Desunidos, podemos

Scritto da in data Ottobre 21, 2019

Esattamente una settimana fa il Tribunale Supremo, con la sentenza n° 459/2019, condannava i maggiori leader indipendentisti catalani a dure pene carcerarie. Da allora non sono cessate le proteste con centinaia di persone nelle strade della Catalunya. Duro il bilancio degli scontri con le forze dell’ordine: quattro manifestanti hanno perso un occhio per le pallottole di gomma sparate dalla polizia, 590 manifestanti sono stati feriti e 14 sono ancora, alla data del 20 ottobre, ricoverati in ospedale. In questo podcast ripercorriamo le ragioni della protesta con l’aiuto di Daniele Cozzoli, docente di Storia della scienza all’università Pompeu Fabra di Barcellona, città dove risiede da 15 anni. A cura di Paola Mirenda per Radio Bullets

Buon ascolto e buona lettura – per chi volesse approfondire attraverso i link.

(Credit Photo: Fotomovimiento.org su licenza 2.0 Generic (CC BY-NC-ND 2.0))

Condanne pesantissime, da nove a tredici anni, per gli esponenti del governo catalano, del Parlament e delle associazioni che il primo ottobre del 2017 hanno organizzato il referendum sull’indipendenza della regione. Il Tribunale supremo, dopo un processo durato quattro mesi, lunedì 14 ottobre ha pronunciato le pene, decidendo per il capo d’accusa di sedizione – e non di ribellione come aveva richiesto la Fiscalía: alcuni degli imputati hanno ricevuto la sentenza in carcere mentre per Carles Puigdemont, l’ex presidente della Catalunya, è stato nuovamente emanato un mandato di cattura europeo e internazionale.

Era il 1 ottobre quando il leader indipendentista assicurava che non sarebbe scappato in un Paese dove l’estradizione non fosse possibile. “Aspettiamo la sentenza”, aveva detto. E la sentenza è arrivata. L’ex vicepresidente della Generalidad Oriol Junqueras, in carcere da due anni e destinatario della condanna più elevata – 13 anni – ha definito la sentenza “vendetta, non giustizia” e da Bruxelles Puigdemont ha parlato di condanne “ingiuste e disumane”

Non si sono fatte attendere le reazioni dei catalani e delle catalane: dal giorno della pronuncia sono nelle calles, a protestare più o meno rumorosamente. Non soltanto a Barcellona:; manifestazioni ci sono state in tutta la regione, e mercoledì mattina all’alba diverse carovane, composte da migliaia di persone, si sono mosse da Girona, da Vic, Tarrega, Tarragona, Berga, per raggiungere venerdì, giorno della grande manifestazione e dello sciopero generale, la capitale del “loro” Stato.

Da Madrid intervengono i politici nazionali: il premier Sanchez, ovviamente, ma soprattutto i leader della destra. Dopo le prime manifestazioni e dopo i primi scontri con la polizia, chiedono provvedimenti duri contro i manifestanti, parlano di applicazione dell’articolo 155 della Costituzione, che prevede l’attivazione delle procedure per togliere l’automonia alla Regione, e invocano lo stato di emergenza. Alle richieste di Alberto Rivera – per Ciudadanos – e Pablo Casado per il Partito Popolare, il premier Sanchez ribatte che non vede la ragione di ricorrere a misure estreme.

Il leader di Ciudadanos, Rivera, nel tentativo di alimentare un clima di emergenza, centra un clamoroso autogol mettendo su twitter il frammento di un video che mostra un uomo con una bimba in braccio, sullo sfondo di un incendio nelle strade di Barcellona. “No hay derecho. Qué rabia tan grande siento al ver estas imágenes… Un padre evacuando a su bebé ante el tsunami de violencia y fuego de los radicales separatistas en Barcelona. O el Gobierno actúa ya o lamentaremos muchas desgracias”. Ma l’uomo, che si chiama Josep Suriñach, non apprezza affatto, e scrive a Rivera di non usare la sua immagine per far politica. “La stampa pubblica notizie false”, dice in una intervista a Rac1. “E io non mi stavo scontrando con i manifestanti” . “Se Rivera aveva così tanta rabbia e dolore”, conclude, “poteva mandarmi un tweet per chiedermi come stavo”.

Ciudadanos aveva lanciato per domenica 20 una manifestazione per contrapporti alle centinaia di migliaia di persone che venerdì hanno riempito le strade di barcellona: 500mila secondo le forze dell’ordine, 750mila per gli organizzatori. Rivera ha tentato di alzare il tiro: “saremo un milione”, aveva promesso. Ma non è andata così: erano meno di tremila ad aver risposto alla sua chiamata. Sullo sfondo, la campagna elettorale per le elezioni del 10 novembre.

La destra è già entrata in gioco anche senza Ciudadamos. Da giovedì gruppi di neonazi stazionano in piazza d’Artós de Sarrià; venerdì erano in trecento, secondo le notizie di stampa: ma nella notte di giovedì un video rilanciato dal giornalista Albert Mercadé mostra una decina di loro che picchiano brutalmente un ragazzo. “È inconcepibile che un gruppo di neonazisti armati possa attraversare la città fino al centro di Barcellona e aggredire gente impunemente”, scrive il presidente del Parlamento catalano, Roger Torrent.

Una cosa è certa: ai fascisti l’indipendenza catalana non piace. E se gli indipendentisti non sono necessariamente di sinistra, difficilmente sono di destra e la composizione sociale dell’indipendentismo attuale non ha come obiettivo il sovranismo, ma la solidarietà sociale.

Intanto il governo Sanchez, in attesa del voto, gestisce gli affari correnti e si presenta come il governo dell’unità e della risposta ferma – ma non antidemocratica – alle rivendicazioni indipendentiste. Quasi contemporaneamente alla sentenza sono stati pubblicati, sull’account youtube de la Moncloa, dei video che esaltano l’unità spagnola. I video sono attualmente stati messi in modalità “privato” e ne è impedita la visione.

Ai video del governo Sanchez ha fatto eco Tsunami democratic, il gruppo che ha dato vita alle mobilitazioni di questi giorni. E lo ha fatto con un video appello, letto in inglese da Pep Guardiola, allenatore del Manchester ma soprattutto ex centrocampista del Barça. “Oggi è stata resa pubblica nello Stato spagnolo una sentenza che è un attacco diretto ai diritti umani”, esordisce Guardiola, che già nel 2017 era stato tra i protagonisti della campagna per il referendum.

Tsunami democratic è la novità di questo movimento: la sua prima uscita pubblica è del 2 settembre, con un tweet subito rilanciato dai principali leader politici dell’indipendentismo catalano, a cui hanno fatto seguito una serie di azioni dimostrative, con l’esposizione di enormi striscioni nelle piazze e allo stadio. Fino ad arrivare al giorno prima della sentenza, con il manifesto che chiedeva di “stare pronti”.

Il movimento, dietro al quale sono scese in piazza centinaia di migliaia di persone, si definisce pacifico. Ma l’immagine di una macchina che brucia ha un impatto maggiore su lettori e telespettatori, e a volte i giornalisti corrispondono alla definizione che ne dava Josep Suriñach, il “padre con la bambina in braccio” di cui abbiamo ascoltato prima l’accusa alla stampa: “infames, hienas y buitres. Unos hijos de puta” . Certo, di cassonetti ne sono bruciati mille, nel conteggio fatto sabato mattina, e altri ne bruceranno. Ma per capire la rabbia dei catalani in piazza non bisogna usare la calcolatrice. Non è un discorso di cifre, ma di storia.

Prossimo appuntamento convocato da Tsunami Democratic, il 26 ottobre.

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