Cronache inventate: Sognando Parigi a Gaza – Mohammad (1)
Scritto da Barbara Schiavulli in data Maggio 18, 2018
(1) Mohammad stanotte ha sognato sua nonna che gli raccontava una favola come quando era piccolo. Quando si è svegliato ha sperato di non dimenticare quel sogno subito, perché la nonna era una delle sue persone preferite. Era la sua casa, era la forza della famiglia, il motore trainante, era quella che teneva le foto in bianco e nero chiuse in un carillon e quando sempre da piccolo gliele faceva vedere con quel modo di fare cerimonioso, per lui era un evento.
Non che ci fosse chissà che: foto di matrimoni, foto della casa dei nonni che lui non aveva mai visto dal vivo, foto di bambini e perfino di una macchina che suo nonno era riuscito a comprarsi. C’erano mezzi sorrisi in quelle foto, come se nessuno di loro avesse mai voluto veramente sorridere davanti a una macchina fotografica. Se ci pensava, effettivamente non aveva mai visto nessuno dei suoi familiari scrosciare in una fragorosa risata. Chissà perché, forse non c’era mai stato qualcosa di veramente divertente nelle loro vite e questo lo trovava un po’ triste. O forse così accade quando sogni non si realizzano mai veramente. Non i sogni piccoli, quelli la sua famiglia li ha realizzati, come fare figli, come trovare buoni compagni e compagne per loro, i soldi ce ne sono abbastanza da sopravvivere, anche se non navigano nell’oro e poi non hanno bisogno di molto per sopravvivere. Certo perché nella striscia non si vive, si sopravvive e basta.
Si fa buon viso a cattivo gioco. Mohammad sa che i sogni sono la loro maledizione, perché se anche i corpi possono essere imprigionati, le loro teste funzionano e più si sentono inchiodati, più i loro cervelli lavorano. O almeno così accade a lui. Sogna di andare a Parigi. E questo lo fa star male, perché sa che non ci andrà mai. Anche qualora avesse i soldi. Lui non può uscire da Gaza, in realtà non sa neanche perché, non ha mai fatto nulla di male, mai. Non ha mai neanche preso un brutto voto a scuola, non ha mai preso una multa. I suoi a volte lo prendono in giro perché è stato un figlio troppo bravo. E la ricompensa per essere una buona persona è sognare Parigi, un posto dove non potrà mai andare, perché non riceverà mai il permesso di uscire da Gaza.
C’è qualcosa di sadico nei sogni. Qualcosa che brucia come una sigaretta spenta sulla pelle. Una volta ha sognato di fare il pilota. E’ quasi caduto dal letto, che sogno arrogante, quasi presuntuoso. Loro a Gaza non possono sognare in grande, non dovrebbero perché fa solo male. Ha pensato spesso come poter spegnere la sua fantasia. Lo ha fatto quelle volte che ha attraversato il quartiere per arrivare alla strada che porta alla recinzione. Si fermava non appena la vedeva, ben lontano, perché sapeva che tanto non avrebbe mai potuto attraversarla legalmente, tanto meno scavalcarla, tanto meno pensare di poterci volare sopra. Gesù, non fanno passare neanche i malati di cancro per curarsi in un ospedale in Cisgiordania, figuriamoci, se farebbero passare lui, che è un ragazzo qualunque dell’età giusta per delinquere, per fuggire, per sollevare un coltello. Anche se lui non lo farebbe mai.
Mohammad oggi sorseggia il caffè arabo che gli porge la madre. Avrebbe bisogno delle pillole per la pressione, ma ultimamente non si trovano a Gaza e allora niente pillole, quando la pressione le va alle stelle, si ferma, si stende sul divano sgualcito, solleva le gambe, allenta il velo, perché è sicura che faccia bene mentre la figlia le prepara un tè con la salvia. Regola il respiro convinta che le farà abbassare la pressione e quasi sempre ci riesce, poi si rialza e ricomincia a fare quello che stava facendo. Mohammad a deciso che proprio per la sua pressione, non dirà alla madre che oggi va a manifestare alla recinzione. Le farebbe venire un colpo seduta stante, ma Mohammad ha bisogno di andare, non che per un solo momento pensi di poter fare la differenza, non perché lo dice Hamas, ma ha bisogno del contatto di quella frustrazione di tutti che diventa una. Ha bisogno di dire “ero lì, ci ho provato”, ha bisogno di poter raccontare ai suoi figli che non sono ancora nati, non è neanche fidanzato, che lui era lì, semmai un giorno tutto questo diventasse Storia. O forse ha solo bisogno di sentirsi parte di un gruppo.
La verità è che non sa perché ci va, forse perché quel giorno non ha trovato un lavoro da fare. Forse perché è curioso. Forse perché quella rete che ha sempre visto da lontano, oggi troverà il coraggio di avvicinarsi perché ci sono tutti gli altri. Oh, lo sa che è pericoloso, lo sa che state pensando che al di là della rete ci sono i soldati israeliani che non vedo l’ora di spezzare la noia dell’attesa con qualche raffica. Lo sa, ma se Mohammad potesse vi direbbe, che lui è cresciuto nel pericolo, 4 operazione militari su Gaza, omicidi mirati contro i leader armati che però sono sempre circondati da civili, il regime di Hamas, la corruzione dell’Olp, perfino i pescatori se escono in mare rischiano di essere colpiti dai soldati israeliani. Sì, Mohammad sa cosa sia il pericolo, non dovete dirglielo voi, e neanche tentare di fermarlo, perché ha visto suo cugino con la bocca strappata da un proiettile, ha visto suo nonno consumarsi dal dolore di aver perso la sua casa a Tel Aviv, ha visto sua madre perdere un fratellino prematuro perché l’ospedale di gaza non aveva l’elettricità per fare andare l’incubatrice. Perché una volta ha beccato lui stesso una scheggia di una bomba israeliana sganciata vicino ad una scuola e lui adesso ha una gamba rimasta deturpata, ma cammina bene, è stato fortunato, non era quello il suo momento.
Il suo momento è oggi. Mohammad non sa ancora che esattamente 58 minuti dopo che avrà raggiunto i manifestanti, anche sarà ben lontano dalla recinzione, a più di 300 metri, si ritroverà avvolto da una nube di gas lacrimogeno, una nuvola bianca che si fonde con quella nera della ruote bruciate dai suoi compagni. Non potete immaginare come brucia, ti senti ardere i polmoni, gli occhi piangere. Mohammad cade in ginocchio perché non respira, cerca di prendere aria con grandi boccate, ma non entra niente. E lì il destino scaglia tutta la sua ironia. Se fosse rimasto in piedi, il proiettile sparato nel buio da David su una collinetta al di là della recinzione lo avrebbe colpito alla gamba, ma era piegato a terra e il proiettile, non quelli di gomma, uno vero, lucido, veloce, assassino come sono tutti i proiettili lanciati nel mucchio, lo colpisce in testa. Pum, un solo colpo.
Muhammad non muore subito, gli restano 10 secondi, non gli passa davanti la vita come si dice nei film, non pensa alla madre, non pensa al fatto che sta morendo. Pensa a Parigi, pensa a quel viaggio che non avrebbe mai potuto fare, ma ora men che meno. No, a questo non fa in tempo a pensare perché Mohammad è morto, ucciso da David che non sa neanche di averlo colpito. Un attimo fa, Muhammad, ingegnere appena laureato, con due grandi occhi neri, era qui con noi e ora non c’è più. Un attimo. Quel secondo che divide noi da lui, quel secondo che divide lui da Parigi. Quel secondo che divide la vita della morte. Lui era Mohammad, che aveva un sogno troppo grande e quella era Gaza, la terra dove i proiettili uccidono i sogni.
(Questa storia è inventata, ma se non posso essere a Gaza da giornalista, posso esserlo da scrittrice)
Foto: Flickr/Gaza Mono-Logues