9 agosto 2024 – Notiziario Africa
Scritto da Radio Bullets in data Agosto 9, 2024
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- Nigeria: proteste di piazza contro il governo in carica
- Niger e Mali: rottura nei rapporti con l’Ucraina
- Sudan: la guerra porta carestia, fame e l’impossibilità di garantire servizi sanitari essenziali
- RDC: prosegue la guerra tra il governo e i ribelli dell’M23, mentre si diffonde l’epidemia Mpox
Questo nel notiziario Africa di Radio Bullets, a cura di Elena Pasquini.
«Non c’è nulla di fondamentalmente sbagliato nel carattere dei nigeriani. Nulla di sbagliato nella terra, nel clima, nell’acqua o nell’aria o in qualunque altra cosa in Nigeria. Il problema con la Nigeria è semplicemente e onestamente un fallimento della leadership».
Lo sosteneva Chinua Achebe, scrittore, poeta, saggista nigeriano, uno dei maestri della letteratura africana in lingua inglese. Ed è da queste parole che vogliamo partire, dalla Nigeria, che sfida la sua leadership.
Oggi, 9 agosto 2024, andremo nel colosso africano dove i giovani non si fermano e chiedono una vita diversa.
Poi, torneremo in Sudan, dove la fame e l’assenza di cure mediche sono le armi di una guerra dimenticata, e ancora in Mali e Niger, fronte di un conflitto locale e lontano, quello tra Russia e Ucraina.
E infine, nella Repubblica Democratica del Congo, dove l’accordo di cessate il fuoco non tiene e dove continua a diffondersi l’Mpox che ora rischia di diventare un’emergenza per molti Paesi.
Nigeria
“I dieci giorni della rabbia” in Nigeria hanno il volto di un ragazzino di sedici anni.
Si chiamava Ismail Mohammed e il suo corpo è riverso in terra, nella terra ocra della città di Samaru, Zaria, nello stato di Kano.
Ad ucciderlo, martedì scorso, un soldato dell’esercito nigeriano nel tentativo di disperdere la folla, come riporta la nota diffusa dai militari, e imporre il rispetto del coprifuoco, dichiarato in sei Stati e che pure non ha fermato i manifestanti.
Il soldato è sotto inchiesta, Ismail sotto terra.
Un ragazzino sceso in piazza, una delle centinaia di migliaia di persone che dal primo di agosto urlano “abbiamo fame”.
Una delle vittime di cui non si conosce il numero: tredici i morti solo il primo giorno, secondo Amnesty International.
Morti e scomparsi. Come Adaramoye Michael, detto Michel Lenin, che i servizi segreti nigeriani negano di avere in custodia.
«È allarmante che uno di noi sia scomparso e che il Department of State Services neghi di tenerlo…. Dobbiamo trovarlo – se no, chi sarà il prossimo? Tutti noi potremmo iniziare a scomparire e nessuno farebbe niente per questo» si legge in un messaggio pubblicato su un canale dove si confronta chi manifesta sotto il segno di #EndBadGovermentinNigeria.
Giovani, per lo più, che ora sono accusati di “tradimento” e di voler rovesciare il governo democratico con un colpo di stato militare per aprire le porte del Paese alla Russia. Tra loro, scrive la polizia nigeriana, “agenti sovversivi”.
La prova sarebbero le bandiere russe che hanno iniziato a sfilare accanto ai cartelli che chiedono equità e sicurezza.
Bianco, blu e rosso, a sventolare negli stati del Nord: Borno – epicentro dell’insorgenza islamista di Boko Haram – Kaduna, Kano e Katsina.
Bandiere che rivelerebbero, secondo la polizia, gli obiettivi degli organizzatori della protesta: “destabilizzare” il governo legittimo.
Novanta persone sospette sarebbero state fermate, tra loro alcuni sarti che avrebbero cucito le bandiere, mentre è caccia agli “sponsor”, a chi avrebbe manipolato la povera gente e usato persino i bambini, vittime di un vero e proprio “lavaggio del cervello”, secondo quanto sostiene ancora il comunicato diffuso sull’account X della polizia, senza aggiungere dettagli.
Sei cittadini polacchi sarebbero agli arresti.
L’Ambasciata russa nega il suo coinvolgimento.
Le bandiere sono “una distrazione”, scrivono ancora nella chat, dove il dibattito tra chi protesta si fa accesso.
Per qualcuno, addirittura, si tratterebbe di un errore perché i colori sarebbero gli stessi delle bandiere dell’esercito.
«La protesta è stata sabotata» aggiunge uno dei quasi duemila iscritti.
Le bandiere ci sono, il perché, resta un mistero.
«Stiamo agitando le bandiere russe perché il governo di Bola Tinubu», il Presidente in carica dalla primavera del 2023 dopo elezioni fortemente contestate, «non ci sta ascoltando. I presidenti russi supportano sempre lo sviluppo delle nazioni africane, a differenza delle altre nazioni» ha detto Lawal Kodo, un manifestante di 28 anni a Kano, all’agenzia Reuters.
Bandiere che «riflettono il malcontento sulle politiche del governo piuttosto che mostrare il supporto a un governo militare sostenuto dalla Russia» ha spiegata ancora a Reuters, Mucahid Burmaz, analista a Verisk Maplecroft, una società di intelligence britannica che si occupa di rischi globali.
Bandiere capaci di agitare tutti gli spettri che infestano l’Occidente, cacciato dal rovesciamento dei regimi in Mali, Burkina Faso e Niger, e che resta saldo partner del gigante nigeriano: più di novecentomila chilometri quadrati, ricchissimo di petrolio, gas e risorse naturali, abitato da oltre 200 milioni di persone. Poche, però, quelle che beneficiano di questa ricchezza.
Non è un caso, sostengono alcuni attivisti, che le bandiere siano state sventolate al Nord.
Il Nord che avrebbe la “sua agenda” ma dove più forte è l’insicurezza.
«Il Nord comprende la politica meglio del resto del Paese…. Non hanno paura di morire perché sono le maggiori vittime del sistema» scrivono ancora.
Lì il rischio di essere rapiti o uccisi è sempre più alto.
Chiedono anche questo, i dimostranti: sicurezza.
«L’uso della bandiere russe è scoraggiante e dovrebbe essere fermato» si legge ancora nella chat dove le voci si accavallano, in un momento “fragile per la protesta”.
«Abbiamo in nostri obiettivi, restiamo saldi su quelli e non diamo altri motivi per dubitare delle ragioni della protesta» qualcuno aggiunge.
«Non prenderei per buone le narrazioni [del Presidente] sulle bandiere russe» sostiene un altro attivista, i cui nomi non citiamo.
«Dobbiamo tutti ammettere che siamo in un momento cruciale…. Buttiamoci alle spalle bandiere russe o dell’esercito, e concentriamoci sul perché abbiamo iniziato. Non possiamo (permettere) che il Governo cambi la narrazione… e riscriva la nostra storia ancora».
Ci pensa una voce, che non è l’unica, a riportare tutti a quella terra che grida “ho fame”: «Qualcuno può aiutarmi a trovare qualcosa da mangiare questa notte?» posta chi, come altri, chiede aiuto.
Protestano perché l’inflazione è arrivata al 34 percento, perché i cibi di base sono diventati inaccessibili, come l’igname il cui costo è quasi quadruplicato nella città di Lagos, come spiega la BBC.
Un’economia in pezzi dove la moneta locale si è svalutata del 70 percento dopo la decisione di legarla al dollaro, dove tutto è diventato più caro senza sussidi al carburante e dove si rischia la vita, sempre di più, in tutto il Paese.
«Invece di affrontare la preoccupazione della gente per l’economia, le autorità nigeriane hanno intrapreso la strada della repressione» sostengono da Amnesty International.
Al momento sarebbero circa mille le persone trattenute, di cui 632 nello Stato di Kano e più di 109 nella prigione di Sokoto.
«In alcuni casi, prove video verificate mostrano protestanti a cui viene sparato a distanza ravvicinata e senza avvertimenti…. Sembra che i tiri non avessero come obiettivo riportare l’ordine pubblico, ma uccidere. Le forze di sicurezza nigeriane hanno costantemente impiegato armi da fuoco per gestire i raduni pubblici con impunità» aggiunge l’organizzazione per i diritti umani.
La scorsa settimana c’erano stati alcuni annunci da parte delle agenzie governative che avrebbero dovuto placare l’ira della piazza: la rinnovata possibilità per i giovani di ricevere supporto finanziario per le loro attività commerciali e la riapertura delle candidature per lavorare nella compagnia nazionale petrolifera.
Ma non è bastato.
«Non abbiamo ancora messo i nostri stivali sul terreno e già il governo ci sta facendo concessioni» aveva detto Juwon Sanyaolu, direttore del movimento “Take it back”, tra gli organizzatori della protesta, come riportato dalla BBC.
«Se i giovani insistono» aggiunge «otterranno molto di più».
E i giovani non si sono fermati, bandiere russe o meno.
Niger e Mali
Ci spostiamo, apparentemente di poco, oltre il confine Nord della Nigeria, in Niger, dove si consuma ancora un taglio con l’Occidente, lungo il fronte africano della guerra tra Russia e Ucraina, o in quella per l’influenza nella regione del Sahel, ricchissima – come ricchissimo è il Niger con i suoi giacimenti di uranio – e strategica.
La giunta militare guidata dal generale Abdourahamane Tiani, salito al potere con un colpo di stato nel luglio del 2023, martedì ha interrotto le relazioni diplomatiche con l’Ucraina, seguendo di pochi giorni la decisione del Mali.
Un gesto di “solidarietà” con il Paese vicino dove uno scontro a fine luglio intorno alla città di Tinzawaten, nel Nord, ha portato alla morte di oltre 80 mercenari russi e di almeno 47 soldati maliani da parte di ribelli Touareg.
La decisione di interrompere le relazioni diplomatiche sarebbe venuta dopo i commenti di un portavoce dell’agenzia di intelligence militare Ucraina che indicherebbe un supporto del Paese europeo ai gruppi che combattono in Mali.
«I ribelli hanno ricevuto tutte le informazioni di cui avevano bisogno, e non solo informazioni, che gli hanno consentito di condurre un’operazione militare di successo contro i russi, perpetratori di crimini di guerra. Noi non andremo certamente nei dettagli ora – vedrete altro di questo in futuro» ha detto Andry Yusov, come riporta l’agenzia Reuters.
L’Ucraina, accusata dalla Russia di sostenere il terrorismo jihadista, nega qualsiasi supporto al terrorismo internazionale.
Quella subita dai mercenari russi sarebbe la sconfitta più grande da quando sono operativi.
Lo scontro è avvenuto tra le forze governative e i ribelli riunti sotto un’unica sigla il “Quadro strategico permanente per la difesa del popolo dell’Azawad”, una coalizione di gruppi separatisti a prevalenza touareg che combattono per l’indipendenza di questa regione.
«È deplorevole che le autorità del Niger abbiano deciso di terminare le relazioni diplomatiche con l’Ucraina senza condurre alcuna investigazione sull’incidente in Mali o fornendo prove per motivare questo passo» ha detto il Ministro degli esteri ucraino.
La scelta del Niger di rompere con Kyiv sarebbe, come scrive Mouryya Niger e come riporta Radio France Internationale, una prima applicazione dell’Alleanza degli Stati del Sahel che include anche il Burkina Faso e che recita: “Qualsiasi aggressione contro uno Stato membro della confederazione equivale ad un attacco agli altri due Stati membri”.
La giunta del Niger ha firmato a gennaio un accordo con la Russia per rafforzare la partnership militare e poi a marzo, in un colloquio con Putin, Tiani avrebbe discusso di un progetto più ampio di cooperazione, come riporta sempre RFI.
Gli Stati Uniti si sono ritirati dal Niger la scorsa settimana, un mese prima di quanto previsto, così come i francesi e come dovrebbero fare anche i tedeschi.
A restare in Mali con un contingente militare, gli italiani, mentre a primavera sono arrivati dalla Russia «tre voli cargo contenenti attrezzature militari, compreso un sistema di difesa antiaereo. Anche uomini descritti come istruttori russi… e che si ritiene siano legati alla compagnia Africa Corps, ex Wagner, si sono stabiliti nel Paese» aggiunge RFI.
Il loro numero non sarebbe noto.
Sudan
Carestia, fame e l’impossibilità di garantire servizi sanitari essenziali: la guerra, in Sudan, si combatte anche così, stremando la popolazione.
«Due civili su tre non hanno più accesso ai servizi sanitari essenziali» ha denunciato ieri il Comitato internazionale della Croce Rossa.
Strutture costrette a chiudere, danneggiate dai bombardamenti, medici ed infermieri uccisi. «La situazione nelle strutture sanitarie è oltre ogni dire» ha detto Amelie Chbat, supervisore dei programmi sanitari dell’ICRC in Sudan.
«Ai feriti mancano medicine, cibo e acqua, e gli anziani, le donne, i bambini sono privi di trattamenti essenziali come la dialisi o i farmaci per il diabete. La situazione si sta deteriorando».
I combattenti e i civili muoiono perché non ricevono trattamenti in tempo, intere comunità non possono accedere a servizi vitali, come maternità, vaccinazioni e assistenza per i bambini.
Si muore perché non ci si può curare, e si muore di fame, in Sudan. Fame, arma di guerra, nella guerra dimenticata che dalla primavera dello scorso anno vede l’esercito sudanese da una parte e il gruppo paramilitare delle Rapid Support Forces dall’altra.
Nel campo di Zamzam, un campo profughi nel Nord del Darfur che ospita oltre 500 mila persone accanto alla città assediata di El Fasher, è stata ufficialmente dichiarata la carestia.
«Ci sono crescenti timori che crisi simili possano aprirsi in altri campi vicini» hanno detto dalle Nazioni Unite.
“Famine”, carestia, è la più drammatica delle condizioni secondo la classificazione dell’Integrated Food Security Phase Classification.
Fase 5, definita dall’IPC, come “estrema privazione di cibo”, che significa fame, miseria, morte e livelli critici di malnutrizione.
In Sudan si stimano ci siano oltre 10 milioni di sfollati interni, mentre 2 milioni sarebbero fuggiti nei Paesi vicini, sempre secondo le Nazioni Unite. «I combattimenti hanno fatto precipitare (il Paese) in una acuta crisi alimentare, con almeno 26 milioni di persone che lottano per assicurarsi pasti quotidiani» secondo il Programma alimentare dell’Onu.
Molto complesso, però, aggiungono dall’agenzia, poter fare delle valutazioni perché l’accesso ai campi è estremamente difficile.
In Darfur, Kordofan e a Khartoum, si combatte e la situazione peggiora di giorno in giorno.
Tutto questo mentre ci si aggrappa ad una sottile speranza: che il 14 agosto, a Ginevra, si aprano i colloqui di pace per raggiungere una tregua umanitaria.
Mentre Mohamad Hamdane, che guida le RSF, ha accettato di sedersi al tavolo, si attende, invece, ancora, la decisione di Abdel Fattah al-Burhan, il generale, capo dell’esercito sudanese, vittima la scorsa settimana di un fallito attentato.
Una partecipazione in dubbio: secondo il quotidiano emiratino The National, in Svizzera ci potrebbe essere solo una delegazione.
Il generale, in un post su X, ha dichiarato di aver discusso con il Segretario di Stato americano, Anthony Blinken, la necessità di «affrontare le preoccupazioni del governo sudanese» prima dell’inizio dei negoziati.
Parole a cui non è seguita alcuna chiarificazione.
Trattative, che, come riporta la francese RFI, non «verrebbero accettate se non dopo il ritiro completo e la cessazione dell’espansione delle Rapid Support Forces».
Repubblica Democratica del Congo
Domenica doveva essere il giorno in cui le armi avrebbero iniziato a tacere, il primo giorno del cessate il fuoco che si sperava, e si spera ancora, possa condurre ad una tregua nella guerra che oppone il governo congolese e i gruppi armati alleati, ai ribelli del Movimento del 23 marzo.
Siamo nell’Est del Paese, nella regione dei Grandi Laghi, e questa è solo l’ultima, violenta fiammata, iniziata alla fine del 2021, di un conflitto che va avanti da quasi trent’anni.
Mediato dall’Angola tra RDC e Ruanda, l’accordo, di cui non si conoscono con esattezza i dettagli e le parti firmatarie, è già stato violato.
La comunità di pescatori di Nyakakoma, lungo la sponda orientale del lago Eduardo, nella regione di Rutshuru, è passata sotto il controllo dell’M23.
«Gli elementi dell’M23 sono arrivati a Nyakakoma intorno alle 9:15. Sono entrati senza che sia stato sparato un solo colpo. Sono stati gli elementi della forza navale e dei Wazalendo (gruppi armati locali) a sparare proiettili, forse per spaventarli. Una bomba è caduta su un’abitazione senza provocare vittime. Solo che un giovane è stato colpito da un proiettile vagante nel distretto di Kabila ed è stato portato in ospedale» ha detto al sito congolese ACTUALITE.CD un residente di Nyakakoma.
Gli M23 avevano già preso il controllo di altre due località strategiche: Nyamilima e d Ishasha.
Nessuna tregua, dunque, mentre si continua a fuggire.
L’M23 aveva dichiarato in un comunicato nei giorni scorsi di non essere stata coinvolta negli accordi e di aver chiesto un “dialogo diretto” con Kinshasa.
A New York, intanto, il Consiglio di Sicurezza della Nazioni Unite ha approvato all’unanimità una nuova risoluzione che autorizza la Monusco, la missione dei caschi blu in Congo, ad allargare il suo mandato e a fornire supporto logistico ed operativo ad un’altra forza di peacekeeping, quella della Comunità dell’Africa meridionale che nel dicembre del 2023 ha dispiegato si suoi soldati all’Est, soldati provenienti dal Sud Africa, dalla Tanzania e dal Malawi.
Risoluzione, presentata da Francia e Sierra Leone, che dovrebbe consentire il coordinamento, la condivisione di informazioni e l’assistenza tecnica della Monusco, e che, nelle parole dell’ambasciatore della Sierra Leone all’Onu, Michael Imran Kanu prima del voto, dovrebbe aiutare «a creare un ambiente favorevole all’implementazione degli sforzi di pace in corso nella regione, incluso il benvenuto cessate il fuoco mediato dall’Angola tra DRC e Rwanda».
La Monusco, che in passato è stata oggetto di forti e violente contestazioni da parte della società civile congolese, avrebbe dovuto proseguire nel ritiro graduale dal Paese africano entro la fine dell’anno.
Ritiro che al momento è stato sospeso, senza notizie certe sulla tempistica della sua ripresa, proprio per l’escalation del conflitto con l’M23.
Secondo quanto riporta la francese Radio France Internationale, il Ruanda sosterrebbe che questa risoluzione »potrebbe rafforzare il desiderio della RDC di cercare una soluzione militare piuttosto che una soluzione negoziata e pacifica alla crisi».
Ruanda, che un recente rapporto dell’Onu indica come il Paese che sostiene militarmente e finanziariamente gli M23.
L’epidemia di Mpox
Torniamo a parlare di RDC e dell’epidemia Mpox, un tempo nota come “vaiolo delle scimmie”, perché l’Organizzazione mondiale della Sanità (OMS) ha dichiarato che in Africa si sta verificando una diffusione senza precedenti di questa malattia virale, arrivata anche in Paesi che prima non la conoscevano.
L’OMS ha elevato la riposta all’Mpox al livello più alto, mobilitando l’intera struttura.
Il direttore generale Tedros Adhanom Ghebreyesus ha chiesto di convocare una riunione di una commissione d’esperti per capire se siamo di fronte ad un’emergenza di rilevanza internazionale.
«La commissione si riunirà il prima possibile e sarà composta da esperti indipendenti di diverse discipline da tutto il mondo» ha detto da Ginevra.
La malattia è stata identificata in 15 Paesi, ma la maggior parte dei casi è stata individuata nella Repubblica Democratica del Congo, dove una nuova variante sta circolando da quasi un anno nell’Est del Paese.
«Sono in corso analisi in Burundi per determinare se i casi riportati sono attribuibili a questa nuova variante» scrive in una nota l’OMS.
In Congo, dall’inizio dell’anno, i casi sono stati 14 mila con 511 morti.
Secondo l’African Center for Disease Control and Prevention, come riporta l’Associated Press, il 70% dei casi nella RDC riguardano ragazzi sotto il 15 anni e sono i più giovani che stanno pagando il prezzo più alto, con l’85% dei decessi.
Fonti: Sage Journals
Foto di copertina: Emmanuel Ikwuegbu – Unsplash
Musica: Mbugua David Kiguri, detto King David
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