Il prezzo della crisi
Scritto da Barbara Schiavulli in data Gennaio 31, 2019
CARACAS – In una sorta di pasticceria in mezzo a un incrocio di Caracas con sei euro, poco più dello stipendio mensile della maggior parte dei venezuelani si mangiano tre paste e si beve un caffè. Fuori una signora con una giacca rossa e i fuseaux viola si avvicina con aria pesta. Le diamo mezza brioche che ci è avanzata. “Vuoi un caffè?”, gli occhi verdi e intensi incorniciati dalle rughe che raccontano una vita difficile rispondono senza pensarci: “Potrei avere invece un pezzo di pane per far mangiare i miei nipoti?”. Ci sediamo sul marciapiede mentre lei si getta sulla brioches come se non mangiasse dal giorno prima. Tibisay Herrera non mangia davvero dal giorno prima. Mangia quando capita. Quando qualcuno le dà qualcosa. Abita nel barrio di Petare una delle zone più pericolose di Caracas, ha 56 anni, e ogni giorno viene in questo posto sperando che qualcuno le dia una mancia perché controlla le macchine.
Tre anni fa suo figlio è morto per una rapina, guidava una mototaxi e lei si è ritrovata con una nuora e 4 bambini. Poi la nuora ha avuto un’emorragia nel cervello e d’allora non ha più potuto lavorare. Lei mantiene tutti. Gli occhi intensi di Tibi si inumidiscono, la sua vita è troppo difficile da raccontare senza piangere e le lacrime le scendono seguendo il percorso delle rughe come cicatrici di un dolore esposto a tutti. In un mese fa 400 bolivar: 18 mila corrispondono a cinque euro, uno stipendio medio appunto.
Con 400 bolivar non vivi
Forse neanche sopravvivi. Sei uno zombie come tanti se ne vedono per strada, gente con le mani e la testa nei cassonetti, bambini spettinati di strada con magliette sporche che sfilano tra le macchine, tanti anziani arresi a una vita che non li abbandona senza soffrire.
Tibi tossisce, tira fuori un ventolin e dice che glielo ha regalato una signora della chiesa. E quando finisce? “Finito. Vado in qualche centro medico quando l’asma mi fa troppo male e mi fanno gratis un aerosol”. Poi ci spiega che una volta si faceva l’elemosina per i soldi, ora è per il cibo. “Come immagino il mio futuro? Lo vorrei solo diverso, ci erano state fatte delle promesse e non sono state mantenute. Non sono mai stata ricca, ma sono stata felice, soprattutto quando c’era mio figlio, ma ora si pensa solo a mangiare, mangiare, mangiare, perché la fame non ti abbandona mai, penso poi a quelle quattro creature e a quello che ne sarà di loro. Che cosa ho fatto per meritarmi questo?”.
All’Automercado di San Lorenzo, la gente sfila tra gli scaffali controllando il prezzo di ogni cosa. Neanche il 10 per cento della popolazione può permettersi di andare in un supermercato, ci sono dei banchi per strada, dei mercati più economici, nei supermercati solo persone che guadagnano in dollari, ma che per usarli devono cambiarli, sperando che nessuno ti voglia cambiare con il bolivar sovrano, l’ultima moneta stampata dal governo che ha tolto cinque zeri, ma nessuno li prende.
La gente gira guarda, controlla il prezzo e mette giù. Le cose più economiche sono la farina di mais, i fagioli, le sardine. Un kg di farina di mais costa 645 bolivar, ci vogliono 3600 bolivar per fare un euro. Le penne rigate della barilla, un kg, costano 4 euro, la carta igienica, 8 rotoli da un velo, 20 euro. Una confezione di pancarrè 60 centesimi. Una vaschetta di gelato al cioccolato 8 dollari. Però rispetto a due anni fa i supermercati non sono vuoti, le cose ci sono, “Cose che però nessuno può comprare”, fa eco Carlos Atay, uno chef che sta prendendo delle verdure per la sua classe di cucina. “Ormai siamo alla follia, prima in questo paese ci si divertiva, si andava alla spiaggia, si facevano un sacco di cose normali, ma questo accade con la cattiva gestione politica e la corruzione”. Il bancone della carne è vuoto ci sono dei poco invitanti petti di pollo che sembrano stati uccisi almeno due volte, costano 15.600 bolivar, 4 euro, 12 uova, un euro e qualcosa.
Qui trovate tutte le puntate del reportage di Barbara Schiavulli dal Venezuela per Radio Bullets.
Andare dal dentista a Caracas
Marieli Galve è una dentista, prende tutto il materiale che le serve all’estero perché lavora con i dollari altrimenti non lavorerebbe. Ha in mano un pacco di Scottex e scuote la testa, 20 mila bolivar, “E’ follia. Ormai solo una piccola parte di privilegiati può mettere piede in un supermercato. E non parliamo dell’acqua”. Parliamo invece dell’acqua, a Caracas è razionata per la cattiva manutenzione, alle sette di sera per mezzora tutti casa a farsi la doccia, lavare i piatti e a salvare l’acqua, a meno che hai i soldi e ti puoi costruire un pozzo. Marieli sta aspettando che il marito le trasferisca dei soldi sulla carta di debito per pagare il conto, puoi avere un tot al giorno, non di più. “La gente è affamata, noi tutto sommato siamo fortunati, ma mia madre ha 73 anni, ha una pensione di 7 dollari dopo aver fatto tutta la vita la maestra e se non ci fossi io? Se si ammalasse? Mi dicono tutti di andarmene ma io non voglio. Vedi i miei nonni sono venuti dalla Spagna dopo la guerra, hanno vissuto qui, si sono costruiti una vita, ma hanno sempre sentito la mancanza di qualcosa. Io questo non lo voglio. Contribuisco a questo paese con il mio lavoro e vorrei che la situazione cambiasse, che fosse questa situazione ad andare via, non io. La gente è tenuta per gli attributi grazie alla fame. La gente è così affamata che per una scatola di cibo farebbe qualsiasi cosa, così tengono i poveri. E’ una cosa vergognosa. E potete non crederci ma questa è una dittatura fatta di fame e povertà”.
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