Brasile: un’italiana contro la deforestazione
Scritto da Valentina Barile in data Maggio 15, 2020
Qualche mese fa, durante l’incubazione della pandemia, Emanuela Evangelista, presidente di Amazônia Onlus, ha ricevuto il titolo di Ufficiale dell’ordine al merito della Repubblica italiana dal presidente Sergio Mattarella per l’attivismo ambientale che svolge da anni nella difesa delle popolazioni indigene e nel contrasto alla deforestazione. Valentina Barile ne parla con lei.
Chi è Emanuela Evangelista?
Una biologa, zoologa, studiosa dei grandi mammiferi. Nel 2000, parte per la prima volta per l’Amazzonia brasiliana per studiare una specie di mustelide, la lontra gigante, già in via d’estinzione a causa della decimazione per la produzione delle pellicce da parte del mercato europeo, americano e dei paesi freddi. Questo studio lo porterà a termine per la sua tesi di laurea.
Da quel momento in poi, qualcosa è accaduto nel cuore di Emanuela: comincia a sentire la necessità di ritornare in Amazzonia per prendersi in carico alcune delle cause urgenti che provocavano effetti disastrosi su quel ecosistema.
Nel 2013, dopo molte “andate e ritorni”, decide di trasferirsi nel villaggio di Xixuaú, sul fiume Jauaperi, affluente del Rio Negro (a sua volta affluente del Rio delle Amazzoni), al confine tra gli stati di Amazonas e Roraima e lontano cinquecento chilometri da Manaos, centro urbano, finanziario e industriale dell’Amazzonia, nel Nord del Brasile.
L’attivismo ai tempi del coronavirus
Quando le chiedo se può essere stato un bianco, quindi un turista, a portare il coronavirus in Amazzonia, lei traccia una cornice ben definita: «Ci sono molti brasiliani che arrivano qui da Saõ Paulo e nell’ultimo mese, nonostante la rapida diffusione della pandemia, non c’è stato controllo. Quando sono rientrata in Brasile dall’Italia – era l’8 marzo – c’era una situazione rilassata, all’aeroporto, un controllo blando. Chissà quante persone come me sono rientrate e hanno diffuso il virus, e quante, invece, sono andate in città nell’ultimo mese. A Manaos, ho fatto una quarantena volontaria, prima di tornare al villaggio, ma nessuno me l’ha imposta. Ancora adesso i casi sono sottostimati, non sappiamo chi sono, quanti sono. Sappiamo che a Manaos è già una ecatombe. Tutte le città amazzoniche stanno seppellendo migliaia di morti e spero che il disastro si fermi qui».
Un villaggio di sessanta abitanti, sul fiume lungo cui vivono molte altre comunità che insieme arrivano a un migliaio di persone, per quanto positivo, possono essere molto distanti dall’urbanizzazione, quindi anche dai centri ospedalieri o di primo soccorso.
«L’Amazzonia non è più quel luogo che non dipende dai centri urbani, abbiamo la necessità delle città. Stando in trincea, mi rendo conto di quanto sia preoccupante per l’Amazzonia remota la mancanza di scambio con Manaos. I centri urbani rappresentano fonte di sussistenza per le comunità: i mercati, l’artigianato, gli scambi, che adesso sono sospesi fino a chissà quando. Non abbiamo caffè, non abbiamo Amuchina, mascherine. Non possiamo difenderci in alcun modo. Se dovesse accadere qualcosa qui, giacché il contagio è ormai alle porte – siamo circondati perché il virus è arrivato ormai nei villaggi vicini – non avremmo scampo. Non ci sono strumenti per le persone, respiratori, viveri. Medici. Per questa ragione, in assenza di regolamenti, abbiamo scelto l’isolamento volontario per salvarci. Abbiamo scritto delle leggi volontarie per evitare il contagio, abbiamo messo su documenti comunitari e intercomunitari».
Deforestazione vuol dire malattie?
Sono anni che i leader del mondo hanno una sola e unica mission: globalizzare l’economia della Terra. Venti anni fa si programmava il mercato globale, escludendone – consapevolmente o meno – gli effetti. Adesso, possiamo dire che si aveva ragione a manifestare contro qualcosa che avrebbe generato danni epocali e irreversibili.
«La deforestazione, per favorire l’agroindustria e l’estrazione mineraria incontrollata, innalza il numero delle malattie. I primi effetti sono le percentuali altissime di casi di malaria in più, di dengue. Allo stesso modo, il rapporto malato dell’uomo con la fauna selvatica, senza il rispetto delle condizioni igieniche, provoca effetti devastanti. Noi la consumiamo, la fauna selvatica è il nostro pane quotidiano, ma il rapporto personale con il consumo ridotto – di sopravvivenza – è sostenibile per l’ecosistema. Industrializzare la fauna selvatica, l’uso industrializzato della stessa, altera gli equilibri vitali dell’ambiente, generando malattie. Nel caso dell’Amazzonia, si tratta di fare molta formazione in tema di difesa della propria terra perché il primo mondo – l’Europa, gli Stati Uniti, la Cina, ognuno con degli obiettivi chiari di distruzione – arriva in maniera educativa, solitamente con lo slogan: “Preservate le vostre foreste”».
È macabro il messaggio che leggiamo nelle ultime righe del racconto di una donna che ha deciso di vivere un luogo per difenderlo. È così che il mondo industrializzato si avvicina a quello naturale, incontaminato. È così che i barbari arrivano da sempre nelle terre meravigliose del pianeta per colonizzarle, sottometterle, renderle schiave dei regimi economici neoliberisti.
Arrivano in pace, parlando la lingua del marketing etico. Studiano e pronunciano parole come sostenibile, biologico, responsabile, che non hanno a che vedere con la cura, la protezione, la conservazione di un ecosistema fondamentale per la vita del pianeta – come quello dell’Amazzonia – per cui le comunità dei nativi lottano.
Amazônia Onlus ha attivato una campagna di raccolta fondi per cibo e materie prime. Di seguito, il link:
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