Bacha Bazi, i bambini con i campanelli alle caviglie
Scritto da Barbara Schiavulli in data Gennaio 18, 2022
KABUL − Iqbal prima ancora di rispondere abbassa lo sguardo, si scioglie il velo che porta in testa per proteggersi dal freddo e dagli sguardi indiscreti, e quando rialza lo sguardo i suoi occhi sono colmi di lacrime. La paura lo attraversa come la tormenta di neve che ieri dipingeva di bianco Kabul. La sua paura ha il colore del turbante dei talebani. «Se mi scoprono, mi uccidono. Perfino la mia famiglia».
È stata dura e travagliata la vita di questo quarantenne dai modi gentili, la camminata ondulata guardandosi le spalle da quando aveva 14 anni. Tutta una vita passata a nascondersi da chi non lo doveva sapere, in balia di uomini cattivi, brutali, che coi bambini non giocano, ma si infilano nel loro corpo solo per divertirsi.
Quella di Iqbal è la storia di un bacha bazi. Sono i bambini danzanti, una pratica abbastanza comune nella tradizione, soprattutto pashtun, in Afghanistan. Bambini che per necessità o per costrizione vengono ingaggiati in feste di soli uomini, per lo più matrimoni, vestiti da femmine provocanti dove se va bene ballano per ore al centro di una piccola folla eccitata, se va male verranno violentati e a volte picchiati da uno o più invitati. Uno status symbol per alcuni uomini ricchi, un vero e proprio business per quelli che li sfruttano. I bacha bazi − traduzione: giocare insieme − sono minori dai capelli lunghi, la pelle chiara, i lineamenti effeminati, più sono belli, più valgono.
E dal momento in cui entrano nel giro non saranno mai più bambini o giovani ragazzi, in un paese dove le cose si fanno ma non si dicono, dove le donne vengono uccise per l’onore di un uomo e i bambini maschi stuprati per un gioco sadico. Sono corpi violati e anime distrutte. L’unica cosa che conoscono è il bisogno e la sopravvivenza. Un’orgia di ignoranza, cattiveria e perversione.
«I miei genitori sono morti quando ero piccolo e io e la mia sorellina siamo andati ad abitare con mio zio, eravamo profughi in Pakistan e molto poveri. Quando ho cominciato a lavorare da un barbiere i clienti mi dicevano che se avessi danzato alle feste avrei guadagnato molti più soldi, e io ne avevo un dannato bisogno per me e mia sorella».
Così ha lasciato la scuola, c’era un gurù, una sorta di manager che ingaggiava i ragazzi, cinque o sei per volta, li chiamava, li faceva vestire da ragazze, avevano perfino un seno posticcio, magliette a mezze maniche e pantaloni attillati con i braccialetti alle caviglie che con il loro suono annunciavano il loro arrivo, e così ogni sera che partecipavano si portavano a casa sui tre euro, dopo che era stata tolta la percentuale del gurù.
Questa è stata la vita di Iqbal, fatta di balli e stupri fino a quando non ci pensi neanche più a quello che ti fanno. Cerchi di pensare solo ai soldi che ti permetteranno di pagare l’affitto e mangiare. Non è vita ma è tutto quello che ha. Alle feste partecipano solo uomini, spesso sono feste di matrimonio dove in Afghanistan uomini e donne festeggiano separatamente. Gira alcool e droga. Chi può permettersi i bacha bazi sono persone ricche, uomini d’affari e, con il governo precedente, molti comandanti militari, ci spiega. Sette anni fa ha deciso di tornare in Afghanistan ed è stato assunto da un medico che dirigeva una clinica per persone con l’aids. Il suo incarico era andare a cercare persone che avrebbero potuto essere malate scandagliando le zone dove bazzicano i ragazzi che vendono sesso e quelli che fanno i ballerini. Poi la clinica è stata chiusa e lui è tornato a fare l’unica cosa che sapeva fare: danzare e andare con uomini a cui di lui non importa nulla.
«A volte sono talmente ubriachi che litigano tra di loro, spesso se la prendono con noi e si sfogano, una volta sono stato pugnalato a una mano e sono fuggito, credevo sarei morto». Eppure continua perché Iqbal ha bisogno di soldi, come tutti gli afghani si è dovuto sposare perché apparenza e tradizione sono radicati quanto la fame. Una donna che gli ha dato sei figli e non ha mai capito chi fosse suo marito.
«Se mia moglie o la mia famiglia sapesse, verrei bruciato. Preferirebbero vedermi morto piuttosto che sapere cosa faccio. Lo so io e lo sa Allah, e ora tu». Lo dice come se non lo sapessero anche tutti quelli che lo hanno ingaggiato, ma forse il trucco lo salva da quell’idea. O forse, ancora, è comodo per tutti non saperlo.
Iqbal sei attratto dagli uomini o dalle donne? Il suo sguardo è come quello di un animale perduto, i suoi occhi si riempiono di nuovo di lacrime perché forse non ha mai detto a voce neanche bassa, come sta parlando ora, che è omosessuale. «Se potessi scegliere amerei un uomo, ma questo paese non è fatto per noi. Qui ti picchiano, vai in prigione, ti cercano, ti usano, ma la vergogna non sono loro, sono io».
Iqbal ogni tanto incontra per strada i suoi clienti e fanno finta di non vederlo. Lui è solo il ragazzino con i campanellini alla caviglia, le movenze effeminate, tutte cose per cui ora è troppo vecchio.
«Fino ad agosto lavoravamo, alcune sere tre o quattro feste, ma io non ballo più ora, il mio viso è segnato, sono io che ho dei ragazzi».
Dopo tutto quello che hai passato ora mandi tu i ragazzi? «Ho delle regole: non hanno meno di 16 anni, non costringo nessuno, li tratto bene e mi occupo di loro». Iqbal insegna loro a muoversi, a truccarsi a vestirsi. Li avverte che non conviene farlo, che la sua vita è stata distrutta, ma alcuni di loro non sentono ragioni, spesso sono ragazzi fuggiti da casa, ragazzi di strada che finirebbero per prostituirsi per 100 afghani, 80 centesimi in una macchina, invece di guadagnarne 8.000, 8 euro per una sera.
Con l’arrivo dei talebani ad agosto è tutto fermo, per loro è pericoloso, quindi da cinque mesi non lavorano, stanno nascosti in attesa di poter riprendere quando la situazione si stabilizzerà, «anche con il governo precedente era vietato, ma bastava dare due soldi alla polizia e ti lasciavano in pace, con i talebani è diverso, loro ti picchiano e poi ti uccidono».
Iqbal come stai? «Sono stanco. La mia vita è sempre stata una maschera, quando avevo il trucco e quando non lo avevo. Non sai come è stato difficile con mia moglie». Nessuno dei suoi figli sa della vergogna che si porta dentro, ma che ha sfamato tutti. D’altra parte, dice, non sa fare altro, conosce solo il ballo, le botte, quegli uomini che lo tengono fermo mentre gli entrano dentro, e l’amore per i suoi figli a cui spera di regalare un futuro migliore. «Kabul rispetto al Pakistan è una città brutale. Tutto quello che vorrei è portare via i miei figli, ma ora non ho neanche di che dargli da mangiare. E ogni giorno, quando esco, penso che qualcuno mi scoprirà e mi ucciderà. Poi i giorni passano e vado avanti». Se potessi tornare indietro, che faresti? «Se potessi tornare indietro nascerei in un altro posto, dove quello che sono non è una vergogna».
Ti potrebbe interessare anche:
- Afghanistan: vite nascoste
- Afghanistan: i familiari delle vittime del drone USA
- Afghanistan: la solitudine del giornalista
E se credete in un giornalismo indipendente, serio e che racconta recandosi sul posto, potete darci una mano cliccando su Sostienici