24 luglio 2025 – Notiziario Mondo

Scritto da in data Luglio 24, 2025

  • Gaza: la fame uccide altri 10 civili in 24 ore, tra loro decine di bambini in agonia.  Israele: il Parlamento vota per l’annessione simbolica della Cisgiordania.
  • Regno Unito: consegnati i resti sbagliati alle famiglie delle vittime del disastro aereo in India.
  • Tensione al confine: la Thailandia chiude i valichi con la Cambogia dopo un’esplosione di mina.
  • Venezuela: muore in carcere, detenuto senza processo da quattro anni.

Introduzione al notiziario: Quando la fame diventa un’arma
Questo e molto altro nel notiziario di Radio Bullets a cura di Barbara Schiavulli

Israele e Palestina

■ OSTAGGI/CESSATE IL FUOCO: L’inviato statunitense per il Medio Oriente, Steve Witkoff, incontrerà oggi  in Sardegna il ministro israeliano Ron Dermer, a capo del team negoziale israeliano, e il primo ministro del Qatar Mohammed bin Abdulrahman Al-Thani , secondo quanto riportato da Axios.

Una fonte israeliana coinvolta nei colloqui per la tregua ha riferito ad Haaretz che Hamas ha dato una risposta “deludente” all’ultima proposta di cessate il fuoco e che la sua risposta ufficiale sta subendo ritardi a causa dei mediatori che cercano di fare pressione sul gruppo militante affinché sia più flessibile.

Martedì, la Jihad Islamica Palestinese ha dichiarato di aver perso i contatti con il gruppo che tiene in ostaggio Rom Braslavski dopo che le IDF ha raggiunto la zona in cui è trattenuto lunedì.

■ GAZA: Gli attacchi israeliani a Gaza nelle ultime 24 ore hanno ucciso 113 palestinesi e ne hanno feriti 534, di cui 34 uccisi mentre cercavano aiuto e 10 morti per fame e malnutrizione , ha dichiarato il Ministero della Salute guidato da Hamas. Secondo il ministero, dall’inizio della guerra sono stati uccisi 59.219 palestinesi.

Solo negli ultimi tre giorni, almeno 25 bambini sono deceduti per cause legate alla denutrizione.

La situazione peggiora di ora in ora. Gli ospedali, ormai al collasso, continuano a ricevere casi gravi di fame estrema.

Secondo le stime, circa 900.000 bambini a Gaza stanno soffrendo la fame, di cui 70.000 in condizioni critiche e 17.000 già colpiti da malnutrizione acuta grave.

Le conseguenze si aggravano anche per pazienti cronici: chi soffre di diabete o insufficienza renale è ormai in pericolo di vita per l’assenza di nutrienti e cure essenziali, aggravata dal blocco israeliano e dalla sistematica privazione di beni di prima necessità.

L’UNRWA ha confermato che tra marzo e giugno i casi di malnutrizione nei bambini sotto i cinque anni sono raddoppiati.

I centri sanitari dell’agenzia hanno effettuato circa 74.000 controlli nutrizionali, identificando oltre 5.500 bambini con malnutrizione acuta e più di 800 in condizioni gravissime.

Non si tratta più solo di emergenza: questa carestia pianificata è una forma moderna di assedio. I numeri parlano da soli, ma il mondo continua a ignorare il linguaggio della fame.

“Mentre giungono notizie di una crescente carestia a Gaza, la Gaza Humanitarian Foundation continua a pubblicare comunicati stampa festivi sulla distribuzione di grandi quantità di cibo, come se esistessero due universi paralleli che non si intersecano mai.

Afp: “I giornalisti di Gaza non ce la fanno più per la fame”

Le IDF hanno dichiarato di aver concluso le indagini su un attacco alla chiesa cattolica della Sacra Famiglia a Gaza City, che, secondo i funzionari della chiesa, ha causato la morte di tre persone e il ferimento di altre nove.

Secondo l’inchiesta, ” la chiesa è stata colpita accidentalmente a causa di una deviazione accidentale di munizioni “.

Le riprese satellitari degli ultimi giorni hanno mostrato che l’ IDF ha quasi completamente distrutto Khan Yunis, la seconda città più grande di Gaza, e i suoi dintorni, un’area di 90 chilometri quadrati con migliaia di case.

Sembra che la maggior parte della distruzione sia stata causata dai bulldozer.

■ CISGIORDANIA: L’ambasciatore statunitense in Israele Mike Huckabee ha incontrato mercoledì a Ramallah il vicepresidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Hussein al-Sheikh .

Secondo un post di al-Sheikh su X, i due hanno discusso del “sostegno agli sforzi per fermare la guerra nella Striscia di Gaza, liberare gli ostaggi e fornire aiuti urgenti al popolo palestinese”, nonché della violenza dei coloni in Cisgiordania e “dell’importanza” del ruolo di Washington “nel raggiungimento di stabilità, sicurezza e pace nella regione”.

ISRAELE: La Knesset, il Parlamento israeliano, ha approvato mercoledì con 71 voti favorevoli e 13 contrari una mozione che chiede di “applicare la sovranità israeliana su Giudea, Samaria e la Valle del Giordano” — i termini biblici per indicare la Cisgiordania.

La mozione, promossa dalla coalizione del primo ministro Benjamin Netanyahu, è di carattere dichiarativo e non ha valore legale immediato.

 Tuttavia, secondo gli analisti, potrebbe riaccendere il dibattito sull’annessione ufficiale dei territori occupati e orientare le future politiche del governo israeliano.

Israele occupa la Cisgiordania dal 1967, insieme a Gaza e Gerusalemme Est. Oggi vi risiedono circa 3 milioni di palestinesi e oltre mezzo milione di coloni israeliani.

I palestinesi rivendicano quei territori per la creazione di uno Stato indipendente, un’idea sostenuta dalla gran parte della comunità internazionale.

Una vera e propria annessione della Cisgiordania, secondo l’ONU e numerosi governi, renderebbe impossibile la creazione di uno Stato palestinese funzionale accanto a Israele — l’unica soluzione considerata realisticamente sostenibile per porre fine al conflitto.

Lo scorso anno, lo stesso Parlamento aveva approvato un’altra mozione simbolica per dichiarare la propria opposizione alla nascita di uno Stato palestinese.

Con questa mossa simbolica, il governo Netanyahu continua a normalizzare l’idea dell’annessione, trasformando ciò che per il diritto internazionale è occupazione militare in una possibile estensione legale e permanente dello Stato di Israele.

È una strategia di logoramento, fatta di atti dichiarativi che, sommati, spostano sempre più l’ago della bilancia lontano da ogni prospettiva di pace giusta.

SCOZIA: una remota isola scozzese ha annunciato il boicottaggio totale di Israele in segno di protesta contro il genocidio dei palestinesi nella Striscia di Gaza.

L’isola di Eigg, situata al largo della costa occidentale della Scozia e sede di una comunità di circa 120 residenti, ha dichiarato il suo sostegno al movimento di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS), una campagna globale guidata dai palestinesi che mira a porre fine al sostegno internazionale alle politiche di Israele nei confronti dei palestinesi.

Unione Europea e Usa

L’Unione Europea è al lavoro su un possibile accordo commerciale con l’amministrazione Trump, ispirato al modello già firmato con il Giappone: una tariffa doganale di base del 15% per l’accesso al mercato statunitense.

Ma Bruxelles si prepara anche allo scontro, nel caso in cui l’intesa non venga raggiunta entro il 1° agosto.

Secondo fonti diplomatiche europee, se Donald Trump dovesse bloccare l’accordo in discussione, l’UE è pronta a lanciare due forme di ritorsione.

La prima prevede dazi su 93 miliardi di euro di prodotti americani: una decisione in merito potrebbe essere approvata già giovedì.

La seconda riguarda l’attivazione del nuovo Strumento Anti-Coercizione, che permetterebbe all’UE di colpire settori strategici statunitensi come servizi digitali e finanziari.

Germania e Francia, rappresentate dal cancelliere Friedrich Merz e dal presidente Emmanuel Macron, si sono detti fiduciosi sulla possibilità di raggiungere un’intesa, pur evitando commenti sui dettagli tecnici.

L’obiettivo dichiarato è “garantire stabilità e tariffe il più basse possibile”.

Tra i settori chiave oggetto dei negoziati figurano auto, acciaio e alluminio. Le tariffe su auto e componenti potrebbero scendere dal 25% al 15%, ma altri nodi restano aperti.

Trump, nel frattempo, ha ribadito che solo i Paesi “che aprono il mercato” otterranno condizioni vantaggiose — altrimenti, ha promesso, i dazi aumenteranno.

In pratica, l’Europa si trova davanti a un bivio: o accetta le regole del gioco di un partner sempre più imprevedibile, oppure alza le difese in uno scontro che rischia di sfociare in una nuova guerra commerciale.

La strategia di Trump, fondata su pressioni bilaterali e ricatti tariffari, mette a dura prova la coesione del mercato europeo e il principio stesso di multilateralismo.

La posta in gioco non è solo economica: è geopolitica. Se l’UE cede ora, rischia di aprire la porta a una relazione asimmetrica dove l’unica legge è quella del più forte.

Regno Unito

Nuovo strazio per alcune famiglie britanniche colpite dalla tragedia aerea dello scorso mese in India, dove un volo diretto nel Regno Unito si è schiantato nella regione del Gujarat uccidendo 260 persone.

Secondo il Daily Mail, alle famiglie sarebbero stati consegnati i resti sbagliati dei loro cari.

In un caso, una famiglia ha dovuto annullare i funerali dopo aver scoperto che il corpo nella bara non apparteneva al proprio parente.

In un altro, i resti di più vittime sarebbero stati mescolati e collocati insieme nello stesso feretro.

Il Ministero degli Esteri indiano ha dichiarato di aver seguito rigorosamente i protocolli per l’identificazione e di aver trattato i resti con “massimo rispetto e professionalità”, ma ha anche assicurato che sta collaborando con le autorità britanniche per chiarire gli errori.

Il disastro, avvenuto il 12 giugno, ha coinvolto principalmente cittadini indiani e britannici, ma tra i passeggeri figuravano anche portoghesi e un canadese.

Un solo sopravvissuto, miracolosamente, è riuscito a salvarsi saltando fuori dal velivolo prima dell’impatto.

Quando il dolore per una perdita così improvvisa e violenta si accompagna a errori nella restituzione dei corpi, la ferita diventa doppia.

Russia e Ucraina

Le delegazioni russa e ucraina hanno tenuto un terzo round di colloqui di pace ieri. L’incontro, svoltosi a porte chiuse a Istanbul, è durato meno di un’ora.

Subito dopo i negoziati, i funzionari russi e ucraini hanno annunciato che si era verificato un altro scambio di prigionieri. In definitiva, l’incontro di mercoledì ha prodotto pochi risultati.

Intanto in Ucraina tornano le proteste di piazza: migliaia di persone sono scese per le strade di Kyiv e di altre città contro una nuova legge che, secondo attivisti e ONG, minaccia l’indipendenza delle principali agenzie anticorruzione del Paese.

 È la prima grande manifestazione contro il governo da oltre tre anni di guerra.

Nonostante l’appello a un veto, il presidente Volodymyr Zelensky ha firmato il provvedimento, sostenendo che serva a combattere meglio la corruzione e ad accelerare i processi rimasti a lungo bloccati.

 Ma l’approvazione della legge ha suscitato dure reazioni, sia interne che internazionali: l’Unione Europea l’ha definita un “grave passo indietro”, mentre Transparency International accusa il governo di smantellare una delle riforme simbolo della cosiddetta Rivoluzione della Dignità del 2014.

Il nodo della questione è il maggiore controllo che la nuova normativa garantisce alla Procura generale su NABU e SAPO, due organismi fondamentali per l’indipendenza delle indagini sui reati finanziari e politici.

Il timore è che la lotta alla corruzione diventi ostaggio della lealtà politica.

Zelensky ha risposto convocando i vertici delle agenzie anticorruzione e della sicurezza, promettendo un piano d’azione condiviso entro due settimane.

Ha anche parlato di “influenza russa” nelle istituzioni da purgare, ma senza fornire prove.

Nel frattempo, l’insoddisfazione cresce tra i cittadini. Durante la protesta, alcuni hanno accusato il governo di tutelare i propri fedelissimi piuttosto che lo stato di diritto.

Come il veterano Oleh Symoroz, gravemente ferito in guerra, che ha detto: “Chi ha giurato di difendere la Costituzione, ora protegge solo il proprio cerchio di potere, anche a costo della democrazia.”

La lotta alla corruzione è uno dei pilastri richiesti dall’Unione Europea per l’ingresso dell’Ucraina nell’UE e per il mantenimento degli aiuti occidentali.

Indebolire le istituzioni indipendenti proprio nel momento in cui si invoca trasparenza e sostegno internazionale rischia di minare la credibilità del governo di Zelensky, non solo verso Bruxelles, ma anche nei confronti di una popolazione già stremata dalla guerra e ora sempre più diffidente verso il potere centrale.

Stati Uniti

Durante un incontro ufficiale, il presidente tunisino Kais Saied ha mostrato fotografie di bambini palestinesi denutriti all’inviato americano Massad Boulos, genero dell’ex presidente statunitense Donald Trump.

In un video diffuso dalla presidenza tunisina, Saied ha definito le immagini “un crimine contro l’umanità” e ha affermato: “Credo che queste immagini le conosciate bene”.

In una delle foto, ha detto, si vede un bambino che piange mentre mangia sabbia a Gaza.

L’inviato Boulos ha ascoltato in silenzio, limitandosi a qualche cenno del capo, mentre Saied chiede alla comunità internazionale di “svegliarsi” e fermare la catastrofe in corso.

Gli Stati Uniti sono i principali alleati politici e militari di Israele e hanno più volte posto il veto alle risoluzioni dell’ONU per un cessate il fuoco.

Tuttavia, secondo alcune fonti, Donald Trump avrebbe recentemente espresso crescente impazienza nei confronti del premier israeliano Netanyahu, vista l’enorme quantità di vittime causate da 21 mesi di guerra.

Anche Regno Unito e Francia, tradizionali alleati di Israele, hanno criticato la gestione degli aiuti, parlando di un flusso umanitario “a goccia”, mentre la fame si estende a tutta la Striscia.

Il gesto del presidente tunisino non è solo simbolico: è un atto di accusa diretto, forte, contro un sistema internazionale che continua a parlare di pace mentre bambini muoiono di fame.

Mostrare quelle foto a un rappresentante della famiglia Trump, proprio mentre gli Stati Uniti continuano a fornire armi e copertura diplomatica a Israele, significa togliere il velo dell’ipocrisia.

In un mondo anestetizzato da numeri e statistiche, servono immagini, nomi, volti — e il coraggio di guardarli in faccia.

La Columbia University, si legge sul NY Times, pagherà una multa di 200 milioni di dollari per chiudere la causa dell’amministrazione di Donald Trump, che l’ha accusata di antimsemitismo, nell’ambito di un accordo più ampio per ripristinare i finanziamenti federali.

In cambio della restituzione di centinaia di milioni di dollari in finanziamenti, dei 400 milioni bloccati da Trump dopo le proteste pro-Gaza nel campus la scorsa primavera, la Columbia ha annunciato che “si impegnerà inoltre a rispettare le leggi che vietano la considerazione della razza nelle ammissioni e nelle assunzioni e a ridurre l’antisemitismo e i disordini nel campus”.

Tra i dieci cittadini americani e residenti permanenti rilasciati la scorsa settimana dal Venezuela nell’ambito di uno scambio con gli Stati Uniti figura anche Dahud Hanid Ortiz, ex militare con doppia cittadinanza statunitense e venezuelana, condannato nel 2023 a 30 anni di carcere per un triplice omicidio avvenuto a Madrid nel 2016.

Ortiz aveva pianificato di uccidere un avvocato che aveva avuto una relazione con sua moglie.

Non trovandolo, assassinò due donne e un uomo che scambiò per il bersaglio, usando coltello e spranga, e diede fuoco all’ufficio legale.

Dopo la fuga in Germania e poi in Venezuela, fu arrestato e processato lì, dato che la costituzione venezuelana impedisce l’estradizione dei propri cittadini.

Nonostante la gravità dei crimini, è stato incluso nello scambio richiesto da Washington, che ha visto Trump liberare oltre 250 venezuelani detenuti in El Salvador per sospetti legami con gang.

Il Dipartimento di Stato, sotto la guida di Marco Rubio, ha definito lo scambio un successo per la liberazione di “americani detenuti ingiustamente”, senza però chiarire perché Ortiz fosse tra i rilasciati, né se ora si trovi in libertà negli Stati Uniti.

Questo caso mette in luce le ambiguità e i rischi delle trattative diplomatiche opache, dove interessi politici prevalgono sulla giustizia. Liberare un condannato per omicidio multiplo nel nome della “difesa dei cittadini americani” svuota di senso quel principio, offende la memoria delle vittime e lascia indifese le famiglie.

Venezuela

Andrés Bravo Pariaguán, 24 anni, è morto di tubercolosi nel carcere venezuelano di Rodeo II, a Caracas, dopo essere rimasto detenuto per oltre quattro anni senza processo.

Era stato arrestato nel 2021 durante un’operazione contro la cosiddetta “banda del Koki”, gruppo armato che controllava la zona della Cota 905, nella capitale.

L’organizzazione per i diritti umani Surgentes ha riferito che oltre alla tubercolosi il ragazzo aveva contratto un’infezione al sistema nervoso centrale. È stato trasferito in ospedale solo quando ormai era in semi-coma.

Il caso di Bravo Pariaguán non è isolato: in Venezuela centinaia di persone si trovano incarcerate senza processo, in condizioni disumane e con accesso praticamente nullo a cure sanitarie adeguate.

Invece, l’economista e professore universitario Rodrigo Cabezas, ex ministro delle Finanze dell’ex presidente Hugo Chávez, è stato rilasciato oggi dopo 41 giorni di detenzione, confermano varie fonti.

Cabezas, professore dell’Università del Zulia, era stato arrestato nella città di Maracaibo, nell’ovest del Paese sudamericano, nello Stato di Zulia, il 12 giugno da agenti della polizia politica Sebin.

Da allora era stato dato per “desaparecido”, non avendo la sua famiglia avuto alcuna informazione su dove si trovasse né sul motivo del suo arresto.

L’economista è un critico delle politiche economiche del presidente Nicolás Maduro Moro.

Negli ultimi giorni, il governo ha liberato un pugno di dissidenti, arrestandone arbitrariamente altri, in quello che gli oppositori definiscono “una porta girevole”, mentre tornano ad essere più di 900 i prigionieri politici secondo le denunce di numerose organizzazioni per i diritti umani.

Thailandia e Cambogia

La Thailandia ha annunciato la chiusura di diversi valichi di frontiera con la Cambogia e l’espulsione del diplomatico cambogiano, dopo che un soldato thailandese ha perso una gamba nell’esplosione di una mina lungo la zona di confine tra i due Paesi.

Secondo l’esercito di Bangkok, cinque militari sono rimasti feriti nell’incidente.

La mina — dichiarano — sarebbe di fabbricazione russa e sarebbe stata posizionata recentemente in un’area che, secondo accordi bilaterali, doveva essere sicura.

Il governo thailandese ha convocato l’ambasciatore cambogiano e ha annunciato l’intenzione di presentare una protesta formale.

Phnom Penh ha respinto le accuse definendole “infondate” e ha sostenuto che l’esplosione è avvenuta in territorio cambogiano, accusando invece la Thailandia di aver violato un accordo del 2000 sull’uso delle rotte pattugliate.

Ha inoltre ricordato che molte mine antiuomo non bonificate, retaggio delle guerre civili che hanno insanguinato il Paese fino al 1998, rappresentano ancora una minaccia quotidiana: in Cambogia, quasi 20.000 persone sono morte e oltre 45.000 sono rimaste ferite a causa di ordigni inesplosi.

Le tensioni si inseriscono in un quadro di relazioni bilaterali già compromesse da uno scontro armato avvenuto il 28 maggio, in cui era rimasto ucciso un soldato cambogiano in una delle tante aree contese lungo il confine.

Le passioni nazionaliste si sono accese in entrambi i Paesi, rendendo più difficile una soluzione diplomatica.

Il rischio di escalation è reale. A peggiorare la situazione, oltre agli incidenti militari, contribuisce anche il clima politico: in Thailandia, l’ex premier Paetongtarn Shinawatra è stata sospesa dopo una telefonata controversa con l’ex leader cambogiano Hun Sen, il quale ha divulgato il contenuto alimentando lo scandalo.

In questo scenario, le mine antiuomo non sono solo un residuo del passato, ma un simbolo tragico di un presente in cui la diffidenza e il nazionalismo rischiano di far precipitare due Paesi vicini in una nuova spirale di ostilità.

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