18 ottobre 2024 – Notiziario Africa
Scritto da Elena Pasquini in data Ottobre 18, 2024
- Repubblica democratica del Congo: la Corte Penale Internazionale ha deciso di riprendere ad indagare.
- Sudan: la guerra continua
- La Nigeria soffoca sotto la crisi economica
- Italia: Goodbye Julia, un tour cinematografico spiraglio di riconciliazione
Questo e molto altro nel notiziario Africa a cura di Elena L. Pasquini
“Vogliamo sapere cosa è successo veramente.
I nostri cuori, le nostre anime e quelle dei nostri morti hanno sete di verità
Sete di giustizia per avanzare sulla via della pace condivisa
Sete di piangere, guarire le nostre ferite, guarire i nostri pensieri”.
Bosembo, in lingua lingala, significa “giustizia”. Lo slang di Ben Kamunto grida la sete di verità e di giustizia del popolo congolese.
Ed è con questo grido che oggi torniamo lì, nell’Est della Repubblica democratica del Congo, in Nord Kivu, dove la Corte penale internazionale ha deciso di riprendere ad indagare sui cimini che ne insanguinano la terra.
Resteremo in Congo, quindi, nelle sue foreste spogliate, e poi andremo di nuovo nella guerra del Sudan, e nella Nigeria soffocata dalla crisi economica. Infine, nuovi dati che fotografano l’emergenza alimentare in tutto il continente, e in Italia per un tour cinematografico che è spiraglio di riconciliazione. Oggi, 18 ottobre 2024.
Repubblica Democratica del Congo
Di Kishishe nessuno aveva forse mai sentito parlare prima del novembre di due anni fa. E forse adesso nessuno ricorda più cosa accadde in questo villaggio nell’Est della Repubblica democratica del Congo.
Fu di notte che i ribelli dell’M23 attaccarono. Morirono oltre 130 persone, chi dice 170, chi 300. Oltre sessanta le donne stuprate. I sopravvissuti, fuggiti, ad ingrossare le fila dei milioni di sfollati.
Su questo, come su tutti gli altri crimini commessi in villaggi di cui il resto del mondo non conosce il nome, nell’Est del Congo, indagherà la Corte Penale internazionale. Il procuratore Karim Asad Ahmad Khan KC ha annunciato lunedì che le indagini ripartiranno, ancora una volta, dopo vent’anni.
“L’attenzione prioritaria verrà data ad ogni presunto crimine previsto dallo Statuto di Roma avvenuto nel Nord Kivu dal gennaio 2022”, ha detto.
La decisione della corte arriva dopo una valutazione preliminare condotta a seguito della richiesta di indagini avanzata del Governo della RDC nel 2023. “Desidero ricordare che le nostre indagini nel Nord Kivu non si limiteranno a parti in particolare o a membri di gruppi specifici.
Piuttosto, il mio Ufficio esaminerà in modo olistico, indipendente e imparziale la responsabilità di tutti gli attori che presumibilmente hanno commesso i crimini previsti dallo Statuto di Roma”, ha spiegato Khan.
Una precisazione che va incontro anche alle attese della società civile. “Sappiamo che da parte del governo c’è un’attenzione molto forte sull’M-23 (che le Nazioni Unite ritengono sia sostenuta dal Ruanda ndr), ovviamente a ragione perché ci sono crimini gravi commessi dall’M-23, dall’esercito ruandese e da tutte le milizie coinvolte in questa crisi.
Tuttavia, è importante che le indagini si estendano ad altri attori armati, in particolare alle ADF, ribelli ugandesi che commettono anche crimini gravi, in particolare a Béni, nel nord della provincia.
Ci sono anche alcune forze di sicurezza coinvolte in crimini gravi che potrebbero rientrare nella giurisdizione della CPI”, ha detto a Radio France Internationale, Stewart Muhindo, dell’organizzazione La Lucha, Lutte pour le changement, movimento non violento della società civile.
Ricorda un altro massacro, Stewart Muhindo, quello dell’agosto 2023, in cui le forze di sicurezza congolesi uccisero circa 50 persone che manifestavano nella capitale della provincia, Goma.
“L’agenda delle autorità congolesi, che consisteva nel limitare eventuali indagini ai soli crimini commessi dall’M-23 e dall’esercito ruandese, è quindi un’agenda politica alla quale la CPI non può e non deve sottomettersi …. ci siano stati crimini commessi da tutte le parti in conflitto nel Nord Kivu … “, ha detto ancora Jean Mobert Senga di Amnesty International, a RFI.
Amnesty International da sempre documenta le violenze di cui sono oggetto sistematicamente le popolazioni civili nell’Est del Congo e sul massacro di Kishishe aveva rivelato un modello di omicidi mirati e violenza sessuale diffusa.
“Abbiamo documentato le esperienze strazianti dei sopravvissuti, che hanno raccontato di essere stati braccati nelle loro case e sottoposti a crudeltà inimmaginabili. Uomini e ragazzi furono portati via e da allora non se ne seppe più nulla, mentre altri furono uccisi sul posto … Donne e ragazze sono state violentate e stuprate di gruppo davanti ai loro cari”.
Vittime che non hanno mai avuto giustizia, di cui non si sa neppure il nome, e sopravvissuti che “hanno ricevuto poca o nessuna assistenza umanitaria e medica vitale. Anche dopo aver cercato sicurezza nei campi per sfollati interni, donne e ragazze continuano a essere soggette a violenza e sfruttamento sessuale”, scriveva ancora Amnesty lo scorso anno.
Un massacro che, hanno raccontato all’organizzazione per i diritti umani sopravvissuti e testimoni, sarebbe stato una “rappresaglia per il presunto sostegno alle FDLR e ad altri gruppi armati contrari all’M23 in quest’area”. Violenze, accuse e pretesti, cicli interminabili che si perpetuano in questo Paese senza pace, sulla cui terra ricchissima, soprattutto di minerali rari, in troppi vogliono mettere le mani.
Le indagini della Corte Penale sono, infatti, una “riattivazione” di un procedimento che in realtà non ha mai visto la parola fine, perché la parola fine su questa guerra che va avanti da trent’anni ancora nessuno l’ha potuta scrivere.
La Corte Penale Internazionale ha giurisdizione sulla RDC dal 2002, e le indagini condotte nel 2004 in Ituri, regione sempre nell’Est, più a Nord, lungo il confine con l’Uganda, hanno già portato alla condanna di diversi signori della guerra.
Il Governo della RDC ha anche annunciato la creazione di una commissione incaricata di stabilire una Corte penale speciale. Una scelta sostenuta anche da L’Aja.
“Il nostro obiettivo finale è una strategia di giustizia di transizione a lungo termine, sostenibile e praticabile nella RDC, che la Corte penale internazionale e la comunità internazionale possono sostenere e da cui imparare”, ha aggiunto Khan.
Le foreste spogliate della RDC
Non è soltanto dal sottosuolo della Repubblica democratica del Congo che si trafuga ricchezza, c’è un altro tesoro in questo immenso Paese di 2 milioni e 345 mila km2, di acque, foreste, savane: il legname.
Un rapporto realizzato dall’Environmental Investigation Agency, in collaborazione con alcune organizzazioni ambientaliste, pubblicato questa settimana, fotografa l’inarrestabile saccheggio perpetrato dall’industria forestale nella RDC che minaccia la seconda foresta tropicale più grande del mondo.
“Il disboscamento, compreso quello industriale, è uno dei principali motori e catalizzatori del degrado forestale e della deforestazione nel paese”, spiega lo studio.
Le indagini preliminari, condotte da Actions pour la Promotion et Protection des Peuples et Espèces Menacés e da Rainforest Foundation UK, hanno analizzato 82 concessioni forestali gestite da 29 società per un totale di 14,5 milioni di ettari, di cui 13 per disboscamento industriale e 1,5 per conservazione.
Il 6% di queste concessioni non rispetta criteri di legalità. Il disboscamento industriale, inoltre, non porta che minimi benefici al Congo e alla sua popolazione. Non solo oltre il 42% delle concessioni forestali non paga regolarmente le tasse, ma appena il 15% delle aziende “adempie ai propri obblighi socioeconomici nei confronti delle comunità locali”.
Questo significa che non ci sono, per esempio, significative ricadute occupazionali.
Il rapporto dell’EIA, Down to the Last Log, presenta i risultati di un’indagine sulle due più grandi società di disboscamento industriale che operano nella RDC, Wan Peng e Booming Green, due gruppi cinesi che sarebbero “coinvolti in una serie di presunti crimini forestali e di corruzione per soddisfare la domanda di tronchi non lavorati da parte dei loro clienti”.
Violazione dei limiti di raccolta di legname e un giro di tangenti sistematico per coprire le illegalità: “Un funzionario di Wan Peng ha anche ammesso che la compagnia ha ottenuto una concessione nella RDC pagando una tangente al “generale”, un evidente riferimento al generale Gabriel Amisi Kumba, sanzionato dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea per violazioni dei diritti umani”, scrive l’EIA.
Secondo funzionari forestali sentiti dagli investigatori, la RDC sarebbe anche una destinazione chiave nel riciclaggio di tronchi tropicali provenienti dai paesi vicini dovuto al fatto che nella Repubblica democratica del Congo le aziende possono esportare legname sotto forma di tronchi grezzi e non trasformati, cosa che invece sempre più Paesi stanno vietando.
“I dipendenti di Wan Peng hanno mostrato agli investigatori dell’EIA pile di tronchi appena contrabbandati dalla vicina Repubblica del Congo, dove è stato recentemente approvato un divieto di esportazione di tronchi”, si legge ancora.
Divieto sull’esportazione di tronchi non trasformati e mantenimento di una moratoria nazionale sulle concessioni di disboscamento sono i primi passi necessari.
“Apprezziamo la recente decisione del governo [della RCD] di sospendere i contratti di 16 concessionari che operano illegalmente, ma ciò non è stato sufficiente”, ha detto, però, Blaise Mudodosi, dell’Actions pour la Promotion et Protection des Peuples et Espèces Menacés.
Sudan
Si continua a combattere in Sudan, nella capitale Khartoum. Altri 23 civili sono morti e 40 sono stati feriti, domenica scorsa, per un bombardamento su un mercato, attribuito alle Forze armate sudanesi nel tentativo “prevalere sulle RFS, i paramilitari delle Rapid Support Forces, asserragliati in alcune roccaforti bene difese”, riporta l’Agenzia Fides.
Alcune foto pubblicate sul “Sudan Tribune” mostrerebbero veicoli “dell’esercito, costruiti come vere e proprie mini-fortezze mobili con i cecchini nascosti sui tetti”.
L’agenzia riporta anche che, secondo Osama Saeed Musa Koudi, presidente dell’Unione della gioventù cristiana sudanese, citato da un quotidiano locale, alcuni membri della chiesa cristiana Al Izba originari dei Monti Nuba sarebbero stati arrestati: 16 uomini, 25 donne e 54 bambini.
Sono accusati di sostenere le RSF “semplicemente perché sono rimasti nelle zone di Khartoum occupate dalle RSF perché non avevano modo di andare altrove”, scrive l’agenzia.
Quello sudanese, però, non è un conflitto armato di natura religiosa che coinvolge la comunità cristiana. È una guerra dimenticata che è diventata “molte guerre rendendo la pace una prospettiva sempre più difficile da raggiungere”, come scrivono Justin Willis, dell’’Università di Durham, e Sharath Srinivasan, dell’Università di Cambridge su The Conversation.
I due accademici, nonostante vi siano accuse credibili “che i governi degli Emirati, dell’Egitto, dell’Etiopia, dell’Arabia Saudita e della Russia abbiano aiutato ad armare o finanziare una parte o un’altra”, nonostante le complicità della Libia e le spalle voltate dell’Occidente, sostengono che è necessario guardare all’interno e alla storia del Sudan per capire quanto è complesso immaginare una via d’uscita.
“Gli attori esterni non hanno iniziato la guerra, e non possono semplicemente farla finire”, scrivono.
“Nonostante la loro causa comune in un colpo di stato controrivoluzionario nel 2021, la guerra è iniziata quando Burhan e Hemedti (a capo rispettivamente delle Forze armate sudanesi e delle RSF), si sono disputati il primato militare e politico – e i relativi benefici economici – in Sudan.
Avevano già deciso che il Paese non era abbastanza grande per entrambi, quindi è quasi impossibile negoziare il solito tipo di accordo che divide il potere tra i nemici”, scrivono Willis e Srinivasan.
Ed è una guerra che è molte guerre, con un equilibrio difficilissimo da raggiungere perché non è solo una guerra tra due individui, sostengono ancora.
“Né l’esercito né la RSF sono coerenti o ben disciplinati – la RSF, in particolare, è una costellazione disordinata di uomini armati, per lo più provenienti dal Sudan occidentale (e, presumibilmente, anche da paesi più lontani). Condividono uno stile distintivo di abbigliamento mimetico e un senso di esclusione da lungo tempo, ma non sono sotto stretto o efficace controllo.
L’esercito ha strutture più formali – troppe, forse – ma anche queste sono frammentate. Forte dei sui generali e della potenza di fuoco aerea ma debole nelle forze combattenti, l’esercito sta adattando il vecchio programma del governo di mobilitare le milizie locali”, aggiungono.
Potrà qualcuno mettere i Sudan di nuovo insieme? Si chiedono i ricercatori. Non sembra possano volerlo Burhan and Hemedti, e potrebbero non avere completamente il controllo dei loro seguaci. I politici civili hanno perduto credito e vivono nell’incertezza.
“Tuttavia – scrivono – c’è ancora resistenza in mezzo alla rovina. La transizione del Sudan verso la democrazia post-Bashir, come previsto dalle Nazioni Unite e da altri, è morta da tempo. Ma per certi aspetti fondamentali, la rivoluzione popolare che ha rovesciato Bashir continua a vivere”.
È alle organizzazioni della società civile, alle donne e ai giovani – l’avanguardia della rivoluzione” – che bisogna rivolgere lo sguardo. Loro che “continuano a organizzare e discutere insieme il futuro del Sudan, oltre a chiedere un ruolo per sé nella sua realizzazione. Meritano la nostra solidarietà.
Molti, sia sudanesi che non sudanesi, si rifiutano di abbandonare l’idea di un Sudan migliore che non è mai stato realizzato, ma che potrebbe risorgere da queste ceneri”.
Nigeria
Un camion cisterna si è rovesciato e poi è esploso. Conteneva benzina. In fumo, con essa, la vita di circa cento persone. La tragedia che mercoledì ha scosso la notte della cittadina di Majia, nello stato di Jigawa, nel centro-nord della Nigeria, non è però l’esito di una fatalità. È il segno di una disperazione che non teme più nulla.
Quando il camion ha perso il controllo e si è capovolto, è stato impossibile fermare la folla accorsa sul luogo dell’incidente per raccogliere in qualunque modo quel liquido tanto prezioso e tanto raro. Cento morti e cinquanta feriti.
“Abbiamo fatto del nostro meglio per impedire alle persone di andare al veicolo per fare benzina, ma nonostante la zona fosse isolata, siamo stati sopraffatti e mentre le persone raccoglievano carburante, è scoppiato un incendio”, ha detto alla BBC, Lawal Shiisu Adam, portavoce della polizia.
C’è un video che racconta quella notte. Molte di quelle persone bruciate fino ad essere irriconoscibili, i corpi coperti da rami degli alberi per proteggerli degli sguardi.
Una corsa ad accaparrarsi benzina, il cui prezzo fa continui balzi in avanti. Questa settimana 16% in più, la seconda volta in un mese. A settembre la compagnia petrolifera nazionale ha imposto un aumento del 45%.
Da quando il presidente Bola Ahmed Tinubu è salito al potere, un anno e mezzo fa, e ha improvvisamente tolto i sussidi che contribuivano a contenere il prezzo del carburante, il costo è diventato di circa tre volte, contribuendo a strozzare i nigeriani che stanno vivendo una delle peggiori crisi economiche nella storia recente del paese.
Il costo della vita è cresciuto enormemente e ad agosto in nigeriani hanno riempito le piazza e le strade nelle proteste dei “10 giorni della rabbia” brutalmente represse.
La Nigerian National Petroleum Corporation, scriveva ai primi di settembre la BBC, attribuisce i rincari alla difficoltà di approvvigionamento e ai debiti della compagnia.
Quello che fiorisce, adesso, è il mercato nero.
“Molte persone sono rimaste bloccate in lunghe code alle stazioni di servizio in tutto il paese. I pendolari di Lagos si mettono in fila alle stazioni degli autobus, ma ci sono pochissimi autobus in funzione.
… Altri hanno raccontato [alla BBC] di essere stati costretti a percorrere lunghe distanze poiché i prezzi dei trasporti pubblici sono raddoppiati lungo alcune tratte… Molti garage in tutto il Paese hanno chiuso perché hanno finito il carburante, altri hanno chiuso per adeguare i prezzi.
Nella capitale, Abuja, la maggior parte sono aperti ma tutti hanno lunghe code mentre gli autisti disperati aspettano il loro turno – alcuni hanno dormito in macchina durante la notte”, scriveva ancora la BBC.
Guerra e insicurezza alimentare
Sono circa 163 milioni gli africani che devono fare i conti con un’acuta insicurezza alimentare. L’80 percento, ovvero circa 130 milioni di persone, vivono in Paesi teatro di conflitti armati, molti talmente prolungati da aver eroso la capacità delle comunità e dei governi di farvi fronte.
Dei 16 Paesi dove più forte è l’emergenza alimentare, 13 sono in guerra, che continua ad essere il fattore primario nel condurre le popolazioni alla fame.
Un numero record, secondo il rapporto dell’Africa Center for Strategic Studies, pubblicato questa settimana: tre volte di più rispetto a cinque anni fa.
La carestia è stata dichiarata nella regione sudanese del Darfur, ma è possibile, spiega il rapporto, che anche il Sud Sudan e il Mali vivano condizioni simili. L’inaccessibilità delle aree rende però impossibile raccogliere dati sufficienti.
Metà della popolazione affamata è in tre Paese: Nigeria, Sudan e Repubblica democratica del Congo. Sessanta milioni circa di persone.
“Sebbene il conflitto rimanga il principale fattore di grave insicurezza alimentare, gli impatti persistenti della pandemia sulla produzione e sul commercio alimentare, l’interruzione delle catene di approvvigionamento globali dovuta all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, le minacce alle spedizioni derivanti dalla pirateria e gli attacchi Houthi nel Mar Rosso/Ovest L’Oceano Indiano e gli shock meteorologici hanno contribuito a limitare la disponibilità e a provocare forti aumenti dei prezzi dei prodotti alimentari”, scrivono i ricercatori.
El Niño “ha contributo alla devastante siccità che ha colpito quest’anno l’Africa meridionale”.
Nord, Sud Sudan, Cinema e riconciliazione nazionale
Un lungo tour in Italia per il film Goodbye Julia, del sudanese Mohamed Kordofani. Al suo primo lungometraggio, Kordofani racconta la storia di due donne, negli ultimi anni del Sudan unito, e attraverso la loro relazione, incontro e amicizia tra una donna del nord ed una del sud, quella tra le due comunità del Paese.
Le attrici Eiman Yousif e Siran Riak saranno presenti alle proiezioni in anteprima che inizieranno il 20 ottobre, con l’uscita nelle sale prevista per il 24.
“Mohamed Kordofani lancia un appello per un riavvicinamento tra il Sudan, il suo paese, e il Sudan del Sud, che ha ottenuto l’indipendenza nel 2011.
Minati dal razzismo, dalla guerra e dall’instabilità politica, i rapporti tra i due paesi rimangono oggi piuttosto tesi. Goodbye Julia riunisce i cittadini dei due paesi allo stesso tavolo, uniti da un dramma che li colpisce in modo diverso”, si legge sulle pagine del Festival di Cannes.
“Naturalmente dovrò affrontare molte difficoltà, critiche e polemiche una volta che il film sarà proiettato, perché a molte persone non piacerà il modo in cui vengono rappresentati gli abitanti del nord nel film.
[…] Nessuno nel film è descritto come del tutto buono o del tutto cattivo perché capisco che anche gli abitanti del nord sono vittime delle loro società e delle loro comunità e dei valori che sono stati loro trasmessi attraverso le generazioni. Quindi, sono in grado di entrare in empatia con tutti i personaggi del film.
Tuttavia posso sottolineare dove penso che risieda il problema”, aveva detto Kordofani, nato nel nord, in un’intervista.
È il primo film sudanese presentato alla sezione Un Certain Regard del Festival di Cannes dove ha vinto il Premio della libertà, candidato all’Oscar per il Sudan dal Comitato Nazionale sudanese operante in esilio, ha anche ottenuto il riconoscimento per il miglior film e la migliore sceneggiatura ai Critics’ awards for Arab Films.
Le date del tour: Domenica 20 ottobre: FIRENZE, ore 21.00
Film di chiusura del Festival “Middle East Now”, Cinema La Compagnia, (via Camillo Cavour 50R)
Proiezione del film seguita da una conversazione tra le attrici Eiman Yousif e Siran Riak e i co-direttori artistici del Festival Lisa Chiari e Roberto Ruta.
Lunedì 21 ottobre: BOLOGNA, ore 21.30
Serata Evento presso il Cinema Galliera (Via Giacomo Matteotti 27) in collaborazione con ACEC Bologna.
Proiezione del film e, a seguire, le attrici Eiman Yousif e Siran Riak incontrano il pubblico. Moderano Marte Bernardi (co-direttore artistico cinema Galliera) e Iustina Mocanu (responsabile Amnesty International Emilia Romagna).
Martedì 22 ottobre: MILANO, ore 19.00
Serata evento presso Anteo Palazzo del Cinema (Piazza XXV Aprile 8). Introduzione del film alla presenza delle attrici Eiman Yousif e Siran Riak.
Martedì 22 ottobre: MILANO, ore 21.00
Serata evento presso Cinema Palestrina ( Via Giovanni PierLuigi da Palestrina 7)
Proiezione del film e, a seguire, le attrici Eiman Yousif e Siran Riak incontrano il pubblico. Modera Alba Bonetti (Presidente Amnesty International Italia).
Mercoledì 23 ottobre: SESTRI LEVANTE ore 20.45
Serata evento presso Cinema Ariston (via Eraldo Fico 12) in collaborazione con:
Proiezione del film e, a seguire, le attrici Eiman Yousif e Siran Riak incontrano il pubblico. Modera Massimo Santimone (Direttore Programmi Riviera Film Festival) in collaborazione con Alice Castagnoli.
Giovedì 24 ottobre: ROMA ore 19.30
Serata evento presso Cinema Barberini (Piazza Barberini 24/26)
Proiezione del film e, a seguire, le attrici Eiman Yousif e Siran Riak incontrano il pubblico. Introduce Riccardo Noury (Portavoce Amnesty International Italia) modera Caterina Taricano (giornalista e autrice).
Tutte le proiezioni saranno in lingua originale sottotitolata in italiano
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