita della popolazione sul posto.
In assenza di un censimento preciso, si stima che diverse migliaia di persone siano state e continuino ad essere esposte alle radiazioni, secondo l’Osservatorio sulle armi” scrive RFI.
Una vicenda che rende ancora più tese le già tesissime relazioni tra la Francia e l’Algeria, relazioni deteriorate dopo l’arresto dello scrittore franco-algerino Boualem Sansal ma che si sono fatte fortemente conflittuali sul tema caldissimo della memoria della guerra di Algeria.
Tesi, però, anche i rapporti tra Algeri e l’Unione Europea.
Sempre secondo RFI, Abdelmadjid Tebboune, vorrebbe rivedere i termini dell’accordo di associazione del 2005.
Un accordo definito dal presidente “obsoleto” per il paese che dà all’Europa gas e petrolio in cambio di prodotti manifatturieri.
“Ma 20 anni dopo, l’Algeria – che ha sviluppato la sua industria – ritiene di non aver più bisogno di tanti prodotti importati dall’Europa.
Algeri vuole addirittura incrementare le proprie esportazioni agroalimentari verso i mercati europei” si legge ancora.
Anche questa è solo una delle ragioni di attrito con Bruxelles, perché resta aperta la questione del Sahara Occidentale e del rispetto dei diritti umani.
“Giovedì scorso il Parlamento europeo ha votato una risoluzione che chiede la liberazione dello scrittore Boualem Sansal e di altri prigionieri di coscienza” ricorda RFI.
Sahel
Mali, Burkina Faso e Niger non sono più formalmente membri della Comunità economica dell’Africa occidentale.
Ad annunciarlo una nota della ECOWAS mercoledì scorso.
I tre paesi del Sahel, tutti guidati da giunte militari, avevano già dichiarato la volontà di ritirarsi dall’organizzazione multilaterale che aveva chiesto il ripristino del governo democratico dopo il colpo di stato in Niger del 2023.
Mali, Burkina Faso e Niger hanno formato una organizzazione alternativa, l’Alleanza degli Stati del Sahel.
Un’uscita formale che è stata celebrata in diverse città con migliaia di persone in piazza a sostegno della decisione di abbandonare la Comunità.
“Abbasso l’ECOWAS e lunga vita all’AES” recitavano i cartelli.
Al vento le bandiere dei tre paesi ma anche quelle della Russia.
«Siamo mobilitati per dimostrare che lasciare l’ECOWAS non è semplicemente una decisione dei tre capi di Stato. Il popolo dell’AES sostiene i propri presidenti» afferma un attivista sentito da RFI.
“Mercoledì ECOWAS ha dichiarato che i membri rimanenti hanno concordato provvisoriamente di ‘tenere aperte le porte dell’organizzazione’ riconoscendo i passaporti nazionali e le identità recanti il logo del blocco dei paesi, di continuare gli scambi commerciali nell’ambito dell’accordo regionale vigente e di proseguire la cooperazione diplomatica con i paesi” scrive l’agenzia di stampa Reuters.
Resta garantita dunque la libertà di circolazione delle persone e delle merci, mentre non è più valida per i cittadini di Mali, Niger e Burkina Faso, l’assicurazione auto “brown card” di ECOWAS.
Per il momento si tratta di uscita graduale, per evitare uno strappo troppo drastico.
ECOWAS ha concesso a Mali, Burkina Faso e Niger sei mesi di tempo per riconsiderare la loro uscita.
Ma l’uscita dei tre paesi lascia numerose questioni aperte, destinate ad avere un impatto nella vita dei cittadini e sul sistema economico.
L’AES emetterà il suo passaporto, e se la nuova alleanza ha dichiarato che “i cittadini dell’ECOWAS potranno entrare nella loro area comune senza visto. Non è vero il contrario: questo punto dovrà essere negoziato tra i due blocchi regionali (in futuro)”, scrive RFI.
“Oltre ai visti, si tratterà anche di definire le nuove regole che verranno imposte ai cittadini AES stabilmente stabiliti nei paesi ECOWAS, alle società create da cittadini AES nell’area ECOWAS e viceversa”.
Kenya
In Kenya c’è una legge del 2012 che vieta ai contadini di scambiarsi i semi, possono solo comprare quelli certificati, il che significa comprarli ogni anno, ad ogni nuova semina.
Violarla vuol dire rischiare fino a due anni di prigione e circa 7.700 dollari di multa.
Ma decine di agricoltori hanno deciso di impugnarla.
Francis Ngiri è uno loro.
Ha una fattoria in una zona semi-arida del paese, Gilgil, e ha messo in piedi una piccola banca dei semi indigeni a disposizione della comunità locale, dove s’impara a riprodurli.
La legge, dicono gli agricoltori, è un fardello troppo pesante.
Credono, invece, che le sementi indigene siano una risorsa preziosa.
«Abbiamo visto che i semi indigeni sono più resistenti e hanno prestazioni migliori nella nostra zona anche quando le precipitazioni sono ridotte» ha detto Nigiri all’Associated Press.
Nigiri, scrive ancora AP che racconta l a sua storia, “condivide con passione la sua conoscenza sulla conservazione dei semi usando metodi tradizionali come coprirli con cenere di legno, che si ritiene tenga lontani i (parassiti), o conservarli in vasi di terracotta.
Ha sottolineato l’uso di materiali disponibili localmente a costo zero”.
Maximilla Onyura, scrive ancora AP, coltiva sorgo e anche se non è tra coloro che hanno intentato causa, ritiene che «invece di incoraggiare coloro che offrono soluzioni attraverso le colture indigene, il nostro governo sta ora reprimendo coloro che condividono i semi a livello di comunità».
Secondo il governo la legge servirebbe a proteggere proprio i contadini dall’uso di semi di cattiva qualità in un paese dove molti hanno subito ingenti perdite per aver piantato semi contraffatti.
A conservare circa 50.000 varietà di semi con lo scopo di preservare quelle che rischiano di andare perdute in Kenya è la National Seed Bank, nella città di Kikuyu, che periodicamente distribuisce sementi agli agricoltori.
«Ci rendiamo conto che alcune delle varietà tradizionali che avevamo abbandonato allora sono in realtà più resistenti al cambiamento climatico, quindi quando le introduci, soprattutto nelle aree marginali, quelle varietà superano le varietà migliorate» ha affermato il direttore del Genetic Resources Research Institute che gestisce la banca, Desterio Nyamongo.
Secondo Nyamongo, che ricorda AP non ha commentato la causa, «sarebbe sbagliato per gli agricoltori, specialmente quelli delle aree marginali, iniziare a pensare che usare i semi indigeni sia arretratezza… Tutt’altro, perché alcune delle varietà indigene si sono adattate nel tempo alle condizioni locali e quindi sono più resilienti».
Marocco
Il fermento dell’arte africana contemporanea lo racconta il Marocco, grazie una delle più straordinarie collezioni private al mondo, la collezione Lazarq custodita nel Museo Macaal, Musée d’Art Contemporain Africain Al Maaden, di Marrakesh, rimasta però a lungo in buona parte non accessibile al pubblico.
Il museo riaprirà il 2 febbraio dopo un ambizioso intervento di ristrutturazione ed ampliamento e con una nuova programmazione.
Sono oltre 2.500 le opere di circa 300 artisti della collezione privata avviata da Mohamed Alami Nafakh-Lazraq, a capo del gruppo Alliances Développement Immobilier, e verranno esposte a rotazione, 150 alla volta.
Dipinti, sculture, lavori tessili, fotografie e installazioni raccolte in quattro decenni, nomi affermati nel panorama internazionale, ma anche emergenti, con un’attenzione particolare agli esponenti del modernismo marocchino, come Farid Belkahia, Ahmed Cherkaoui, Jilali Gharbaoui, Mohamed Melehi, Chaïbia Talal e Malika Agueznay.
“Organizzata in gallerie tematiche, l’esposizione celebrerà la ricchezza culturale e l’energia creativa del continente africano e della sua diaspora dal secolo scorso a oggi, esplorando temi come la decolonizzazione, la globalizzazione e l’ambiente” si legge su Exibart.
«L’arte africana non è una tendenza passeggera, come alcune gallerie del mondo occidentale potrebbero suggerire» afferma Othman Lazraq, presidente del museo, come riporta The Guardian.
«Sebbene ci sia stata un’ondata di esposizioni di arte contemporanea africana, in particolare ritratti, negli ultimi anni ciò rappresenta solo una frazione di ciò che l’arte africana ha da offrire… Si estende su una ricca diversità di mezzi, pratiche e tradizioni che vanno ben oltre la ritrattistica figurativa».
Lazraq ha contribuito ad ampliare la collezione del padre aggiungendo opere più recenti.
Tra i suoi primi acquisti, ricorda il quotidiano britannico, due fotografie di Leila Alaoui, morta in un attacco terroristico a Ouagadougou, la capitale del Burkina Faso, all’età di 33 anni.
Il museo, negli ex locali di un ufficio vendite del gruppo, avrà anche un nuovo spazio, l’Artist Room, destinato alle esposizioni temporanee che verrà inaugurato dalla mostra «Display» di Sara Ouhaddou.
Ad aprire la nuova stagione del Macaal, anche le installazioni di Salima Naji e dell’artista franco-tunisina Aïcha Snoussi.
Foto di copertina: Safari consoler – Pixabay
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