Global Sumud Flotilla: in attesa della partenza per Gaza
Scritto da Barbara Schiavulli in data Settembre 6, 2025
Il nuovo rinvio della partenza della Global Sumud Flotilla ci prende come una piccola tempesta che ci rallenta, ma non ci ferma.
Siamo pronti, siamo carichi: avrebbe dovuto essere domani – domenica 7 settembre – e invece problemi tecnici e il maltempo che ha colpito le barche in arrivo da Barcellona – quelle a cui avremmo dovuto unirci – hanno ritardato la missione.
Ci incontreremo nel Mediterraneo centrale, con gli altri che hanno già conosciuto tempeste, avarie, e la compagnia di droni di sorveglianza.
La città che accoglie
Non che non sia piacevole aspettare in una Catania accogliente, con migliaia di persone che hanno sfilato tra i vicoli stretti della città e che lo rifaranno ancora oggi, alle cinque.
Tutta Italia manifesta solidarietà: dai portuali di Genova agli studenti universitari, fino al tassista che rifiuta il pagamento della corsa sussurrando: «È per una buona causa».
Un anziano, al passaggio del corteo, sventola una kefiah dal balcone.
Un bengalese esce dal suo negozietto sempre aperto con un foglio bianco in mano e una scritta improvvisata: “Free Palestine”.
Un bimbo in passeggino sfoggia una bandierina palestinese dipinta sulla guancia, fiero come se sapesse già di far parte di quel fiume umano che accompagna chi partirà verso Gaza.
Non eroi, ma umani
Qualcuno bisbiglia che siamo eroi, qualcun altro ironizza: «Ci toccherà andarli a riprendere, questi matti».
Ma non si tratta di eroismo: si tratta di essere umani, semplici persone. Si tratta di cura, degli altri.
Un fiume che scorre
Sfilano sindaci, parlano parlamentari, la piazza scandisce “Free, free Palestine” come un incantesimo che prova a evocare un mondo diverso: più giusto, più semplice, più a misura delle persone che lo vivono e non di chi lo sfrutta.
Ma non funziona così.
Siamo tanto distopici che chi crede nell’aiuto dell’altro diventa il nemico.
C’è bisogno di invertire la rotta.
Non tutti lo accettano: gli interessi economici sembrano non coincidere più con quelli della gente.
L’incontro necessario
Ed ecco che ci si prova. Si sceglie un lavoro, un gruppo, un obiettivo.
Nessuno di noi probabilmente si sarebbe mai incontrato se l’orrore di Gaza non ci avesse costretto nella stessa stanza calda, a fare esercitazioni per prepararci a un possibile attacco di chi non vuole che gli aiuti arrivino a chi ne ha bisogno.
Maria Elena Delia, portavoce italiana della Global Sumud Flotilla, instancabilmente cerca di spiegare cosa significhi mettere insieme tante barche, tante persone, tante storie.
Il mare e il viaggio
La meta conta, muove e ci smuove, ma conta anche il viaggio.
Perché attraversare il mare significa dimostrare che ogni limite può essere superato.
Anche i nostri.
Ogni barca ospita dieci persone: una convivenza stretta che lega per la vita, qualunque cosa accada.
C’è Mandi, 58 anni, egiziano nella delegazione svizzera: «Ogni legge è stata infranta, per questo sono qui» dice, raccontando dei film palestinesi che proietta nel suo quartiere.
C’è Carlo, 73 anni, imprenditore romano in pensione: «Abbiamo visto troppo dolore per sottrarci. Le emozioni non si riducono con l’età».
Il coraggio e la cura
Ci sono giovani e anziani, da ogni parte del mondo. Una ragazza, l’unica dal Brunei, completamente velata: sa che i soldati israeliani potrebbero strapparle il velo per umiliarla.
Ma è qui, da sola, lo stesso.
Qualcuno lo chiama coraggio, altri lo chiamano necessità: il bisogno di agire quando istituzioni e diplomazia restano impotenti.
Restano solo le persone normali, che normali non sono quando scelgono di cambiare la storia.
Chi non smette di provarci
Altri ci sono già passati.
Alcuni attivisti hanno anni di esperienza con l’occupazione, e non mollano.
C’è Stefano Rebora, arrivato con tonnellate di aiuti raccolti a Genova con Music for Peace e quell’inguaribile convinzione che “le persone si aiutano”.
C’è l’imbarcazione di Arci con parlamentari a bordo, quella di Emergency pronta ad affiancarci in caso di bisogno, insieme alla Freedom Flotilla, erede di 37 missioni precedenti.
La forza del tentativo
Al training psicologico, una terapeuta irlandese ha chiesto: «Cosa vi fa stare bene?»
I più fortunati hanno risposto: «Il mare».
Gaza ci aspetta. Sulla spiaggia scrive “benvenuti”.
Sa, come noi, che sarà difficile arrivare. Che forse non riusciremo neanche a salutarci da lontano.
Che forse gli aiuti, la cosa più importante, non sbarcheranno.
Ma la forza sta nel provarci. Nel tentativo.
Nel credere insieme che un sogno, quando diventa di tutti, può diventare possibile.
Gaza ci definisce
Le minacce esistono, la preoccupazione pure.
Ma davanti a 65mila morti, a bambini uccisi, amputati, resi orfani, la paura si trasforma in forza.
Basta pensare alle donne che partoriscono senza anestesia, agli uomini schiacciati dalle macerie, ai colleghi giornalisti uccisi perché raccontavano la verità.
Gaza ci definisce. E ci chiede di prendere posizione.
La nostra è questa: il mare non è un muro, è un viaggio verso l’altro.
Non criminali
E se qualcosa di brutto dovesse accadere, ci sono avvocati, esperti di diritto internazionale e marittimo, difensori dei diritti umani.
Ma soprattutto ci siete voi che leggete, guardate, scendete in piazza.
Amici, sconosciuti, colleghi, tutti quelli che da terra navigano al nostro fianco: perché chi porta aiuti, chi racconta, chi tenta di rompere un assedio ingiusto pacificamente non potrà mai essere considerato un criminale.
Foto in copertina: Barbara Schiavulli
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